Massima
La sez. VI del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6654 del 28 luglio 2022, interviene sull’obbligatorietà per i dirigenti – posti ai vertici della macchina amministrativa[1] – della pubblicazione dei redditi, ai sensi del comma 1, lettera f), dell’art. 14, Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali, del d.lgs. n. 33/2013, da includere coloro che ricoprono «cariche di amministrazione, di direzione o di governo», obbligo privo di sanzione: la lotta alla corruzione, mediante il modello FOIA, trova qualche inciampo dell’inerzia del legislatore (della decretazione emergenziale e dei voti di fiducia).
Fatti (in parte noti)
La questione si dipana attorno ad una richiesta, (sulla base delle Linee guida ANAC n. 241/2017, non vincolanti, recanti indicazioni sull’attuazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016), rivolta ai componenti del Consiglio di Amministrazione di una Università di acquisire i dati patrimoniali (equiparandoli agli «organi di indirizzo politico»).
La richiesta veniva considerata illegittima per violazione del diritto alla vita privata ed alla protezione dei dati personali, nonché, dei principi sanciti in materia dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dal Trattato UE, dalla Convenzione EDU, dalla direttiva n. 95/46/CE e dal Regolamento del Parlamento e del Consiglio europei n. 2016/679, donde il ricorso di un componente del CdA (un dirigente nominato all’interno) sui fatti noti che seguono: in termini più esemplificativi, si deduceva l’illegittimità derivata.
È noto che la Corte Cost., con sentenza n. 20 del 23 febbraio 2019, dichiarava «l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni), nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione, anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche)»: il riferimento è agli «incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente» e agli «incarichi di funzione dirigenziale di livello generale»[2].
Si annota che il vuoto normativo, venutosi a creare per effetto della pronunzia, determinava l’intervento del legislatore che, all’art. 1, comma 7 del D.L. n. 162/2019, nel testo risultante dalla conversione operata con legge n. 8/2020, (in vigore dall’1 marzo 2020), stabiliva che «fino al 31 dicembre 2020, nelle more dell’adozione dei provvedimenti di adeguamento alla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2019, n. 20, ai soggetti di cui all’articolo 14, comma 1-bis, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ad esclusione dei titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, non si applicano le misure di cui agli articoli 46 e 47 del medesimo decreto legislativo n. 33 del 2013».
Ai sensi dell’art. 1, comma 16, del successivo D.L. n. 183/2020, detta sospensione veniva prorogata «fino alla data di entrata in vigore del regolamento di cui al terzo periodo» (di individuazione “dei dati di cui al comma 1 dell’art. 14 …”) da adottarsi «entro il 30 aprile 2021».
Ciò posto, in primo grado, con sentenza n. 6033 del 24 maggio 2021 si accoglieva il ricorso sul duplice presupposto che la sentenza della Corte avrebbe «ritenuto non applicabile la disciplina contestata a chi non fosse titolare di un incarico dirigenziale pubblico ai sensi dell’art. 19 D. Lgs. 165/2001 e quindi anche al ricorrente che è stato semplicemente designato nel consiglio di amministrazione dell’Università senza assumere alcun incarico dirigenziale» e che la designazione nel Consiglio di Amministrazione dell’Università non potesse essere assimilata ad «alcun incarico dirigenziale».
Seguiva appello dell’Università, dell’ANAC e della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ove si eccepiva (questione dirimente) tra l’altro che «il perimetro della decisione della Corte ha riguardato cioè i soli titolari di incarichi dirigenziali».
La norma
Il giudice di seconde cure richiama la norma dell’art. 14 del d.l.gs. n. 33/2013, rilevando che gli obblighi di pubblicazione del comma 1 sono estesi anche ai soggetti previsti dal comma 1 bis (c.d. «trasparenza rafforzata»), ossia:
PRIMO GRUPPO: «per i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, salvo che siano attribuiti a titolo gratuito»;
SECONDO GRUPPO «e per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione» (quest’ultimi fanno riferimento alle nomine c.d. intuitu personae)[3].
I dirigenti interessati
Si osserva che in claris non fit interpretatio: ai «titolari di incarichi dirigenziali» venivano estesi gli obblighi già previsti per i titolari di incarichi di indirizzo politico, osservando, altresì, che la Corte dichiarava «costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui all’art. 14, comma 1, lettera f), dello stesso decreto legislativo, anche per tutti i titolari di incarichi dirigenziali, [..], anziché solo per i titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’art. 19, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 165 del 2001».
Il contrasto con il principio di uguaglianza, ex art. 3 della Costituzione, veniva, quindi, rinvenuto nella previsione di obblighi di trasparenza relativamente a tutti i dirigenti senza alcuna distinzione fra le variegate tipologie di incarico dirigenziale (la norma va riferita alle posizioni apicali, dirigenziali generali, comma 3, dell’art. 19 del d.lgs. 165/2001, nonché, di funzione dirigenziale di livello generale, comma 4, dell’art. 19 cit.) e senza tenere conto del diverso «grado di esposizione dell’incarico pubblico al rischio di corruzione e all’ambito di esercizio delle relative funzioni, prevedendo coerentemente livelli differenziati di pervasività e completezza delle informazioni reddituali e patrimoniali da pubblicare».
I componenti del CdA dell’università
La sentenza della Corte costituzionale, affermano i giudici di Palazzo Spada, esplica i propri effetti unicamente in ordine alla posizione di “titolari di incarichi dirigenziali” e non anche su quelle dei “titolari di incarichi di indirizzo politico” (il caso trattato non è sovrapponibile a quello oggetto del presente giudizio: fattispecie «analoga ma non identica»), come possono essere assimilate le posizioni dei componenti del CdA dell’Università, sia in relazione al sistema di nomina che dei poteri esercitati.
In termini diversi, i componenti del CdA vengono attratti nell’ambito di applicazione dell’originario testo dell’art. 14 che, al comma 1, già imponeva obblighi di pubblicazione ai «titolari di incarichi politici, di carattere elettivo o comunque di esercizio di poteri di indirizzo politico» per evidenti ragioni di sostanziale omogeneità: di funzioni e competenze.
La disciplina applicabile e il vuoto normativo
Fatte queste premesse, viene acclarato il vuoto (adeguamento) normativo a seguito del pronunciamento della Corte (sentenza n. 20/2018), peraltro, collegato all’esigenza di definire le distinzioni all’interno delle figure dirigenziali, non, dunque, con riferimento alle definizioni di incarichi di «titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo», indicati al comma 1 bis dell’art. 14 del d.lgs. n. 33/2013 che restano quelli previsti dall’art. 14, comma 1 (con le successive precisazioni).
A rafforzare la motivazione, viene tracciato il flusso normativo dal quale si può pervenire alla conclusione che la presenza di un vuoto normativo (manca un regolamento applicativo) impedisce l’applicazione delle sanzioni (sospese) in caso di violazione del precetto (pubblicazioni dei dati reddituali) che sussiste.
In termini più espressivi: manca di effetti la norma dispositiva dell’obbligo non avendo ancora il legislatore legiferato sulla violazione (“affare”, alquanto suggestivo, visto il ciclone di decreti – legge succedutesi con voti di fiducia, tranne l’ultimo): è noto che in assenza di sanzione la norma rimane pura astrazione.
Il cono visuale delle fonti:
Le conclusioni che precedono sono argomentate dall’evoluzione della disciplina:
- comma 7, dell’art. 1, Proroga di termini in materia di pubbliche amministrazioni, del D.L. n. 162/2019, Disposizioni urgenti in materia di proroga di termini legislativi, di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nonché di innovazione tecnologica, in quanto riferita espressamente «ai soggetti di cui all’articolo 14, comma 1 bis del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, ad esclusione dei titolari degli incarichi dirigenziali previsti dall’articolo 19, commi 3 e 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165» trova applicazione per i soggetti rientranti nella categoria degli organi di direzione e di governo (come quelli del CdA) con la precisazione (dirimente per il caso) che, nelle more del riordino della materia, «non si applicano le misure di cui agli articoli 46 e 47 del medesimo decreto legislativo n. 33 del 2013»;
- l’esclusione, quindi, prevista come temporanea, è espressamente riferita (non agli obblighi ma solo) al regime sanzionatorio disciplinato dalle due richiamate norme recanti, rispettivamente, «Responsabilità derivante dalla violazione delle disposizioni in materia di obblighi di pubblicazione e di accesso civico» e «Sanzioni per la violazione degli obblighi di trasparenza per casi specifici».
Si determina un effetto loop: l’assenza della norma secondaria (quella sanzionatoria) della violazione della norma primaria (di condotta): un’imperfezione del sistema FOIA.
L’approdo formale e del diritto positivo ammette la permanenza dell’obbligo «di pubblicazione dei dati ma che, per effetto della disposizione appena richiamata (la cui dichiarata transitorietà consiglierebbe che il legislatore procedesse con sollecitudine al riordino della materia, adeguandosi puntualmente alla decisione della Corte costituzionale), tale obbligo non è attualmente provvisto di sanzione in caso di sua violazione».
La lotta alla corruzione, che esige la pubblicazione dei dati reddituali, quasi a voler significare che la loro pubblicazione rende trasparente anche quelli di illecita provenienza (sarebbe troppo semplice se non banale il principio) in mancanza di pena si proietta a creare un vulnus al sistema, consentendo di violare il precetto senza subire le conseguenze (sempre ammesso che vengano pubblicati anche i redditi da fonte incerta): «i quattrini rubati non fanno mai frutto. Addio, mascherine!»[4].
Invero, pretendere di esporre in chiaro, i dati presenti nelle dichiarazioni dei redditi (con una forte esposizione on line della vita privata e familiare dell’interessato rispetto alle esigenze di protezione dei dati personali) e pensare, allo stesso tempo, che possa costituire un deterrente alla maladministration è una questione ancora dibattuta e non sempre comprensibile (pur utilizzando il metodo baconiano).
Un bilanciamento tra diritto e trasparenza, tra riservatezza e pubblicità
Un bilanciamento tra riservatezza e trasparenza dovrebbe trovare altri parametri di riferimento, se lo scopo è prevenire la corruzione, d’altronde in epoca di fragrante pandemia ed emergenza bellica l’abuso del trattamento dei dati personali, e la loro dispersione, non ha trovato confine, con risultati non edificanti e a costi elevati (anche sociali), soprattutto in termini di rapporti spezzati e di vite perse.
La sistematica ed endemica (oltre che abusiva) richiesta di dati personali incide sulle libertà individuali e collettive, senza considerare il rischio effettivo di sostituzione e furti d’identità, mancando un sistema adeguato di sicurezza informatica (cybersecurity), mascherando fenomeni che non si collegano con la lotta alla corruzione e al riciclaggio.
Tuttavia, la “trasparenza” non ammette intralci, divenendo un valore ex se, disancorato da ogni valutazione tra costi e benefici, tra diritti individuali ed esigenze collettive.
Il Consiglio di Stato, sul tale rapporto – “riservatezza” e “trasparenza” – esprime una tendenza secondo la quale «l’adempimento agli obblighi di cui si discute» (ossia la pubblicazione dei redditi) «interferisce sia con il diritto alla riservatezza dei dati personali, quanto con quello della collettività al libero accesso alle informazioni detenute dalle amministrazioni, deve rilevarsi che i diritti invocati dall’appellato non sono incomprimibili essendo le loro limitazioni pacificamente ammesse in vista del conseguimento di obiettivi di trasparenza e pubblicità, sia pur nel rispetto dei principi proporzionalità, pertinenza, e non eccedenza rispetto alle finalità perseguite».
Questo bilanciamento viene confermato, si annota nella sentenza, dallo stesso Regolamento UE 679/2016 (c.d. General Data Protection Regulation – GDPR) che al quarto considerato, precisa che «il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità», in aderenza con il pronunciamento della Corte costituzionale (sentenza n. 20/2019) che «pur censurando l’obbligo di pubblicazione dei dati di cui alla lett. f) del comma 1 dell’art. 14, riconduceva il profilo di illegittimità rilevato, come ampiamente esposto, alla sola operata estensione indiscriminata degli obblighi di trasparenza a tutti i Dirigenti senza distinzioni di sorta, senza, tuttavia, rilevare profili di eccedenza degli obblighi di cui all’art. 14, comma 1, rispetto alle sottese ragione di interesse pubblico alla pubblicità dei dati».
In definitiva, la «compressione del proprio diritto alla riservatezza deve, quindi, ritenersi giustificata in ragione della delicatezza dell’incarico attribuito e della natura pubblica dello stesso, e quindi della possibilità di assicurare un controllo diffuso quanto all’esercizio delle funzioni attribuite, nel quadro di un’Amministrazione democratica».
Gli specchi curvi del diritto
Ed in effetti, in epoca della Covid-19 anche la “trasparenza” dei “dati sanitari” (contagi, vaccinazioni, effetti avversi, ad esempio) ha subito una diversa “misura del rischio”: la loro pubblicazione (il termine più recente, si esprime in accountability) è divenuto questione di “sicurezza nazionale” (quasi un segreto di stato, inaccessibile) e la trasparenza FOIA, nata proprio con lo scopo di conoscere e di far conoscere le informazioni detenute dal Governo alla collettività dei cittadini ha subito un inatteso, quanto spiegabile, arresto.
La raccolta dei dati personali per la profilazione/tracciamento (il c.d. monitoraggio) dell’intera popolazione (è stato nominato, anche, un gruppo di 74 esperti in diverse discipline, il c.d. Gruppo di lavoro data driven, finalizzato a trovare le migliori soluzioni ITC per mappare i contagi), con un’inversione di scopo: dall’apertura all’isolamento (del green pass).
Il tutto (osservano, i più accreditati) per giustificare una forma di “Governo Digitale”, non anteposto all’“Uomo Digitale”[5], un avvenire dove il patrimonio di dati personali incamerati (o pubblicati) non è del tutto incerto, non mancando punti di riferimento sullo scenario globale, ossia in quei regimi che con le armi portano la pace e la democrazia, dove il dato biometrico è un diritto di libertà (per poter circolare e vivere nella società).
Il PNRR dedica la Componente 1, della Missione 1, relativa a Digitalizzazione, Innovazione e Sicurezza nella PA per favorire l’interoperabilità tra le banche dati pubbliche (il c.d. incrocio dei dati personali) con la digitalizzazione di ogni processo, operazione e movimento, creando un’espansione dell’identità digitale per la piena trasparenza (e controllo) della popolazione nei rapporti con le istituzioni (e altro).
Una nuova dimensione della tutela del dato personale, recessiva delle tutele (protezioni) personali e della riservatezza, in nome di una sorveglianza sanitaria (il diritto alla salute), dove il “consenso informato” è stato dilapidato e frustrato nella sua essenza di protezione della persona (umana): l’obbligatorietà dei trattamenti sanitari erga omnes ha tradito il diritto naturale prima, quello vivente dopo.
Andando oltre (e siamo sempre sul tema) i sacerdoti della trasparenza hanno dimenticato la trasparenza, come visivamente pensata dal primo comma, dell’art. 1, del d.lgs. n. 33/2013: «allo scopo di tutelare i diritti dei cittadini», pubblicando dati personali non coerenti con lo scopo della citata cangiante fonte del diritto.
Ed allora, come sia possibile lottare contro la corruzione, con tale compressione/compromissione di riservatezza (libertà privata) a favore della pubblicità, dell’interesse generale alla conoscenza, quasi che la “cattiva amministrazione” sia più importante del “bene della vita”, quell’aspirazione del privato ad avere il riconoscimento dei propri diritti, “ad essere lasciato solo” (to be let alone).
Siamo di fronte (al fronte) riproducendo e aggiungendo adempimenti e pubblicazioni FOIA, in un crescendo di dati (privati e pubblici) da inserire nelle migliaia di sez. di “Amministrazione Trasparente”, con il rischio di essere sanzionati per un eccesso o eccedenza di dati personali in rete[6], in vista dell’integrità del sistema pubblico, perdendo di vista lo scopo primo della trasparenza (la conoscenza utile) con un abnorme pubblicazione (e richieste) di dati.
Non è (forse) un caso che leggendo (ancora) il PNRR si incontrino dei periodi ove si annota «occorre evitare che alcune norme nate per contrastare la corruzione impongano alle amministrazioni pubbliche e a soggetti privati di rilevanza pubblica oneri e adempimenti troppo pesanti», citando «il caso delle disposizioni sulla trasparenza che prevedono … obblighi di pubblicazione di numerosi atti, obblighi non sempre giustificati da effettive esigenze di conoscibilità dei cittadini e assai onerosi per gli uffici, soprattutto degli enti minori», segno di un bisogno di cambiare approccio, in una prospettiva di semplificazione e razionalizzazione delle fonti (“c’è lo chiede l’Europa”).
Ridurre all’essenziale la richiesta dei dati, valutare i c.d. open data e i c.d. big data prima di assistere al tramonto della sfera personale, oggi in nome della prevenzione della corruzione, già ieri in nome dell’emergenza pandemica, domani per assicurare la sicurezza dai domini stranieri o perché lo esige la transizione ecologica, perdendo pezzi di libertà e diritti acquisiti in nome della nostra (e collettiva) tutela: «ma l’autorità … presenta anche un’altra faccia, nel senso che non sembra voler rafforzare la nostra volontà, ma talvolta sembra anzi volerla mortificare e opprimere»[7].
[1] Cfr. il comma 1 bis, dell’art. 14, del decreto Trasparenza: «Le pubbliche amministrazioni pubblicano i dati di cui al comma 1 per i titolari di incarichi o cariche di amministrazione, di direzione o di governo comunque denominati, salvo che siano attribuiti a titolo gratuito, e per i titolari di incarichi dirigenziali, a qualsiasi titolo conferiti, ivi inclusi quelli conferiti discrezionalmente dall’organo di indirizzo politico senza procedure pubbliche di selezione».
[2] Si rinvia, LUCCA, La pubblicazione dei redditi di tutti i dirigenti pubblici e l’incostituzionalità della previsione (nota a margine della sentenza della Corte Cost. n. 20 del 21 febbraio 2019), dirittodeiservizipubblici.it, 4 marzo 2019.
[3] Si tratta di quelle nomine di carattere fiduciario che, seppur connotate da ampia discrezionalità ed ascrivibile alla categoria degli atti di alta amministrazione, devono comunque sempre essere sottoposte interamente allo statuto del provvedimento amministrativo, impugnabile avanti al Giudice Amministrativo per evitare che la scelta dell’Amministrazione non sconfini nell’arbitrio, rilevando che nella scelta l’Amministrazione non è tenuta allo svolgimento di una vera e propria procedura comparativa tra i candidati, TAR Valle D’Aosta, 26 luglio 2022, n. 38.
[4] COLLODI, Le avventure di Pinocchio, ed. 1900.
[5] Vedi, LUCCA, Gli obblighi abnormi di mascheramento e confinamento vaccinale: dal green pass all’uomo nuovo digitale, comedonchisciotte.org, 25 agosto 2021.
[6] Il titolare del trattamento è tenuto, in ogni caso, a rispettare i principi in materia di protezione dei dati, fra i quali quello di “liceità, correttezza e trasparenza” nonché di “minimizzazione dei dati”, in base ai quali i dati personali devono essere “trattati in modo lecito, corretto e trasparente nei confronti dell’interessato” e devono essere “adeguati, pertinenti e limitati a quanto necessario rispetto alle finalità per le quali sono trattati” (art. 5, par. 1, lett. a) e c), del Regolamento), sicché la pubblicazione del curriculum vitae, senza oscurare preventivamente i dati afferenti alla sfera personale dello stesso (quali l’indirizzo di residenza, il numero di cellulare e gli indirizzi di posta elettronica personali), viene sanzionato, per l’illiceità del trattamento, Garante per la protezione dei dati personali, Ordinanza ingiunzione nei confronti di Comune di … – 26 maggio 2022, Registro dei provvedimenti n. 198/2022, doc. web n. 9789899. Idem, Ordinanza ingiunzione nei confronti di Comune di … – 7 aprile 2022, Registro dei provvedimenti, n. 119 del 7 aprile 2022, doc. web n. 9773950; Ordinanza ingiunzione nei confronti di Comune di … – 10 febbraio 2022, Registro dei provvedimenti, n. 45 del 10 febbraio 2022, doc. web n. 9751549.
[7] MENEGHELLI, La magia del potere, Padova, pag. 10.