Il conflitto di interessi di norma si presenta quando un soggetto si trova in una situazione di coinvolgimento personale, diretto e/o indiretto, che gli impedisce di procedere con imparzialità su una determinata questione, imponendo allo stesso un obbligo di astensione al fine di non compromettere la propria azione, assunta in uno stato di disequilibrio decisionale.
Si tratta di una situazione di “conflitto o di contrasto” che altera la capacità decisionale verso una qualsiasi utilità, diretta o indiretta, che si possa ricavare partecipando al procedimento amministrativo: la ratio dell’obbligo di astensione del pubblico funzionario, già stabilito con l’art. 290 T.U.L.C.P. 1915, va ricondotta al principio costituzionale dell’imparzialità dell’azione amministrativa e trova applicazione ogni qualvolta esista un collegamento tra la determinazione finale e l’interesse del votante o del titolare del potere decisionale, indipendentemente dell’esito del contenuto provvedimentale.
La condotta richiesta in presenza di queste eventualità si traduce nel “dovere di astensione”, istituto generalmente del diritto processuale civile e penale, che concerne la posizione del giudice e del pubblico ministero rispetto a determinati giudizi, consistente nella spontanea rinuncia a trattare i casi al fine di non compromettere la loro genuinità da una intrusiva sfera personale che può comprimere le libertà di determinazione imparziale.
L’imparzialità dell’azione amministrativa è notoriamente uno dei tre fondamentali pilastri, insieme alla legalità e il buon andamento, sui quali poggia l’intero statuto costituzionale dell’amministrazione italiana, espressione dell’immediata precettività dell’art. 97 Cost., quale idoneo parametro normativo di valutazione della legittimità dell’attività amministrativa, trattandosi di una declinazione, sul versante ordinamentale, del principio di uguaglianza, scolpito dall’art. 3 della Carta Fondamentale.
L’assenza di ogni conflitto di interessi deve coprire l’intera fase procedimentale, assumendo un “dovere di condotta” che può esulare la singola parte procedimentale ed esteriorizzarsi in relazioni e contatti precedenti alla stessa istaurazione (dell’avvio) del procedimento, ovvero nella prima dimensione del “contatto” con la parte.
La norma dell’articolo 6 bis, infatti è stata innestata nella Legge n. 241 dal comma 41, dell’art.1, della Legge n.190 del 2012, con lo scopo di prevenire anche a livello “potenziale” condotte di natura corruttiva, significando un dovere giuridico di impedire ad ogni soggetto pubblico (“il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici”) di intervenire in qualsiasi parte o fase del procedimento, negando alla radice ogni condizione o presupposto per influire sull’esito finale o istruttorio della decisione assunta.
L’interesse – in presenza del quale il pubblico ufficiale ha l’obbligo di astensione, che già non derivi da specifica disposizione – non solo non deve essere inteso come il vantaggio di natura patrimoniale, la cui realizzazione perfeziona il delitto di “abuso d’ufficio”, ma non è neppure sinonimo di lucro o di utilità, per cui comprende ogni “interesse personale”, anche non economico e del tutto affettivo, quale la finalità di favorire altri quando da ciò derivi per l’agente una situazione di vantaggio nella sfera personale delle sue relazioni sociali ed amicali.
Più in generale, la situazione di “interesse proprio o di un prossimo congiunto”, che obbliga all’astensione, si configura ogni qual volta il pubblico ufficiale si trovi in una situazione oggettiva potenzialmente idonea, secondo l’id quod plerumque accidit, a minare le condizioni di imparzialità in relazione all’esercizio della sua funzione, ponendo in conflitto, anche solo potenziale, l’interesse pubblico generale alla legalità con l’interesse proprio o dei prossimi congiunti o terzi.
I requisiti della patrimonialità attengono non all’interesse (in presenza del quale occorre astenersi) ma all’evento ex se: per l’interesse, invece, non vi è alcuna delimitazione proprio in ragione della sua “potenzialità” ad esprimere o coinvolgere il comportamento del soggetto agente.
Invero, il confitto di interessi coinvolge “i rapporti e le relazioni” tra le persone (o i terzi) e dovendo analizzare tali rapporti va posta l’attenzione al “rilievo ed intensità” con i quali si esplicitano concretamente, come nei casi in cui sussistano, tra i soggetti coinvolti, reciproci interessi di natura professionale ed economica; la frequentazione assidua o le relazione economiche (intercorrenti tra le parti), fanno deporre per una evidente presenza di un conflitto di interesse, dimostrando una “speciale” comunanza d’intenti che impone l’obbligo di astensione, essendo contrassegnata dai caratteri di sistematicità e di intensità, tale da dar luogo ad un vero e proprio “sodalizio”, venendo meno l’elemento della neutralità nella decisione.
In questo senso, expressis verbis l’aggettivo “potenziale” rimarca la volontà di impedire ad origine di realizzare l’evento (ossia il provvedimento) con l’intervento di forze esterne che possono influire sull’agire imparziale, la presenza di un interesse, sia pure larvato o allo stato di quiescenza, si riflette positivamente sulla decisione viziandola nella sua manifestazione concreta: è inciso il processo decisionale.
La presenza di un conflitto “anche potenziale” valorizza la ratio del legislatore nel comprimere ogni situazione di interferenza o privilegio, rendendo “assoluto” il vincolo di astensione, a fronte di qualsiasi posizione che possa, anche in astratto, pregiudicare il principio di “imparzialità”.
Tale obbligo non ammette deroghe ed opera per il solo fatto che il soggetto risulti portatore di interessi personali che lo pongano in conflitto, o anche solo in posizione di divergenza, con quello generale affidato alle cure dell’organo di cui fa parte ed a prescindere dall’applicazione della cosiddetta “prova di resistenza”; ed il concetto di “interesse” idoneo a determinare tale obbligo di astensione comprende ogni situazione di conflitto o di contrasto di situazioni personali, comportante una tensione della volontà, verso una qualsiasi utilità che si possa ricavare dal contribuire all’adozione di un provvedimento con riferimento a posizioni proprie o a interessi riferibili a soggetti legati da rapporti di parentela e affinità.
La peculiarità della norma, risente in via diretta delle misure normativamente individuate per contrastare i fenomeni di illegalità, misurare i meccanismi di formazione e controllo delle decisioni, dissolvere l’abuso di una posizione di responsabilità pubblica per ottenere un indebito profitto privato, e, più in generale, assicurare che l’uso del potere non avvenga a fini di un profitto privato, che ricomprende, in tal modo nel suo campo di applicazione, l’intero sistema e apparato amministrativo, compreso i soggetti privati esercenti una funzione pubblica.
La prima sezione del T.A.R. Abruzzo – Pescara, con la sentenza 24 aprile 2014, n. 195, interviene per delineare la posizione del responsabile del procedimento rispetto alla sua partecipazione in un procedimento di gara e al successivo annullamento in autotutela, ex art. 21 nonies della Legge n. 241/90, motivato dal supposto “conflitto di interesse” dovuto al fatto che “il figlio del Responsabile Unico del Procedimento (Rup)” era alle dipendenze della società aggiudicataria.
I richiami normativi fanno riferimento agli artt. 6 e 6 -bis, inserito dall’art. 1, comma 41 dalla Legge n. 190/2012, che stabiliscono come “il responsabile del procedimento e i titolari degli uffici competenti ad adottare i pareri, le valutazioni tecniche, gli atti endoprocedimentali e il provvedimento finale devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale”.
Il dato normativo, rileva il Giudice, è rivolto al responsabile del procedimento (Rup) che deve assumere una condotta attiva astenendosi dal svolgere qualsiasi azione istruttoria in presenza di un potenziale conflitto di interessi; di converso, nessuna preclusione di partecipazione alla selezione è posta in capo ai partecipanti ad una gara pubblica, né si può affermare che gli stessi siano o meno tenuti a verificare alcunché, potendo ignorare la parentela esistente e che comunque non avrebbe alcun altro mezzo per eliminare l’ostacolo, se non il licenziamento del proprio subordinato.
Queste considerazioni cogenti approdano all’impossibilità di configurare, neppure in via potenziale ed ai sensi dell’art. 6 bis della Legge n. 241/1990, alcun conflitto d’interessi tra l’attività preliminari del Rup e quella della Commissione di gara: fatti incontestati che possono essere de visu dimostrati dal dato fattuale riportato nei verbali di gara che attestano in modo inequivoco l’assenza del Rup in tutte le operazioni della Commissione: il verbale di gara è un atto pubblico facente piena prova, fino a querela di falso, dei fatti che il pubblico ufficiale, sotto la propria responsabilità, attesta essere avvenuti in sua presenza ed è, pertanto, illegittimo l’annullamento dell’aggiudicazione disposto dal responsabile del procedimento mettendo in dubbio la correttezza del procedimento di aggiudicazione come certificata nei verbali di gara, senza attivare il procedimento volto a dimostrare che il loro contenuto era falso, e che le indicazioni negli stessi contenuti non erano corrispondenti al vero.
Ciò posto, l’annullamento del Comune, assunto con una rigorosa quanto astratta applicazione dell’art. 6 bis della Legge n. 241 del 1990 e non trovando riscontro oggettivo di un, sia pur minimo, apporto decisionale in sede di valutazione di gara, consente al Tribunale di sentenziare che l’annullamento d’ufficio appare essere una soluzione “estrema ed abnorme della cd. mera legalità”.
Sarebbe stato corretto e coerente con l’ordine sistematico delle norme una valutazione “più un’attenta e ponderata” dell’intera procedura di gara, un’analisi critica della fattispecie sottesa all’obbligo di astensione, in considerazione del concreto svolgimento della gara e dell’avvenuta aggiudicazione, evidenziando – sul piano sostanziale – la prevalenza dell’interesse pubblico reale rispetto al mero rispristino della supposta legalità violata.
Queste considerazioni sono risolutive ai fini di manifestare la mancanza dell’interesse pubblico al rispristino della legalità, accertamento motivazionale indispensabile per azionare l’esercizio discrezionale dell’autotutela, non sussistendo nei confronti della P.A. un obbligo giuridico di pronunciarsi in maniera esplicita sulle segnalazioni dirette essenzialmente a ottenere provvedimenti in autotutela; invero, il potere di autotutela della P.A. va esercitato discrezionalmente d’ufficio, essendo rimesso alla più ampia valutazione di merito dell’Amministrazione, e non su istanza di parte e, pertanto, sulle eventuali istanze di parte, aventi valore di mera sollecitazione, non vi è alcun obbligo giuridico di provvedere.
Dall’insieme viene valorizzato e distinto il ruolo del Rup e della Commissione di gara, entrambi soggetti a doveri di condotta imparziale, negando ogni interferenza tra le parti e con l’esterno, assumendo comunque ogni decisione, anche la più demolitoria, non su semplici riscontri fattuali ma su concrete valutazioni (completa attività istruttoria) in grado di stabilire effettivamente la portata dei potenziali conflitti e delle loro segnalazioni, evitando (sembra di comprendere) l’applicazione delle norme sul piano dei valori astratti e su figure retoriche.
(Estratto, Commissioni di gara, responsabile del procedimento e conflitto di interessi, l’Ufficio Tecnico, 2014, n.5)