Nella pianificazione urbanistica l’Amministrazione pubblica può stabilire, nell’esercizio della sua discrezionalità, diverse forme di tutela del territorio con lo scopo, da una parte di valorizzazione il patrimonio edilizio di interesse culturale, storico ed ambientale, dall’altro assicurare un corretto sviluppo urbano su specifiche aree limitandone, o meno, l’espansione in relazione a finalità di interesse pubblico.
Si può allora sostenere che la destinazione di una determinata zona non è necessariamente dipendente dalla vocazione della stessa, ben potendo dipendere da altri fattori proiettati allo sviluppo in determinate direzioni, ovvero alla salvaguardia di precisi equilibri che possono risultare più opportuni e convenienti rispetto a scelte urbane e/o all’equilibrio ambientale.
Questo trova conferma dal fatto che, in assenza di una disciplina del territorio (c.d. “zone bianche”), sussiste un obbligo dell’Amministrazione di colmare al più presto tale lacuna mediante l’attivazione, anche da parte dei soggetti interessati, degli strumenti previsti per rispondere a questa mancanza decisionale.
Le disposizioni urbanistiche possono imporre precisi limiti al diritto di proprietà con caratteri direttamente precettivi o con efficacia meramente indicativa: le disposizioni si diversificano per la capacità di imporre limiti di destinazione e di inedificabilità, comprimendo il diritto di edificazione.
In linea generale, i tratti tipici dei vincoli si distinguono:
a. conformativi, per l’incidenza su una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dall’intera zona in cui questi ricadono: questo genere di vincoli, che regolamentano l’attività edilizia in funzione delle diverse zone in cui il piano regolatore è diviso non sono soggetti a decadenza, non costituiscono una manifestazione di potestà espropriativa e le limitazioni alla proprietà sono ammesse senza necessità di alcun ristoro economico, concretizzandosi in un modo d’essere della proprietà immobiliare;
b. espropriativi, per l’incidenza su beni determinati, comprimendo la facoltà di godimento e di utilizzazione del bene stesso, in funzione non già di una generale destinazione di zona ma della localizzazione puntuale di un’opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata ma ne esige la traslazione in favore dell’ente pubblico, e necessitano di un pagamento del loro valore.
Va subito riferito che la destinazione di un’area a zona cimiteriale, operata dallo strumento urbanistico generale, implica un vincolo di inedificabilità discendente ex lege da ragioni di tutela dell’igiene pubblica, quindi, avente natura conformativa e non espropriativa (T.A.R. Piemonte, sez. I, 12 gennaio 2012, n. 18).
La sesta sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza n.3410 del 4 luglio 2014, interviene sull’attività edilizia in fascia di rispetto cimiteriale e nello specifico nel diniego di permesso di costruire in sanatoria.
Il pronunciamento risulta di interesse perché affronta le tematiche sopra esposte e le conseguenze sugli edifici a seguito della riduzione della fascia di rispetto.
In effetti, osservano i giudici di Palazzo Spada, che il vincolo cimiteriale determina una tipica situazione di inedificabilità ex lege, suscettibile di venire rimossa solo in ipotesi eccezionali e comunque per considerazioni di interesse pubblico, in presenza di condizioni specificate nel comma 4 dell’art. 338, non anche per agevolare singoli proprietari, che abbiano effettuato abusivamente, o intendano effettuare, interventi edilizi su un’area, resa a tal fine indisponibile per ragioni di ordine igienico – sanitario, nonchè per la peculiare sacralità dei luoghi destinati alla sepoltura, senza esclusione di ulteriori esigenze di mantenimento di un’area di possibile espansione della cinta cimiteriale.
L’unico procedimento, attivabile dai singoli proprietari all’interno della fascia di rispetto, pertanto, è quello finalizzato agli interventi di cui all’art. 338, comma 7, dello stesso r.d. n. 1265/1934 (recupero o cambio di destinazione d’uso di edificazioni preesistenti), restando attivabile solo d’ufficio – per i motivi anzidetti – la procedura di riduzione della fascia inedificabile in questione.
La sentenza prosegue sostenendo che solo il Consiglio Comunale – non su istanza di singoli cittadini, ma per ragioni di interesse pubblico – può intervenire per ridurre l’ampiezza di detta fascia, precisando che la competenza in merito all’adozione di sanatorie su istanza dei cittadini è di competenza dirigenziale e non degli organi elettivi; precisazione a contrario che intende affermare la competenza del Consiglio Comunale nello stabilire eventuali deroghe (nella sua funzione di organi di indirizzo politico) rispetto agli atti di gestione di stretta competenza degli organi tecnici.
Il ragionamento seguito è quello che eventuali richieste di sanatoria non possono attivare un procedimento di riduzione del vincolo, non trovando spazio singoli interessi rispetto alle esigenze generali: la riduzione del vincolo deve rispondere ad interessi della collettività e non per risolvere posizioni uti singuli (sanando costruzioni all’interno dello spazio soggetto a vincolo assoluto di edificazione).
Questa linea interpretativa è coerente con l’onere motivazionale assunto per denegare la sanatoria: in presenza di un vincolo di inedificabilità assoluta, sussistente anche solo alla data di realizzazione dell’opera, il diniego emesso poteva, infatti, ritenersi sufficientemente motivato con la descrizione dell’abuso ed il richiamo alle disposizioni violate (Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2007, n.1185).