La seconda sezione del T.A.R. Lombardia, Milano, con la sentenza 25 gennaio 2019 n. 153, interviene per definire la legittimazione processuale dei consiglieri comunali in relazione alle attività inerenti la funzione pubblica esercitata, con riferimento specifico agli atti adottati dal Consiglio comunale: sussiste solo per la violazione delle prerogative inerenti lo status.
Il fatto nella sua essenzialità: un consigliere comunale di minoranza impugna la deliberazione del Consiglio comunale, avente ad oggetto l’adozione del Piano di governo del territorio, chiedendo altresì la condanna dell’Amministrazione al risarcimento dei danni.
Nel ricorso viene contestata la deliberazione di adozione del P.G.T., in quanto avrebbe partecipato alla relativa seduta consiliare ed espresso il proprio voto favorevole anche un altro consigliere comunale, che avrebbe dovuto astenersi in ragione della sua posizione di conflitto di interessi legata alla pianificazione di un’area di proprietà di un affine entro il quarto grado, rilevando che l’astensione di questi avrebbe determinato il venir meno del numero legale nella seduta, e conseguentemente dell’atto approvato.
La violazione dell’obbligo trova ragione nella fonte statutaria, nell’art. 97 Cost. e nello specifico dell’art. 78, comma 2, del D.Lgs. n. 267 del 2000 (c.d. TUEL) che così dispone «Gli amministratori di cui all’articolo 77, comma 2, devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L’obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado».
Occorre rammentare che la norma del TUEL è espressione di un obbligo generale di astensione dei membri di collegi amministrativi che si vengano a trovare in posizione di conflitto di interessi perché portatori di interessi personali, diretti o indiretti, in contrasto potenziale con l’interesse pubblico.
Il conflitto d’interessi, nei suoi termini essenziali valevoli per ciascun ramo del diritto, si individua nel contrasto tra due interessi facenti capo alla stessa persona, uno dei quali di tipo «istituzionale» ed un altro di tipo personale: in particolare, come emerge dal tenore letterale dell’art. 78, comma 2, del D.Lgs. n. 267 del 2000 e dalla sua ratio, la regola generale è che l’amministratore debba astenersi al minimo sentore di conflitto di interessi, reale o potenziale che sia (T.A.R. Puglia, Bari, sez. I, 8 luglio 2014, n. 850).
La difesa civica, in particolare eccepiva (ed è la questione dirimente) l’inammissibilità dell’intero gravame sul presupposto che il ricorrente, agendo nella qualità di consigliere comunale, non risulterebbe legittimato ad impugnare le delibere assunte dall’organo consiliare di cui fa parte.
È noto, infatti, che la legittimazione dei consiglieri comunali dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera giuridica (Cons. Stato, sez. V, 7 luglio 2014, n. 3446).
Il Giudice di prime cure, dopo aver esaminato le eccezioni in relazione alla tardività del ricorso, si pronuncia sull’ulteriore eccezione – attinente alla mancanza di legittimazione attiva – ritenendola fondata e condannando il consigliere comunale ricorrente alle spese di giudizio a favore dell’Amministrazione civica resistente.
Nella sua essenzialità, si evidenzia che il consigliere comunale, nel censurare la legittimità di alcune deliberazioni relative all’adozione e all’approvazione del P.G.T., non avrebbe dedotto la lesione del proprio munus, quanto un’asserita violazione della normativa contenuta nel TUEL sulla prevenzione dei conflitti di interessi tra gli amministratori e gli amministrati.
Una consolidata giurisprudenza afferma che non sussiste alcuna legittimazione in capo ai consiglieri comunali ad impugnare atti che non risultano direttamente lesivi del proprio munus: i consiglieri comunali, in quanto tali, non sono legittimati ad agire contro l’Amministrazione di appartenenza, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi dello stesso ente, ma è rivolto a risolvere controversie intersoggettive.
Si riconferma che i singoli consiglieri possono impugnare le deliberazioni consigliari quando venga in rilievo «atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, dovendosi escludere che ogni violazione di forma o di sostanza nell’adozione di una deliberazione, che di per sé può produrre un atto illegittimo impugnabile dai soggetti diretti destinatari o direttamente lesi dal medesimo, si traduca in una automatica lesione dello ius ad officium».
Inevitabilmente si annota che la legittimazione al ricorso può essere riconosciuta al consigliere solo quando i vizi dedotti attengano:
- ad erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare;
- alla violazione dell’ordine del giorno;
- alla inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare;
- più in generale, laddove sia precluso in tutto o in parte l’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 7 luglio 2014, n. 3446; T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 7 novembre 2018, n. 6473 e 5 giugno 2018, n. 3710).
L’approdo comporta l’inammissibilità del ricorso in assenza della dimostrazione di una lesione ai diritti del consigliere comunale, non rilevando gli ulteriori profili indicati nel ricorso e in memoria di replica giacché la legittimazione ad agire non risiede nella deviazione dell’atto impugnato rispetto allo schema normativamente previsto, quando da essa non derivi la compressione di una sua prerogativa inerente all’ufficio.
Il pronunciamento si allinea con un recente precedente del T.A.R. Veneto, sez. I 26 novembre 2018 n. 1078, dove si statuisce che il consigliere comunale, in linea generale, non è legittimato ad impugnare le deliberazioni collegiali (del consiglio o della giunta) in ragione della sola qualità di componente che non abbia condiviso le determinazioni della maggioranza o quelle dell’organo esecutivo in assenza di una lesione alle facoltà inerenti lo status pubblico: è legittimato, semmai e al pari di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, ad impugnare le deliberazioni emanate dal Consiglio comunale quando esse ledano un suo interesse personale diretto: il consigliere non può impugnare le deliberazioni con le quali è semplicemente in disaccordo, perché ciò significherebbe trasporre e continuare nelle sedi di giustizia la competizione che lo ha visto in minoranza, gravando le sedi medesime di decisioni che competono all’organo collegiale elettivo (Cons. Stato, sez. V, 2 dicembre, 2015, n. 5459).
Il principio enunciato si regimenta nella massima secondo la quale un ricorso di singoli consiglieri contro l’Amministrazione di appartenenza può ipotizzarsi soltanto se vengano in rilievo atti incidenti in via diretta sul diritto all’ufficio dei medesimi e, quindi, su un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere (Cons. Stato, sez. V, 12 febbraio 2018, n. 1549).