L’affidamento del canile comunale, ai sensi dell’art. 4 ultimo periodo della legge 14 agosto 1991, n. 281 (“Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”), avviene “direttamente o tramite convenzioni con le associazioni animaliste e zoofile o con soggetti privati che garantiscano la presenza nella struttura di volontari delle associazioni animaliste e zoofile preposti alla gestione delle adozioni e degli affidamenti dei cani e dei gatti”.
In effetti, anche se la gestione del canile è un “servizio pubblico locale” privo di rilevanza economica, questo non significa che l’affidamento non avvenga con gara e procedura competitiva, con la previsione cogente che i soggetti che partecipano alla selezione devono essere in possesso degli inderogabili requisiti di moralità previsti in capo a tutti i soggetti che, a qualunque titolo, concorrono all’esecuzione di appalti e servizi pubblici e intendano contrarre con la pubblica amministrazione (P.A.): tale requisito soggettivo rappresenta un fondamentale principio di ordine pubblico economico che trova applicazione anche nelle gare riguardanti appalti in tutto o in parte esclusi dall’applicazione del Codice dei contratti.
In questo contesto, la disciplina generale (ex artt. 4, comma 6 del d.l. n. 95/2012) ha inteso obbligare le P.A. ad acquisire servizi resi da soggetti di diritto privato, di cui agli articoli da 13 a 42 del cod. civ., soltanto mediante “procedure previste dalla normativa nazionale in conformità con la disciplina comunitaria”; con un distinto precetto, per il quale è possibile individuare un’autonoma sfera di applicazione, vietando ai medesimi enti, “che forniscono servizi a favore dell’amministrazione stessa, anche a titolo gratuito” di “ricevere contributi a carico delle finanze pubbliche”.
L’insieme approda ad affermare che l’affidamento diretto in convenzione, alle associazioni protezionistiche o animaliste della concessione di gestione dei “servizi pubblici” aventi ad oggetto il ricovero e la custodia dei cani (iscritte nell’albo regionale), anche se non perseguono fini di lucro e siano ispirate da principi solidaristici non sono di per sé sottratte all’applicazione delle regole dell’evidenza pubblica e dei connessi requisiti.
Ciò posto, appare evidente che l’ente locale nell’esercizio della sua discrezionalità amministrativa nell’individuazione delle modalità di gestione, qualora intenda assegnare la gestione del servizio ad un soggetto esterno dovrà espletare una procedura concorsuale, oppure potrà gestire il servizio stesso mediante gli istituti previsti dal d.lgs. n. 267/2000 in convenzione con altre amministrazioni locali, secondo le previsioni degli art. 30 e ss. del Testo Unico degli Enti Locali (TUEL), e più in generale mediante accordo tra P.A. (ex art. 15 della legge n. 241/1990).
In termini diversi, la scelta di operare la gestione diretta senza ricorrere al mercato rientra nell’esercizio della funzione pubblica assegnata all’amministrazione a cui sono affidate competenze su beni e servizi in nome e per conto della collettività, confermando che la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell’ente pubblico, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 241/1990, devono essere ispirate a criteri di economicità e di efficacia secondo il canone indicato nell’art. 97 Cost., per cui la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione del rapporto tra gli obiettivi conseguiti e i costi sostenuti, soprattutto ove sia accertato che tali costi (esterni) siano superiori.
Il T.A.R. Veneto, sez. I, con la sentenza n. 665 del 24 giugno 2016 è intervenuto per dirimere una controversia che veniva intentata da un’associazione di settore (onlus) a fronte della scelta di alcune amministrazioni locali (Unione e Comuni) di gestire – in forma associata attraverso un protocollo d’intesa – il servizio di custodia, ricovero, mantenimento e l’affidamento dei cani e gatti randagi e/o vaganti catturati nel territorio degli enti.
Il giudice di prime cure, richiamava il quadro normativo della disciplina regionale che espressamente ammetteva che “i comuni, singoli o associati, assicurano mediante la gestione dei rifugi il ricovero, la custodia ed il mantenimento dei cani vaganti o randagi. La gestione dei rifugi può essere affidata ad associazioni protezionistiche iscritte all’albo… tramite apposite convenzioni”, e, in attuazione dell’articolo 3 comma 2 della legge 14 agosto 1991, n. 281, la Giunta regionale era incaricata ad individuare i comuni ove ubicare i rifugi per cani, determinando altresì la percentuale di partecipazione di ogni comune all’onere connesso alla costruzione e alla gestione di ciascun rifugio.
Su tali basi e premesse normative veniva approvato il protocollo d’intesa, giacché non tutti i Comuni disponevano di un canile – rifugio e che, conseguentemente, alcuni partecipavano alla spesa economica sostenuta dai comuni sede dei canili: l’Unione ha ritenuto di ricorrere ad una forma di condivisione del servizio di custodia e ricovero degli animali randagi tra i comuni interessati, utilizzando la struttura già in uso presso il comune capofila.
Da queste premesse normative risulta coerente la previsione di un servizio associato di gestione del servizio di rifugio, ricovero, custodia e mantenimento degli animali randagi, essendo solo contemplato quale mera possibilità che la gestione possa essere affidata ad associazioni protezionistiche; tale affidamento, però, costituisce una mera possibilità, in quanto in via ordinaria la gestione dei rifugi spetta ai comuni e tale gestione, per espressa previsione normativa, può avvenire sia singolarmente che in via associata.
Con riguardo al profilo adombrato di una forma di “concorrenza sleale” rispetto alle associazioni operanti in tale campo non è neppure ipotizzabile, atteso che è la stessa previsione normativa che affida la gestione dei rifugi ai Comuni, i quali partecipano, sotto il profilo finanziario, alla realizzazione ed alla gestione dei medesimi in un processo di razionalizzazione della spesa e di allocazione territoriale da parte della programmazione regionale.
In definitiva, sostiene il tribunale non può affermarsi che tale operazione organizzativa possa trasformare l’ente locale in un operatore economico privato, proprio perché il richiamo normativo è fortemente orientato a pretendere una gestione diretta o tra amministrazioni e solo come facoltà successiva quella di rivolgersi all’esterno con la concessione alle associazioni o ai privati.
(estratto, Considerazioni sulla gestione associata del canile comunale, L’Ufficio tecnico, 2017, n. 10)