La legge 23 giugno 1927, n. 1188, Toponomastica stradale e monumenti a personaggi contemporanei, prevede all’art. 1 che «Nessuna denominazione può essere attribuita a nuove strade e piazze pubbliche senza l’autorizzazione del prefetto o del sottoprefetto, udito il parere della regia deputazione di storia patria, o, dove questa manchi, della società storica del luogo o della regione».
La norma contempla l’ipotesi in cui occorre attribuire una denominazione ad una viabilità istituita ex novo distinguendosi per tale verso dalla diversa fattispecie in cui si vogliano modificare i nomi di “vecchie” vie o piazze disciplinata, invece, dal r.d.l. n. 1158 del 1923.
Orientamenti
La norma, secondo la giurisprudenza[1], risulta implicitamente abrogata, ai sensi dell’art. 1, comma 3, del d.lgs. 15 marzo 1997, n. 59 e dell’art. 1, comma 3 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, con il conferimento delle funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, non rientrando nelle materie di ordine pubblico.
Tuttavia, un recente arresto interpretativo[2] ritiene la disposizione ancora vigente ad opera del comma 1, dell’art. 1 del d.lgs. 1° dicembre 2009, n. 179 (regolante disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), in combinato disposto con l’allegato 1) allo stesso decreto, così come modificato dall’art. 1, comma 1, lettere a), b) e c) del d.lgs. 13 dicembre 2010, n. 213 e, successivamente, dall’art. 2, comma 50, del D.L. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10[3]: serve l’autorizzazione prefettizia[4].
Dunque, il Comune per attribuire:
- una nuova denominazione ad una strada, prima di procedere alla variazione della denominazione esistente, deve previamente chiedere ed ottenere l’autorizzazione del Ministero dei beni culturali, ai sensi dell’art. 1 del RDL 10 maggio 1923, n. 1158, convertito nella legge 17 aprile 1925, n. 473, trattandosi di mutazione della denominazione già sussistente[5];
- ovvero, l’autorizzazione prefettizia, di cui all’art. 1 della legge 23 giugno 1927, n. 1188, ove la scelta ricada sul nominativo di un personaggio contemporaneo[6].
Va aggiunto che il mutamento della toponomastica, a seguito di approvazione di una delibera giuntale, può essere ragionevolmente subordinato al rilascio della autorizzazione del prefetto, prevista dalla legge n. 1188 del 1927, non attribuendo immediati effetti alla propria determinazione, non incidendo, peraltro sulla sua possibilità di ricorrere avverso la medesima delibera, per il caso in cui essa divenga efficace[7].
Il caso
La sez. V del Consiglio di Stato, con la sentenza 12 luglio 2024, n. 6260, interviene per definire l’iter di approvazione di una nuova denominazione di strada, avendo cura di individuare il titolare della competenza, anche con riferimento alle preesistenti denominazioni (ossia, un cambio di nome, alias modifica) su impulso dei cittadini residenti (legittimati).
In effetti, questi ultimi avevano impugnato una delibera della Giunta comunale (e gli atti prefettizi) che stabiliva di intitolare le strade di una frazione, ancora prive di toponimo, ad alcune illustri figure femminili, pur in presenza di una storica denominazione, rivendicando il mantenimento della tradizionale denominazione della strada.
In primo grado, il TAR individuava il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria nell’operato delle Amministrazioni e, in particolare, l’Ente civico avrebbe dovuto considerare che la strada non era priva di denominazione (come erroneamente ritenuto) ma era ormai universalmente conosciuta con una determinata toponomastica, seppur non si trattasse di denominazione ufficiale (formale): andava, pertanto, applicato il procedimento di “cambio di denominazione”, previsto dal regio decreto-legge n. 1158 del 1923, convertito in legge n. 473 del 1925, e non il procedimento (invece seguito dal Comune e dalla Prefettura) di cui all’art. 1 della legge n. 1188 del 1927, che si riferisce alla diversa situazione in cui si debba dare un nome a “nuove” vie o piazze.
Merito
Nel merito il ricorso viene respinto.
Vengono subito chiarite le modalità da seguire per due distinti procedimenti di intitolazione, dove:
- per strada da “denominare”, non può che considerarsi una strada “nuova” (di recente costruzione), ossia priva di nome;
- mentre per “cambio di denominazione” si deve intendere una strada già da tempo esistente, avente una denominazione anche invalsa nella prassi, dovendo seguire un diverso procedimento di cambio del nome, disciplinato dal regio decreto-legge n. 1158 del 1923, come convertito, recante per l’appunto “Norme per il mutamento del nome delle vecchie strade e piazze comunali”.
Il Giudice di seconde cure, conferma, quindi, che dal tenore letterale delle disposizioni richiamate:
- la norma sul cambio del toponimo, di cui all’art. 1 del regio decreto-legge n. 1158 del 1923, come convertito, si riferisce in modo inequivoco a strade o piazze che abbiano già un “nome” che si intende cambiare;
- la diversa norma del 1927, invece, si riferisce a strade o piazze “nuove” e disciplina la prima attribuzione del nome: a differenza dell’altra previsione questa assume rilievo laddove una precedente denominazione non vi sia, o perché si tratta di infrastruttura stradale nuova, o perché, pur se non di recente costruzione, la strada o la piazza sia rimasta priva di denominazione.
Si comprende che siamo di fronte a due procedimenti diversi, come chiarito dalle circolari del Ministero dell’interno del 29 giugno 1981, n. 7, e quella del 10 febbraio 1996, n. 4, ove il cambio della toponomastica richiede una valutazione particolarmente delicata, che abbisogna di un’istruttoria approfondita sull’effettiva necessità di procedere in tal senso: ciò, avuto riguardo ai riflessi (disagi) sulla popolazione e sul carico di lavoro degli uffici comunali tenuti ad aggiornare i documenti (così, la circolare ministeriale del 10 febbraio 1996 segnala).
La norma contempla l’ipotesi in cui occorre attribuire una denominazione ad una viabilità istituita ex novo distinguendosi per tale verso dalla diversa fattispecie in cui si vogliano modificare i nomi di “vecchie” vie o piazze disciplinata, invece, dal r.d.l. 1158 del 1923.
Attività istruttoria
Nel caso concreto, l’Amministrazione non ha valutato la presenza di una precedente denominazione, ritenendo ugualmente lecito procedere con l’attribuzione di un nuovo nome: il mancato preventivo accertamento dell’uso effettivamente invalso nella comunità locale rende la procedura seguita illegittima, con l’inevitabile ricaduta (solare evidenza) del travisamento dei fatti, di una diversa e già esistente denominazione della strada.
Motivazione che si rafforza quando siamo in presenza di strade esistenti da decenni, dove la mancanza di una registrazione toponomastica non vale ad escludere che le stesse possano aver assunto nell’ambito della popolazione e delle istituzioni locali una propria denominazione consolidata la quale, attesa la valenza non costitutiva degli stradari comunali, possiede la stessa valenza identificativa di quella formale.
La preesistenza di un nome della strada, anche se mai attribuito con modalità formali e/o non risultante dagli stradari comunali (presente in atti provenienti dall’Agenzia delle Entrate, quale onere probatorio dei ricorrenti su una certa ufficialità del nome, non disconosciuto dall’Amministrazione civica)[8], rendeva comunque attuale l’esigenza sottesa alla ratio del procedimento di cambio del toponimo, che, come visto, è quella di astringere l’Amministrazione a una valutazione particolarmente ponderata circa le conseguenze e gli incomodi che derivano da simile iniziativa: aspetti del tutto mancanti (ignorati) nel procedimento errato di intitolazione.
[1] TAR Lombardia, Milano, sez. III, 8 ottobre 2001, n. 6663.
[2] TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 24 febbraio 2023, n. 1196.
[3] Cfr. la Circolare del Ministero dell’Interno n. 4 del 10 febbraio 1996, successiva all’istituzione delle Regioni avvenuta nel 1970, dove si invitano i Comuni a non procedere in modo del tutto autonomo a variare i toponimi senza chiedere alcuna approvazione al Prefetto, come previsto dalla normativa tuttora vigente, con una precisazione nel richiamare l’attenzione dei sindaci «sulla corretta applicazione delle surrichiamate disposizioni legislative e regolamentari – che rispondono a precise esigenze di ordine pubblico – evitando, inoltre, il ricorso generalizzato e frequente al mutamento dei toponimi esistenti, cui si procederà solo in base ad effettive necessità, da valutare d’intesa» con la Prefettura e il MI «considerati i disagi che tali iniziative possono arrecare ai cittadini per l’aggiornamento dei documenti in loro possesso e l’aggravio di lavoro a carico dei servizi comunali».
[4] La mancata autorizzazione prefettizia, trattandosi di una fase integrativa di efficacia, e non di un requisito di validità, non può costituire motivo sufficiente per qualificare come “illegittimo” il provvedimento che ne risulti privo, essendo onere dell’Amministrazione inoltrare la deliberazione per la necessaria autorizzazione, TAR Calabria, Catanzaro, sez. I, 13 febbraio 2017, n. 210. Cfr. la Circolare n. 83, prot. n. 0017395 del 23 giugno 2023, dove si chiarisce che il nulla osta del Prefetto di intervenire, rappresentando uno dei tipici atti di autorizzazione amministrativa, così come il parere della Deputazione di storia patria, «atti necessari a completare la fattispecie, ma non esprimono una valutazione sulla opportunità o congruità di una determinata denominazione. Dunque, il Comune è tenuto ad acquisirli in conformità alle attuali disposizioni normative, restando comunque l’esclusivo titolare e responsabile della funzione amministrativa di toponomastica… Al riguardo, questo Dipartimento, con precedenti circolari, ha avuto occasione di chiarire che, nel silenzio della legge, il parere espresso dall’organismo consultivo menzionato nell’articolo 1 della citata legge n. 1188/1927 (la Deputazione di storia patria) è da intendersi obbligatorio, ma non vincolante».
[5] TAR Sicilia, Catania, sez. I, 9 febbraio 2010, n. 171.
[6] TAR Lazio, sez. II, 7 marzo 1983, n. 199.
[7] Cons. Stato, sez. IV, 24 dicembre 2019, n. 8780.
[8] Le parti nel processo non possono sottrarsi all’onere probatorio di cui sono gravate, ai sensi dell’art. 2697 c.c. e pensare di poter rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività di un consulente: la CTU non è, infatti, qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2021, n. 8627.