È illegittimo vietare il consumo di cibo portato da casa nei locali adibiti a refezione scolastica e durante tale servizio.
La controversia oggetto di intervento della quinta sez. del Cons. Stato, con la sentenza n. 5156 del 3 settembre 2018, nella sua essenzialità affronta una questione che un tempo costituiva la normalità: consumare in classe il mangiare portato da casa, senza beneficiare del pasto fornito dalla scuola.
Il ricorso vede come parte appellante un’Amministrazione locale contro un gruppo di genitori di alunni frequentanti le scuole materne ed elementari che si erano opposti alle determinazioni del Consiglio comunale che prevedeva l’obbligatorietà – per tutti gli alunni senza alcuna distinzione – del servizio di ristorazione scolastica, mentre nulla diceva sul consumo di merende in orario scolastico (che pure risulta essere un piccolo pasto).
Le determinazioni consiliari di istituzione e regolamentazione del servizio di refezione scolastica, oltre a imporre un limite alla libertà di mangiare come meglio ritenevano opportuno i genitori (la cura dei propri figli comprende l’educazione alimentare, si tratta della tutela dei c.d. diritti sociali alla salute, all’assistenza, all’istruzione), disponeva un precetto a favore dell’appaltatore del servizio sull’uso esclusivo dei beni pubblici: nei locali in cui si svolgeva la refezione scolastica era inibito il consumo di cibi diversi da quelli forniti dall’operatore economico.
Una evidente privativa sul cibo e sui luoghi: una sorta di “daspo” per il consumo del “panino” fatto in casa.
La motivazione, ex art. 3 della legge n. 241/1990, fondava sul presupposto che «il consumo di parti confezionati a domicilio o comunque acquistati autonomamente potrebbe rappresentare un comportamento non corretto dal punto di vista nutrizionale, oltre che una possibile fonte di rischio igienico sanitario».
La questione nella sua istruttoria procedimentale non comprendeva una relazione tecnico/sanitaria sugli effetti potenzialmente nocivi di una condotta abituale un tempo (portasi il cibo da casa), nemmeno si riscontravano negli atti endoprocedimentali ragioni giuridiche giustificative (cfr. T.R.G.A., sez. Bolzano, 22 marzo 2017, n. 107).
Il giudice di appello, nell’esaminare le eccezioni di difetto di giurisdizione e di interesse del ricorso, precisa che:
- la controversia attiene al legittimo esercizio di un potere autoritativo;
- la natura fondamentale del diritto all’istruzione non è di per sé sufficiente a ritenere devolute le controversie che ad esse si riferiscono alla giurisdizione del giudice ordinario (Cass., SS.UU., 25 novembre 2014, n. 25011);
- l’espletamento di poteri pubblicistici che attengono alla cognizione dei diritti fondamentali costituzionalmente protetti trova tutela piena e conforme anche di fronte al giudice amministrativo (Corte Cost., 27 aprile 2007, n. 140), atteso che nessuna regola o principio generale riserva in via esclusiva alla cognizione del giudice ordinario (Cons. Stato, Ad. plen., 12 aprile 2016, n. 7), garantendo, pertanto, la piena tutela dei diritti in sede del G.A. (Corte Cost., 27 aprile 2007, n. 140);
- l’art. 133 Cod. proc. amm., comma 1, lett. c), devolve alla giurisdizione amministrativa esclusiva le controversie in materia di pubblici servizi relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo;
- la norma regolamentare risulta auto applicativa (c.d. regolamento self-executing) non richiedendo alcun provvedimento attuativo da parte dell’Amministrazione scolastica o del Comune, con riflessi operativi immediati sugli alunni, ergo una lesione attuale e diretta (Cons. Stato, V, 2 novembre 2017, n. 5071).
Su questo ultimo aspetto, occorre tenere distinti i regolamenti amministrativi insuscettibili di produrre una lesione attuale della sfera giuridica altrui (che non devono formare oggetto di impugnativa autonoma nel termine decadenziale), dai regolamenti invece contenenti disposizioni immediatamente lesive, che vanno subito impugnati onde evitare la stabilizzazione dei relativi effetti (Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 2917/2016).
Da queste premesse, si giunge al pronunciamento:
- incompetenza assoluta del Comune (spingendosi ultra vires) di imporre prescrizioni ai dirigenti scolastici, limitando la loro autonomia con vincoli in ordine all’uso della struttura scolastica e alla gestione del servizio mensa;
- gli obblighi imposti interferiscono con la disciplina scolastica del diritto degli alunni di consumare il cibo portato da casa, pur sempre ammesso con le dovute cautele e precauzioni (questione in attesa di una pronuncia della Corte di cassazione);
- assenza di un supportato motivazionale delle ragioni di pubblica salute o igiene sul bilanciamento del consumo di cibi portati da casa da quelli forniti dalla scuola;
- nessuna dimostrazione di interessi opposti pubblici o generali del divieto;
- indimostrata pericolosità del cibo portato da casa o acquistato autonomamente;
- motivazioni irrispettose delle libertà individuali e apodittiche, non corrispondenti ai canoni di idoneità, coerenza, proporzionalità e necessarietà rispetto all’obiettivo dichiaratamente voluto.
Tali divieti, riassumono i Giudici di Palazzo Spada, limitano «una naturale facoltà dell’individuo – afferente alla sua libertà personale – e, se minore, della famiglia mediante i genitori, vale a dire la scelta alimentare: scelta che – salvo non ricorrano dimostrate e proporzionali ragioni particolari di varia sicurezza o decoro – è per sua natura e in principio libera, e si esplica vuoi all’interno delle mura domestiche vuoi al loro esterno: in luoghi altrui, in luoghi aperti al pubblico, in luoghi pubblici».
Inoltre, impedire tassativamente la permanenza nei locali scolastici per gli alunni che intendono consumare cibi portati da casa (o acquistati autonomamente) si rivela affetta da eccesso di potere per irragionevolezza, in quanto misura inidonea e sproporzionata rispetto al fine perseguito.
Una breve osservazione annota che la sentenza non salva nessuna parte dei divieti imposti, si pongono come limiti all’educazione genitoriale, non reggono su alcun fondamento giuridico (o di opportunità), quasi a dimostrasi una misura “diseducativa” visto che il “tempo-mensa” si intende compreso nel modello unitario del processo educativo, considerato un importante e continuo momento di educazione e di promozione della salute, che coinvolge sia gli alunni che i docenti.
Va, in ogni caso, rammentato l’orientamento secondo il quale compete all’Amministrazione il compito di fissare le condizioni e i limiti e, più in generale, la cornice delle linee organizzative e delle modalità procedurali entro la quale si attua il servizio pubblico finalizzato alla soddisfazione del diritto primario interessato: il servizio refezione scolastica.
È noto, altresì, che il servizio di ristorazione scolastica è pacificamente ritenuto un servizio pubblico locale a domanda individuale e cioè che l’Ente locale non ha l’obbligo di istituirlo e che si tratta comunque di un servizio attivabile a richiesta degli interessati (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 27 febbraio 2018, n. 556, idem T.A.R. Piemonte, 31 luglio 2014, n. 1365).
Fuori dai vincoli specifici posti dalla legge e da oggettivi criteri di economicità e di appropriatezza, le scelte organizzative in questa materia rientrano nella sfera di massima discrezionalità politico-amministrativa, demandata all’Amministrazione: il giudice amministrativo deve cioè limitarsi a valutare se sussistano in questo apprezzamento profili di evidente illogicità, di contraddittorietà, di ingiustizia manifesta, di arbitrarietà o di irragionevolezza nella scelta amministrativa (Cons. Stato, sez. III, sentenze nn. 3297/2016; 2501/2016 e 604/2015).
Nel contesto dei servizi scolastici per l’infanzia, organizzato secondo principi di universalità e appropriatezza, il diritto del singolo assistito va raccordato all’eguale riconoscimento delle medesime prestazioni, a parità di sostanziali condizioni, a favore degli altri aventi diritto, in una situazione in cui alla configurazione varabile, per quantità e per qualità, della domanda corrisponde la limitatezza delle strutture pubbliche e il sempre più rigoroso contenimento delle risorse finanziarie, sottoposte a vincoli di bilancio assai stringenti (vedi, con riferimento alle omologhe prestazioni sanitarie, Cons. Stato, sez. III, sentenza n. 5538/2015).
Da questo l’approdo: il riconoscimento del diritto di consumare pasti conformi alle proprie convinzioni etico-filosofiche, all’interno di una struttura educativa pubblica, non è assoluto e incontra limiti sia esterni, posti dall’esistenza di diritti costituzionali di pari rango, che interni, connaturati all’assetto organizzativo dell’Amministrazione e dal sistema di erogazione del servizio mensa scolastica (T.R.G.A., sez. Bolzano, 31 gennaio 2018, n. 35).
Sorprende che anche queste questioni, che sembrano minime (ma non lo sono), siano risolte dal giudice: ma «è possibile desumere dalle piccole cose quelle più grandi (si parva licet componere magnis)… il giudice amministrativo nel nostro ordinamento non può rifiutarsi di dare una risposta alla domanda di giustizia» (VIRGA, Il giudice amministrativo alle prese con il genitore vegano (note a margine di TRGA, Sez. Bolzano, sentenza 22 marzo 2017, n. 107), LexItalia, 26 marzo 2017.
In definitiva, se il “servizio mensa” può essere organizzato anche con limitazioni sul menu (si può anche non erogare pasti vegani) questa circostanza, seppure legittima, non può mai estendersi sino a impedire – all’interno della scuola o dei locali adibiti a mensa – il consumo di un pasto autoprodotto, potendo mangiare il cibo portato da casa o autonomamente acquistato anche quando è presente (e in coincidenza) un servizio ristorazione scolastica.
Stesse conclusioni era giunta la Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1049 del 21 giugno 2016: «deve accertarsi il diritto degli appellanti (i genitori, n.d.a.) di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica ed il pasto domestico da consumarsi nell’ambito delle singole scuole e nell’orario destinato alla refezione».