La sez. IV del Consiglio di Stato, con la sentenza 6 novembre 2020 n. 6834, chiarisce che la chiusura di una strada, qualora giustificata da ragioni di pubblico interesse e per un tempo limitato, non può produrre danni alle attività ivi allocate se non si fornisce la prova concreta del pregiudizio patito e non sono impugnati gli atti dispositivi della chiusura stessa.
In via generale, la condanna al risarcimento del danno può essere disposta qualora risulti una condotta non iure che abbia determinato, nel patrimonio del danneggiato, la lesione di una situazione soggettiva meritevole di tutela secondo l’ordinamento giuridico: nello specifico ambito della responsabilità civile della Pubblica Amministrazione per atto amministrativo illegittimo, la responsabilità risarcitoria postula, più specificamente, una spendita viziata del potere che, esorbitando dallo schema sostanziale e procedimentale delineato dalla legge attributiva, abbia leso almeno colposamente un interesse legittimo del privato, vulnerandone la sfera giuridica[1].
In tale ottica, per «danno ingiusto» risarcibile si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto, con la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l’equivalente economico.
È da rilevare che il risarcimento del danno non è conseguenza automatica dell’annullamento di un atto amministrativo, ma necessita dell’ulteriore positiva verifica in ordine alla ricorrenza dei presupposti richiesti dalla legge, tra cui quello della colpevole condotta antigiuridica della pubblica amministrazione[2].
Il requisito della colpa, peraltro, si considera sussistente se l’adozione dell’atto impugnato e la sua esecuzione siano avvenute in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l’esercizio della funzione pubblica deve costantemente attenersi (ex art. 97 Cost.)[3].
Ciò posto, la questione trattata dal giudice di seconde cure attiene alla richiesta risarcitoria (anteposta al giudice civile) di un gestore di un impianto di distribuzione di carburante, il quale a seguito della chiusura della strada (per lavori sulla fognatura) ove insiste l’impianto, lamenta di aver subito un ingente danno patrimoniale.
In prime cure, la richiesta è risultata infondata non rilevando alcuna illegittimità dei provvedimenti che hanno disposto la chiusura prolungata della strada: provvedimenti non ritualmente impugnati e causa della verificazione del danno (l’eventuale illegittimità avrebbe impedito l’evento).
Giova rammentare che con riferimento all’elemento fondamentale della colpa, costituisce principio consolidato quello per cui, in sede di accertamento della colpevolezza dell’Amministrazione nell’esercizio della funzione pubblica l’acclarata illegittimità del provvedimento amministrativo non rileva di per sé, dovendo emergere la sua rimproverabilità.
In seconde cure, si rileva non tanto l’antigiuridicità della chiusura quanto la sua «abnorme durata» (oltre i termini imposti dalle singole ordinanze) e il «mancato ripristino delle normali condizioni del manto stradale negli intervalli tra una chiusura e l’altra», nuovo elemento causativo del danno non rilevato in primo grado, in violazione del disposto dell’art. 104 c.p.a. che prevede che «nel giudizio di appello non possono essere proposte nuove domande, fermo quanto previsto dall’art. 34, comma 3, né nuove eccezioni non rilevabili d’ufficio».
Il giudice richiama dunque un precedente[4] secondo il quale in appello non è possibile proporre nuove domande processuali:
- caratterizzate da un nuovo o mutato petitum;
- da una nuova o mutata causa petendi;
- determinando una nuova o mutata richiesta giudiziale, ovvero nuovi o mutati fatti costitutivi della pretesa azionata.
Il ricorso viene dichiarato infondato:
- “l’abnormità” del periodo di chiusura dell’asse viario è stato genericamente dedotto senza la dimostrazione del reale ed effettivo tempo necessario per realizzare l’intervento, evidenziandone l’assenza di ogni congruità rispetto al suo regolare decorso;
- la mancata impugnazione dei provvedimenti disponenti la chiusura della strada ha impedito di fatto e di diritto di dedurre «qualsivoglia profilo di illegittimità»;
- l’assenza di una condotta imputabile all’Amministrazione impedisce di qualificare il danno come “ingiusto”, venendo così meno un elemento costitutivo della fattispecie di responsabilità;
- l’erronea esecuzione dei lavori di ripristino (causa di danno sulla viabilità) è semmai imputabile all’esecutore dei lavori, potendosi eccezionalmente configurare una corresponsabilità dell’Amministrazione committente nel caso di specifica violazione da parte sua di regole di cautela nascenti ex 2043 cod. civ., ovvero quando l’evento dannoso gli sia addebitabile a titolo di culpa in eligendo, per avere affidato i lavori ad operatore economico che palesemente difettava delle necessarie capacità tecniche ed organizzative[5].
Sotto questo ultimo profilo di responsabilità, il giudice esclude, altresì la culpa in vigilando, ovvero per la violazione di regole di cautela, atteso che il committente non ha un obbligo generale di supervisione a suo carico sull’attività dell’appaltatore che il terzo danneggiato possa comunque far valere nei suoi confronti, poiché la funzione di controllo è assimilabile a un potere che può essere riconosciuto nei rapporti interni fra Amministrazione e appaltatore, in correlazione alla riduzione o eliminazione della sfera di autonomia decisionale dell’appaltatore, e solo eccezionalmente può assumere rilevanza nei confronti dei terzi.
In definitiva:
- un dovere di controllo di origine non contrattuale gravante sul committente al fine di evitare che dall’opera derivino lesioni del principio del “neminem laedere” può essere, difatti, configurato solo con riferimento alla finalità di evitare specifiche violazioni di regole di cautela[6];
- anche nell’appalto privato, il committente pur disponendo di un generale potere di controllo dello svolgimento dei lavori a regola d’arte, disciplinato dall’art. 1662 c.c., che consente di intimare all’appaltatore di conformarsi alle condizioni stabilite dal contratto o alle leges artis, pena lo scioglimento dal contratto, il potere, tuttavia, non si riflette sul normale riparto delle responsabilità nei confronti dei terzi;
- anche laddove si volesse ritenere sussistente un dovere di vigilanza in capo all’Amministrazione-committente rispetto all’impresa esecutrice, ciò non determinerebbe un’inversione dell’onere probatorio.
Il ricorrente (danneggiato) nulla è stato in grado di dimostrare, ex art. 2043 c.c., essendo a suo carico l’onere probatorio: è indispensabile fornire la dimostrazione della responsabilità della Pubblica Amministrazione per dolo o colpa, da valersi quale elemento costitutivo del diritto al risarcimento[7].
In termini diversi, bisogna dedurre che la lesione nasce dalla condotta dell’Amministrazione (dal provvedimento espresso di chiusura), proprio perché la lesione deve qualificarsi in termini di ingiustizia derivante dal provvedimento illegittimo e colpevole dell’Amministrazione, quanto dalla sua colpevole inerzia, rende risarcibile il danno.
Si deve concludere che il danneggiato nella cui sfera giuridica si assume la verificazione del danno è colui a cui è richiesto offrire elementi probatori dai quali desumere l’illecito lamentato sia per ciò che concerne l’an che per ciò che riguarda il quantum, salva la possibilità in relazione ad alcune particolari tipologie di danni (quelli non patrimoniali) di fare ricorso a presunzioni[8]: nel caso di specie nulla è stato dedotto concretamente (c.d. principio di prova e le necessarie allegazioni).
[1] Cons. Stato, sez. IV, 4 novembre 2020, n. 6811.
[2] Cons. Stato, sez. IV, 25 maggio 2020, n. 3274.
[3] Cons. Stato, sez. IV, 30 gennaio 2017, n. 361.
[4] Cons. Stato, sez. VI, 29 gennaio 2020, n. 714.
[5] Cass. civ., sez. III, 26 marzo 2009, n. 7356; sez. III ord., 29 ottobre 2019, n. 27612; sez. III, ord., 24 aprile 2019, n. 11194; sez. II, 25 gennaio 2016, n. 1234.
[6] Cass. civ., sez. III, 1° giugno 2006, n. 13131.
[7] Cons. Stato, sez. III, 28 luglio 2015, n. 3707.
[8] Cons. Stato, sez. VI, 7 settembre 2020, n. 5387.