La sez. VI del Consiglio di Stato, con la sentenza 25 maggio 2020 n. 3277 (Est. Lamberti), conferma un orientamento consolidato sull’insussistenza di un dovere generalizzato dell’Amministrazione di provvedere sulle istanze di autotutela, anche in campo edilizio.
È noto che il ricorso all’autotutela (mediante annullamento d’ufficio) può avvenire solamente ricorrendo alle condizioni di cui all’art. 21 nonies della legge n. 241/1990, ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Inoltre, con le modifiche introdotte dal D.L. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, sussiste uno sbarramento temporale all’esercizio del potere di autotutela, fissato in un termine «comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell’articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge».
Giova, altresì, rilevare che, oltre ai limiti legislativamente fissati, il ricorso all’esercizio del potere di autotutela incontra anche il limite della discrezionalità amministrativa, secondo un principio generale che governa l’esercizio del potere di autotutela da parte della P.A., valido anche nell’ipotesi in cui la richiesta di autotutela riguardi titoli abilitativi edilizi rimasti inoppugnati.
In termini diversi, non è configurabile alcun obbligo giuridico di provvedere espressamente sulla richiesta di annullamento/revoca presentata da terzi, la quale ha natura meramente sollecitatoria: l’obbligo contrasterebbe con le ragioni di certezza delle situazioni giuridiche e di efficienza gestionale che sono alla base dell’agire autoritativo della P.A., nonché con il principio dell’inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi, che non possono essere elusi mediante l’impugnazione del silenzio formatosi su un’istanza diretta a sollecitare l’adozione di provvedimenti di annullamento o di modifica di precedenti determinazioni non impugnate nei termini e nelle forme di rito[1].
L’appellante, proprietario di un fabbricato, aveva ricorso al fine di accertare l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune appellato in ordine all’istanza di revoca delle concessioni edilizie rilasciate che hanno sanato una situazione di abusività dell’immobile di proprietà del confinante (ricorso respinto dal T.A.R. non ravvisando un obbligo di provvedere il capo all’Amministrazione silente).
Si sollecitava l’esercizio del potere di autotutela in riferimento ad opere realizzate da oltre 30 anni ed assentite con titoli in sanatoria, ex legge n. 47/85 risalenti al 2001.
I giudici di secondo grado, delineano la fattispecie e l’esercizio del potere di autotutela, respingendo l’appello.
Si rileva subito che il titolo in sanatoria è stato legittimamente rilasciato e non vi è alcuna prova certa di una condotta dolosa da parte dei richiedenti (controinteressati) finalizzata a trarre in inganno l’Amministrazione: manca la prova né vi è alcun procedimento penale in tal senso.
Sotto altro profilo, il giudizio avverso il silenzio – inadempimento, ai sensi dell’art. 31 cod. proc. amm, presuppone, tra l’altro, che l’Amministrazione abbia violato il dovere di provvedere, ex art. 2 della legge n. 241/1990: nei procedimenti di secondo grado si esclude un obbligo di provvedere laddove l’istanza del privato sia volta a sollecitare il riesame di un atto divenuto inoppugnabile[2].
Infatti, laddove si ammettesse un generalizzato obbligo, in capo all’Amministrazione, di rivalutare un proprio provvedimento anche quando rispetto ad esso siano decorsi i termini per proporre ricorso, sarebbe vulnerata l’esigenza di certezza e stabilità dei rapporti che hanno titolo in atti autoritativi, con elusione del regime decadenziale dei termini di impugnazione.
Si conclude, quindi, secondo una giurisprudenza consolidata, che la richiesta avanzata dai privati nei confronti dell’Amministrazione al fine di ottenerne un intervento in autotutela è da considerarsi «una mera denuncia, con funzione sollecitatoria, che non fa sorgere in capo all’amministrazione alcun obbligo di provvedere»[3] giacché «i provvedimenti di autotutela sono manifestazione dell’esercizio di un potere tipicamente discrezionale dell’amministrazione che non ha alcun obbligo di attivarlo e, qualora intenda farlo, deve valutare la sussistenza o meno di un interesse che giustifichi la rimozione dell’atto, valutazione della quale essa sola è titolare»[4].
In ambito edilizio, la giurisprudenza[5] afferma che la P.A., a tali provvedimenti di secondo grado, deve comparare l’interesse pubblico con l’affidamento del destinatario dell’atto:
- un bilanciamento di interessi;
- una verifica dell’originaria illegittimità del provvedimento;
- una valutazione concreta e attuale dell’interesse pubblico alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata);
- una valutazione delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari nel permanere degli effetti prodotti.
A conclusione, la strada indicata, in presenza del pericolo derivante dalle opere sanate (paventate dall’appellante), può trovare ristoro avanti il giudice ordinario, in presenza dei relativi presupposti.
Rimane in capo all’Amministrazione, titolare del potere di controllo e vigilanza del territorio valutare eventualmente, qualora ritenuti fondati i fatti denunciati, di verificare se siano realmente ravvisabili condotte fraudolente da parte del richiedente la sanatoria, ovvero dolose omissioni atte a trarre in inganno l’Amministrazione, fermo il potere-dovere di intervenire laddove l’opera possa costituire un effettivo pericolo per l’incolumità pubblica, anche indipendentemente dall’annullamento dei titoli edilizi che la legittimano.
In definitiva, l’esercizio dell’autotutela rimane in capo alle facoltà dell’Amministrazione incensurabile nel merito (nei termini sopra descritti), non potendo il giudice sostituirsi con un facere[6].
[1] Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2018, n. 1945; sez. V, 7 novembre 2016, n. 4642; 22 gennaio 2015, n. 273; sez. IV, 26 agosto 2014, n. 4309; sez. V, 17 giugno 2014, n. 3095; sez. IV, 24 settembre 2013, n. 4714; sez. VI, 9 luglio 2013, n. 3634; sez. V, 3 ottobre 2013, n. 5199; 14 aprile 2009, n. 1610.
[2] Cons. Stato, sez. VI, sentenza n. 4504 del 2005.
[3] Cons. Stato, sez. VI, sentenza n. 2774 del 2012, e 767 del 2013.
[4] Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 1469 del 2010 e n. 4362 del 2008.
[5] Cons. Stato, sez. VI, sentenza n. 5018 del 2017 e n. 7172 del 2018.
[6] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 aprile 2020, n. 2540 e T.A.R. Lombardia, Brescia, sez. II, 18 marzo 2019, n. 236.