La prima sez. Bologna del T.A.R. Emilia Romagna, con la sentenza n. 462 del 21 maggio 2019, interviene sull’illegittimità di un provvedimento disciplinare basato sull’errata rappresentazione della sfera privata dell’interessato: consapevolezza dei fatti da parte di un agente della Polizia di Stato.
Pare giusto rammentare che per i dipendenti della P.A. anche il comportamento nella vita privata può assumere rilievo ai fini disciplinari, qualora in contrasto con le discipline interne per aver mantenuto magari un contegno tale da “ingenerare rimarchi”: una condotta al di fuori del servizio che assume rilievo di meritevolezza, incidendo sulla carriera professionale, valutata secondo il più rigoroso parametro dell’esigibilità relativa ad un appartenente ad una determinata Amministrazione dello Stato.
In termini diversi, taluni comportamenti estranei alla propria funzione (al lavoro prestato) rilevano in una prospettiva funzionale all’esigenza di tutela dei “valori” dell’Istituzione di appartenenza (da cui dipende e presta servizio), sicché le condotte “irreprensibili” devono essere sempre mantenute in funzione della fiducia riposta dai consociati nei suoi appartenenti.
L’immagine pubblica si proietta inevitabilmente nei suoi membri e i comportamenti vanno valutati anche se non attengono direttamente sullo svolgimento dei compiti affidati, ma comunque quelli che siano suscettibili di incidere sul prestigio, di cui quel determinato apparato pubblico deve godere di stima (alias fiducia) presso l’opinione pubblica[1].
In effetti, sotto altro profilo il “danno all’immagine” della Pubblica Amministrazione è una figura enucleata dalla giurisprudenza contabile per dare tutela alla lesione della credibilità e del prestigio dell’Amministrazione quando condotte illecite del pubblico dipendente (ex art. 54 Cost.) incrinano la rappresentazione, appunto, dell’immagine di questa come univocamente ispirata a criteri di buon andamento e corretta amministrazione delle risorse pubbliche, di cui all’art. 97 della Costituzione[2].
Un danno non patrimoniale inteso come vulnus in sé all’immagine e alla moralità della P.A., rilevando il particolare atteggiarsi del danno che deve necessariamente tenere conto della peculiarità del soggetto tutelato e della conseguente diversità dell’oggetto di tutela, rappresentato dall’esigenza di assicurare il prestigio, la credibilità ed il corretto funzionamento degli uffici della Pubblica Amministrazione[3].
Fatte queste brevi considerazioni, sotto il profilo fattuale il ricorrente aveva allacciato una relazione sentimentale con una donna, e successivamente (un anno dopo) risultava «che questa donna, all’insaputa del ricorrente, ha girato due film hard all’estero», con la conseguenza (per il ricorrente) di ricevere una sanzione disciplinare per avere «intrattenuto una relazione con una porno-star»: comportamento in contrasto con la disciplina regolamentare di servizio.
Il ricorrente denuncia la violazione del principio dell’obbligo di motivazione del provvedimento e del fatto che l’Amministrazione procedente non avrebbe tenuto nelle debite considerazioni le giustificazioni presentate in sede di contradittorio, ovvero di essere stato del «tutto all’oscuro della “professione” intrapresa dall’allora convivente e di aver interrotto tale convivenza non appena reso edotto dei fatti».
È noto, in via di principio, che un difetto di istruttoria si riflette sul difetto di motivazione per la violazione della garanzia di partecipazione procedimentale che la P.A. deve assicurare, in relazione anche alla norma di ordine generale, di cui all’art. 10, lett. b), della Legge n. 241/1990, a mente del quale gli interessati hanno diritto «di presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento».
L’Amministrazione, pertanto, era senza dubbio tenuta a valutare in fase istruttoria le deduzioni dell’interessato ai fini del legittimo esercizio del proprio potere (disciplinare), potere che è connotato da margini di discrezionalità e che, ove esercitato, deve tenere comunque conto degli elementi di valutazione (difesa) introdotti dall’interessato, dovendo ammettere, in astratto, che valorizzando gli argomenti e le circostanze dedotte dal ricorrente, si sarebbe potuto pervenire a diversa conclusione del procedimento.
L’adozione del provvedimento sanzionatorio senza l’esame (confutazione) delle osservazioni difensive, ovvero senza alcun riferimento in motivazione delle circostanze fattuali avversate profila il vizio di eccesso di potere per difetto di istruttoria, in quanto l’attività espletata si appalesa come incompleta e lacunosa, svolta senza assumere gli elementi giuridici e valutare appieno le circostanze introdotte nel procedimento: la prova.
Si comprende che l’Amministrazione deve enunciare compiutamente le ragioni che intende assumere a fondamento del suo pronunciamento, specie se sanzionatorio, integrando nella determinazione conclusiva le argomentazioni finalizzate a rigettare la fondatezza delle osservazioni formulate dall’interessato nell’ambito del contraddittorio attivato: vi è la necessaria esigenza di dimostrare compiutamente gli elementi posti alla base della sanzione:
- la prova della condotta censurata;
- la sua consapevolezza (anche solo a titolo di colpa).
Infatti, tale evidente modus procedendi permette di assolvere la funzione del contraddittorio sostanziale, consentendo un effettivo ed utile confronto dialettico con l’interessato prima della formalizzazione dell’atto disciplinare, evitando che tale onere di giustizia risulti compromesso.
Il giusto procedimento, impone che l’Amministrazione valutati gli elementi addotti dal ricorrente con evidente difetto di motivazione in assenza di tale valutazione.
L’omessa valutazione (sempre in linea generale) da parte dell’Autorità emanante delle deduzioni prodotte nel corso del procedimento dall’interessato si traduce in un vizio del provvedimento, atteso che grava sull’Amministrazione, pena la vanificazione delle ragioni sottese al principio di partecipazione e del contraddittorio procedimentale, l’obbligo di esplicitare i motivi del mancato adeguamento alle osservazioni difensive svolte dai soggetti intervenuti nel procedimento, che in ambito disciplinare richiede la dimostrazione dei fatti addebitabili e dell’elemento soggettivo[4].
Il verboso richiamo conduce (anche ai sensi della specifica disposizione normativa dell’art. 17 del D.P.R. n. 737/1981, «Sanzioni disciplinari per il personale dell’Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti») alla violazione delle regole procedimentali, secondo le quali «il procedimento per irrogare il richiamo scritto o la pena pecuniaria deve svolgersi attraverso le seguenti fasi: contestazione scritta degli addebiti al trasgressore; acquisizione delle giustificazioni scritte dell’interessato; valutazione delle giustificazioni addotte e degli elementi raccolti; decisione».
È mancata, a dire del ricorrente, la dimostrazione del processo valutativo delle osservazioni: la mancata consapevolezza dell’attività svolta dalla convivente.
Detto in termini diversi, sarebbe venuta meno la funzione della partecipazione da parte dell’interessato a propria difesa, che – in ambito più generale del procedimento amministrativo – comporta un rilievo invalidante del provvedimento finale: deve riconoscersi effetto invalidante quando sia provato che l’Amministrazione non abbia neppure esaminato le osservazioni e le controdeduzioni formulate dall’interessato a seguito dell’invito a dedurre (la c.d. comunicazione dell’avviso di avvio del procedimento)[5].
Chiarita la mancanza di una motivazione, con riferimento puntuale alle memorie presentate, il ricorrente formula un ulteriore censura: la violazione dell’art. 3 «Elemento soggettivo» della Legge n. 689/1981: «Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. Nel caso in cui la violazione è commessa per errore sul fatto, l’agente non è responsabile quando l’errore non è determinato da sua colpa».
Ciò posto, il ricorso viene ritenuto fondato poiché è stata inflitta una sanzione amministrativa senza motivare sull’esistenza dell’elemento soggettivo sotto il profilo della colpa, atteso che il ricorrente non era a conoscenza della “nuova professione” della convivente.
È mancata un’accurata istruttoria probatoria.
L’Amministrazione non ha dato «la prova della consapevolezza da parte del ricorrente di convivere con una porno star», ovvero che «avesse continuato la relazione anche dopo aver appreso che la stessa aveva iniziato a muoversi nel mondo dei filmati porno».
Mentre il ricorrente «ha provato di aver cambiato domicilio abbandonando la casa ove conviveva con la donna» (ha adempiuto al proprio onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza), donde «viene meno la tipicità della contestazione ed il provvedimento è illegittimo» (la P.A. non ha dato prova della fattispecie tipica dell’illecito).
Il fatto, nella sua essenzialità, dimostra l’esigenza di condurre un’accurata istruttoria, anche nei procedimenti disciplinari, tale da rendere trasparente il processo decisionale e rispondere compiutamente alle osservazioni presentate in sede di contestazione disciplinare, fornendo gli argomenti (la prova) in grado di respingere le dichiarazioni presentate, non potendo limitarsi ad applicare la sanzione senza alcuna giustificazione al riguardo, specie ove indispensabile per dimostrare l’elemento soggettivo.
In tema di sanzioni amministrative, ai sensi dell’art. 3 della Legge n. 689 del 1981, è necessario, quindi, al tempo stesso sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, giacché la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa, come nella fattispecie (a sua insaputa)[6]: il principio, tipico di tutti i sistemi sanzionatori (sia quello penale, art. 42 c.p., che quello amministrativo, art. 3, della Legge n. 689/1981) richiede che l’illecito deve essere ascrivibile almeno a titolo di colpa[7].
Dall’altro versante, si conferma che, qualora fosse stato dimostrato tale indispensabile elemento, la condotta extra ufficio di un agente (della P.S.) inciderebbe sicuramente sotto il profilo disciplinare quando la frequentazione di una persona:
- «non gode di pubblica estimazione perché protagonista di film hard»;
- «la vicenda fosse di dominio pubblico».
La sentenza n. 462 del 21 maggio 2019, della prima sez. Bologna del T.A.R. Emilia Romagna, conferma la centralità nel procedimento amministrativo dell’istruttoria dove «la motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione» (ex art. 3 della Legge n. 241/1990) mancando un elemento fondamentale del procedimento “la prova” della consapevolezza viene meno la tipicità della contestazione, effetto diretto di una carenza motivazionale.
[1] T.A.R. Lazio, Rom, sez. I bis, 19 febbraio 2016, n. 2218.
[2] Corte Conti, sez. giurisdizionale Puglia, 15 maggio 2013, n. 766.
[3] Corte Conti, sez. giur. siciliana, sentenza n. 686/2017.
[4] Cfr. T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 14 febbraio 2013, n. 383.
[5] Cfr. T.A.R. Piemonte, sez. I, 30 giugno 2011, n. 718.
[6] Cfr. Cass. Civ., sez. II, 14 febbraio 2018, n. 3577.
[7] In tema di sanzioni amministrative ai fini dell’affermazione della responsabilità del soggetto, occorre che l’azione o l’omissione causativa della violazione sia volontaria, ossia compiuta con coscienza e volontà, e colpevole, ossia compiuta con dolo o con negligenza, T.A.R. Piemonte, sez. II, 10 ottobre 2018, n. 1101.