La legittimazione
La sez. giur. del C.G.A.R.S., con il decreto del 4 marzo 2022, n. 91, interviene per riaffermare i confini della legittimazione del consigliere comunale a fronte della violazione dei propri diritti afferenti alla lesione del munus publicum.
La legittimazione da parte del consigliere comunale, al pari di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, ad impugnare le deliberazioni emanate dal consiglio è ammissibile solo quando esse ledano un suo interesse personale diretto, sicché il consigliere dell’Ente locale non può impugnare le deliberazioni con le quali è semplicemente in disaccordo, perché ciò significherebbe trasporre e continuare nelle sedi di giustizia la competizione che lo ha visto in minoranza, gravando le sedi medesime di decisioni che competono all’organo collegiale elettivo[1].
La questione, nella sua essenzialità, verteva sul difetto di legittimazione e difetto di interesse alla proposizione di un ricorso proposto da un consigliere comunale avverso un atto consigliare, ove si intendeva contrastare l’errato conteggio dei voti, e dunque l’esito del deliberato in relazione alle evidenti ripercussioni sull’esercizio delle funzioni e delle prerogative connesse all’incarico ricoperto (e alla stessa esistenza dell’organo).
L’incisione dello status
L’irregolarità nell’iter deliberativo incide lo status delle prerogative del consigliere, non essendo ammissibile l’impugnazione di provvedimenti da cui non derivano compromissioni al cit. diritto[2], anche qualora essi non corrispondano allo schema normativamente previsto: si tratta di vizi procedurali concretamente lesivi dello jus ad officium, escludendo quei vizi dell’atto approvato sostanzialmente riconducibili alla violazione di legge e all’eccesso di potere, solo potenzialmente ed eventualmente lesivi dell’esercizio delle funzioni e prerogative consiliari, i quali dovrebbero essere più propriamente discussi in seno al dibattito politico e non in sede giurisdizionale[3].
Invero, la legittimazione dei consiglieri dissenzienti ad impugnare le deliberazioni dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera giuridica[4]; di contro, ogni qualvolta il vizio dedotto non si sostanzia nella lesione del diritto all’ufficio, quindi in una circostanza non attinente all’esercizio della carica di consigliere comunale, impeditivo o lesivo delle funzioni consiliari, la legittimazione ad agire del consigliere comunale deve essere esclusa[5].
È noto, infatti, che il singolo consigliere comunale è legittimato ad agire nei confronti dell’ente a cui appartiene unicamente nell’ipotesi in cui i vizi denunciati si sostanzino nella lesione del diritto all’ufficio, con riguardo a profili che attengono all’esercizio della carica di consigliere comunale e che siano direttamente impeditivi o lesivi delle funzioni consiliari, ossia in cui i vizi dedotti attengano:
- alle erronee modalità di convocazione dell’organo consiliare;
- alla violazione dell’ordine del giorno;
- all’inosservanza del deposito della documentazione necessaria per poter liberamente e consapevolmente deliberare[6];
- più in generale, alla preclusione in tutto o in parte dell’esercizio delle funzioni relative all’incarico rivestito[7].
Il pronunciamento
Il pronunciamento si allinea ai precedenti, evidenziando che i singoli consiglieri comunali «hanno un interesse legittimo proprio al rispetto delle regole di formazione della volontà collegiale dell’organo a cui appartengono e a che il loro voto sia correttamente computato», rilevando (di riflesso) che l’espressione politica che si immedesima nel voto, esternazione compiuta della rappresentanza popolare diretta in seno all’organo elettivo, non può essere minata (e, quindi, coartata) dalla negazione della validità del consenso o diniego assunto in un provvedimento amministrativo (deliberativo).
In termini più espliciti, se nel dibattito consiliare si esprimono e racchiudono le motivazioni di una scelta, giustificando il proprio orientamento rispetto al contenuto dispositivo dell’atto deliberativo, il voto racchiude la posizione assunta dal consigliere, voto che concorre a definire la volontà amministrativa, ovvero la decisione finale capace di incidere la sfera giuridica dei destinatari (e in questo caso proprio dei consiglieri comunali), che può condurre anche al termine di una consiliatura, qualora si riferisca all’approvazione di una mozione di sfiducia rivolta al sindaco (ex comma 2 dell’art. 52 del d.lgs. n. 267/2000).
Si comprende che l’errato conteggio dei voti, al fine dell’esito degli stessi, radica la legittimazione e l’interesse ad agire, personale, concreto e attuale, ad impugnare una delibera dell’organo collegiale cui appartengono: in effetti, la legittimazione ad impugnare un provvedimento amministrativo deve essere direttamente correlata alla situazione giuridica sostanziale che si assume lesa dal provvedimento e postula l’esistenza di un interesse attuale e concreto all’annullamento dell’atto[8].
Se l’errato conteggio dei voti comporta il venir meno dell’esistenza stessa dell’organo, a seguito di una mozione di sfiducia del sindaco, è evidente che il consigliere comunale viene inciso direttamente sulla sua funzione determinandone l’estinzione (scioglimento) dell’organo di cui è parte e perciò ledendo direttamente l’esercizio dei propri diritti e non semplicemente una valutazione di giudizio dell’operato del sindaco.
Disapplicazione dei regolamenti/circolari contrari alla fonte primaria
A margine, il giudice si sofferma sul quorum deliberativo per la mozione di sfiducia al sindaco, rilevando che la fonte regolamentare comunale non può assumere efficacia vincolante e prevalente rispetto alla fonte di rango primario che richiede un diverso e inferiore quorum funzionale dei consiglieri comunali: la fonte di rango inferiore è recessiva in base al doppio criterio della gerarchia delle fonti (la fonte di rango superiore prevale su quella di rango inferiore) e della legge sopravvenuta (la legge successiva prevale su quella anteriore se regolano il medesimo oggetto).
In tale evenienza, deve ragionarsi in termini di “tacita abrogazione” della fonte anteriore e inferiore, piuttosto che di sua “disapplicazione”, ed inoltre le circolari interpretative non sono fonte del diritto e possono vincolare le Amministrazioni cui sono destinate solo se conformi alla legge.
Si ricava un ulteriore principio, il regolamento contrario alla legge in materia di diritti soggettivi (qui il diritto di voto in consiglio comunale) ben può e deve essere disapplicato dall’Amministrazione che lo ha adottato; avendo pur sempre il regolamento natura di atto amministrativo e dovendo l’Amministrazione, nell’azione amministrativa, rispettare la legge (principio di legalità), piuttosto e in via prioritaria rispetto ad un proprio atto amministrativo.
[1] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 2 dicembre 2015, n. 5459.
[2] Un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere, Cons. Stato, sez. V, 13 febbraio 2019, n. 1046.
[3] La legittimazione è presente quando i vizi denunciati si sostanziano nella lesione del diritto all’ufficio con riguardo a profili che incidono negativamente sull’esercizio della carica di consigliere comunale, impedendo o ledendo le funzioni in tale veste esercitate, TAR Basilicata, sez. I, 15 luglio 2020, n. 460.
[4] Cons. Stato, sez. V, 7 luglio 2014, n. 3446.
[5] T.A.R. Molise, sez. I, 6 giugno 2019, n. 209; TAR Campania, Napoli, sez. I, 14 febbraio 2019, n. 848.
[6] Il mancato rispetto del termine per il deposito e la messa a disposizione dei consiglieri comunali, termine previsto dall’art. 227 del D.Lgs. n. 267/2000, determina una lesione del cd. ius ad officium dei consiglieri comunali, integrando uno specifico profilo di legittimità, TAR Campania, Napoli, sez. I, 7 novembre 2018, n. 6473.
[7] TAR Marche, sez. I, 31 ottobre 2019, n. 670; TAR Veneto, sez. I, 21 marzo 2017, n. 285; TAR Campania, Napoli, sez. I, 7 marzo 2016, n. 1210; TAR Piemonte, sez. I, 4 dicembre 2015, n. 1707; Cons. Stato, sez. V, 7 luglio 2014 n. 3446 e sez. VI, 7 febbraio 2014, n. 593.
[8] L’interesse ad agire, ex art. 100 c.p.c. (per tutte vedi, Consiglio di Stato, Ad. Plen., n. 9 del 2014), deve essere, oltre che “attuale” e “concreto”, “personale”, cioè deve riguardare specificamente e direttamente il ricorrente in quanto titolare di una posizione differenziata e qualificata e non dissolversi nel generico interesse alla legalità dell’azione amministrativa, TAR Campania, Napoli, sez. V, 9 settembre 2020, n. 3739.