La sez. III del TAR Puglia, Lecce, con la sentenza 22 aprile 2021 n. 569, definisce la natura di strada pubblica rispetto a quella privata, ovvero ne delinea i contorni dell’uso pubblico e i suoi indici, legittimando il potere di ordinanza sulla viabilità, un dominio del “rapporto amministrativo” (quello tra privato e P.A.) configurato in termini di “supremazia”, non fondato su relazioni paritarie: l’uso collettivo priva il privato della piena titolarità del diritto di proprietà.
A tal proposito, non appare superfluo rilevare che la categoria dei diritti demaniali di uso pubblico il più importante e di maggiore applicazione pratica è senza dubbio quello dell’uso pubblico di passaggio, che, a sua volta, si distingue in due sottoclassi:
- quella del passaggio sulle vie vicinali di uso pubblico – e cioè sulle strade private soggette a pubblico transito;
- quella del passaggio su spiazzi, vicoli, corti di proprietà privata esistenti nelle città e negli agglomerati urbani.
Giova, altresì, rammentare, per ciò che interessa, che l’iscrizione di una strada nell’elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico genera una sola presunzione di pubblicità dell’uso (che si esplicita di fatto nel pubblico transito jure servitutis publicae da parte di una collettività di persone qualificate dall’appartenenza a una comunità territoriale)[1], superabile con la prova contraria, da parte del privato (in base al generale principio scolpito dall’art. 2697 del codice civile, l’onere della prova del diritto dominicale incombe in capo a chi ne afferma la sussistenza):
- della natura della strada;
- dell’inesistenza di un diritto collettivo di godimento (che non preclude la proprietà privata), mediante un’azione negatoria di servitù[2].
Di riflesso, l’insistenza di segnaletica stradale e illuminazione pubblica, la percorrenza di linee pubbliche urbane, la funzione di raccordo con altre strade e lo sbocco su piazza e su pubbliche vie sono elementi che, se consolidati, portano verso il riconoscimento della qualità di strada comunale all’interno degli abitati, ai sensi dell’art. 7, lett. c), legge n. 126 del 1958[3].
Tuttavia, va annotato che l’esistenza di un diritto di uso pubblico del bene non può sorgere per meri fatti concludenti, ma presuppone un titolo idoneo a detto scopo[4]: la prova dell’esistenza di una servitù di uso pubblico non può discendere da semplici presunzioni o dal mero uso pubblico di fatto della strada, ma necessariamente presuppone un atto pubblico o privato, quali un provvedimento amministrativo, una convenzione fra proprietario ed Amministrazione o un testamento, rilevando che gli elementi presuntivi, collegamento con una via pubblica e transito di persone diverse dal proprietario, non è ex se sufficiente, dovendo dimostrare (per l’uso pubblico su beni privati) la modalità della sua costituzione[5].
Va aggiunto che l’istituto della “dicatio ad patriam” è connotato da elementi di fatto che denotino un comportamento del proprietario di un bene che lo mette in modo univoco a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini, producendo l’effetto istantaneo della costituzione della servitù di uso pubblico, ovvero attraverso l’uso del bene da parte della collettività indifferenziata dei cittadini, protratto per il tempo necessario all’usucapione[6].
In dipendenza di ciò, l’eventuale assoggettamento di un’area privata a servitù di uso pubblico non comporta per il proprietario la perdita del diritto di proprietà del bene, del quale infatti egli può sempre chiedere la tutela in sede giudiziale.
Per converso, l’ente pubblico non essendo titolare del diritto dominicale, bensì di un mero diritto reale parziario su di un bene privato, può, su questo, esercitare unicamente le facoltà dirette a garantire e ad assicurare l’uso pubblico da parte di tutti i cittadini, essendo conseguentemente legittimato a tutelare il diritto parziario medesimo, sia in via amministrativa, sia in via giurisdizionale, avvalendosi, in quest’ultima ipotesi, in forza dell’anzidetto rinvio operato dall’art. 825 c.c. nei riguardi dell’art. 823 dello stesso codice, di fronte al Giudice ordinario, dei mezzi ordinari a difesa del diritto di servitù e del possesso ivi normati dalla medesima disciplina di diritto comune[7].
Ciò posto, l’analisi giuridica, mossa nella sentenza del TAR Lecce, parte dal ricorso di un privato avverso un’ordinanza dirigenziale con la quale è stato stabilito che una via (di proprietà del ricorrente, “pro quota parte”) «ha le caratteristiche per essere destinata ad uso pubblico e non a uso esclusivo dei proprietari dei fondi vicinali», istituendo il divieto di fermata su ambo i lati della carreggiata.
In via preliminare, il Giudice di prime cure dichiara la propria giurisdizione, in ossequio al criterio ordinario di riparto (ex art. 7 comma 1 c.p.a.), atteso che la posizione subiettiva dedotta in giudizio ha consistenza di interesse legittimo oppositivo rispetto alla spendita del potere autoritativo dell’A.C., la potestas avvenuta a mezzo dell’adozione dell’ordinanza dirigenziale di viabilità, mentre l’eventuale qualificazione come privata o pubblica della strada che ne forma oggetto è questione pregiudiziale involgente diritti soggettivi che può essere conosciuta incidenter tantum dal G.A., ai fini della pronuncia sulla domanda di annullamento proposta (ex art. 8 comma 1 c.p.a.).
Quale primo punto, il Giudice amministrativo riafferma il proprio potere di conoscere, in via incidentale, di diritti soggettivi quando tale sindacato è necessario per accertare la legittimità di un provvedimento amministrativo, visto che la verifica in ordine alla esistenza di una servitù di uso pubblico sulla strada o della sua demanialità è finalizzata a stabilire se i provvedimenti comunali impugnati siano o meno legittimi[8], diversamente sarebbe inammissibile un’eventuale accertamento del titolo di trasferimento del diritto di proprietà, giacché si tratterebbe di decidere l’assetto proprietario di un bene, ossia la sussistenza o meno di un diritto soggettivo, facente capo alla giurisdizione del Giudice ordinario[9].
Nel merito, dichiara il ricorso infondato visto che l’ordinanza sulla viabilità interessa una strada dalla quale «plurimi e concordanti elementi oggettivi» la fanno ritenere «pubblica o, quantomeno, ad uso pubblico», oltre ad avere un supporto motivazionale rafforzato.
A tali conclusioni si giunge con le seguenti considerazioni:
- la strada privata risulta inserita nella toponomastica cittadina e che ciò, pur non avendo efficacia costitutiva della relativa qualità, costituisce presunzione semplice della sua natura pubblica: l’iscrizione di una strada nell’elenco delle vie pubbliche o gravate da uso pubblico riveste funzione puramente dichiarativa della pretesa del comune, ponendo una semplice presunzione di pubblicità dell’uso, superabile con la prova contraria della natura della strada e dell’inesistenza di un diritto di godimento da parte della collettività mediante un’azione negatoria di servitù[10];
- sotto il profilo delle sue caratteristiche intrinseche e funzionali, la strada risulta servita da pubblica illuminazione, dotata di numeri civici e, soprattutto, non è cieca/priva di sbocchi e non serve la sola abitazione della ricorrente, fungendo da collegamento con altre strade di natura certamente pubblica: l’adibizione ad uso pubblico di una strada è desumibile nel caso in cui il tratto viario, per le sue caratteristiche, assuma un’esplicita finalità di collegamento, essendo destinato al transito di un numero indifferenziato di persone, oppure quando vi sia stato l’asservimento del bene da parte del proprietario all’uso pubblico di una comunità;
- dal certificato di destinazione urbanistica, prodotto dall’Amministrazione Comunale resistente, l’area su cui insiste la via è destinata dal vigente P.R.G. a “zona per la viabilità”, ricadendo solo in minima parte nella proprietà esclusiva della ricorrente.
La sentenza si allinea con i precedenti giurisprudenziali secondo i quali anche in presenza di una proprietà privata, qualora insista un uso pubblico, il bene si caratterizza per aver assunto una fruizione (funzione) collettiva che lo sottrae alla disponibilità (alias dominio) del proprietario, il quale per rivendicarne l’esclusività dovrà dimostrare nel concreto (un onere probatorio necessario) la proprietà e il possesso, condizioni – di diritto e di fatto – incompatibili con l’uso collettivo.
Questi principi – in una prospettiva pratica – portano alla conclusione che le strade vicinali, ancorché private, sono assimilate a quelle comunali, ai sensi dell’art. 2, comma 6, lett. d), del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (Codice della strada), caratterizzandosi per la presunzione (sia pure iuris tantum) di uso pubblico, superabile solo con la prova contraria dell’inesistenza di tale diritto di godimento da parte della collettività[11], caratteri che possono assumere le strade di avvicinamento ai depuratori che spesso insistono in parte su proprietà privata; del resto, ai sensi dell’art. 825 Cod. civ., «sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico, i diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per l’utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi»[12].
[1] Cons. Stato, sez. V, 27 settembre 2018, n. 5567. L’appartenenza di una strada ad un ente pubblico territoriale può essere desunta da una serie di elementi presuntivi aventi i requisiti di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’art. 2729 c.c., non potendo reputarsi, a tal fine, elemento da solo sufficiente l’inclusione o meno della strada stessa nel relativo elenco, già previsto dall’art. 8 della legge n. 126 del 1958, avente natura dichiarativa e non costitutiva, ed avendo carattere relativo la presunzione di demanialità, di cui all’art. 22 della legge n. 2248 del 1865, all. F), Cass. civ., sez. I, ordinanza 15 luglio 2020, n. 15033.
[2] Cons. Stato, sez. V, 9 dicembre 2019, n. 8398.
[3] Cons. Stato, sez. IV, 10 ottobre 2018, n. 5820.
[4] TAR Lombardia, sez. II, 4 luglio 2019, n. 1530.
[5] Cons. Stato, sez. II, 12 maggio 2020, n. 2992.
[6] Cass. civ., sez. II, 21 febbraio 2017, n. 4416; Cons. Stato, sez. V, 16 gennaio 2017, n. 97. Non è richiesto di per sé, ai fini della costituzione della servitù di uso pubblico per dicatio ad patriam, un uso protratto per il tempo necessario all’usucapione, atteso che, da un lato, quest’ultima configura un distinto modo per l’acquisto del diritto reale in sé, diverso dalla dicatio ad patriam, dall’altro, siffatto protratto uso rileva al fine di fornire evidenza che l’uso pubblico non sia “frutto della mera tolleranza dominicale”, Cons. Stato, sez. V, 21 agosto 2020, n. 5161.
[7] Può anche agire in giudizio, uti singulus avvalendosi dei mezzi ordinari di tutela, ciascun cittadino appartenente alla collettività, Cass. civ., sez. II, 13 giugno 2019, n. 15931.
[8] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 10 maggio 2013, n. 2544.
[9] Con. Stato, sez. V, 16 ottobre 2017, n. 4791.
[10] Cons. Stato, sez. II, 18 maggio 2020, n. 3158.
[11] Cons. Stato, sez. IV, 19 marzo 2015, n. 1515.
[12] Cons. Stato, sez. V, 14 novembre 2018, n. 6423.