In via generale e sommariamente, con la terminologia lock-in (lett. bloccare) si suole definire quel fenomeno che si presenta quando il committente rischia di rimanere legato (c.d. prigioniero) ad un unico fornitore (presente nel mercato) in relazione alla tipologia “infungibile” del prodotto o servizio fornito “in esclusiva”.
Infungibilità e lock – in
L’infungibilità si caratterizza in effetti quando manca la concorrenza (a seguito di indagini preliminari di mercato)[1] e vi sia accertata la presenza di un unico operatore economico in grado di fornire la prestazione, giustificando (così facendo) l’affidamento diretto (deroga all’evidenza pubblica), senza bando: l’assenza di mercato renderebbe lo svolgimento della procedura di gara aperta alla concorrenza del tutto inutile, risultando uno spreco di tempo, contrastante con il principio di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa[2].
Le Linee Guida ANAC n. 8 (delibera n. 950 del 13 settembre 2017), Ricorso a procedure negoziate senza previa pubblicazione di un bando nel caso di forniture e servizi ritenuti infungibili, riportano i concetti di infungibilità ed esclusività non come sinonimi:
- l’esclusiva attiene all’esistenza di privative industriali, secondo cui solo il titolare di un diritto di esclusiva (brevetto) può sfruttare economicamente un certo prodotto o servizio;
- l’infungibilità riferita ad un bene o servizio si presenta quando vi è un unico soggetto che può garantire il soddisfacimento di un certo bisogno.
L’infungibilità, apprendiamo dalle Linee Guida, viene definita con il termine di lock – in, generalmente associato al settore della Information and Communications Technology (ICT), mentre secondo la Commissione Europea per gli appalti, nel settore informatico, «il lock – in si verifica quando l’amministrazione non può cambiare facilmente fornitore alla scadenza del periodo contrattuale perché non sono disponibili le informazioni essenziali sul sistema che consentirebbero a un nuovo fornitore di subentrare al precedente in modo efficiente».
Il lock – in è l’effetto di un comportamento, da parte della stazione appaltante, di effettuare un servizio a forte impatto tecnologico che richiede investimenti ingenti (iniziale) non recuperabili (sunk costs), per effetto dei quali cambiare il fornitore determina la perdita degli stessi, oltre, ovviamente, i disagi di apprendimento e formazione necessari per sostituire il prodotto: il rischio rimane l’impossibilità di cambiare il fornitore iniziale.
Soluzioni possibili (?)
In presenza di circostanze, in parte legate ai c.d. monopoli naturali, l’ANAC invita le Amministrazioni, nel rispetto del fondamentale principio di buona amministrazione (ex art. 97 Cost.), di anticipare i maggiori oneri futuri determinati dalle proprie decisioni di acquisto attuali, con valutazioni ponderate tra costi e benefici, una programmazione adeguata, fattibilità di natura tecnica, considerando l’intero ciclo di vita del prodotto e/o del servizio richiesto, ponendolo ad oggetto del confronto competitivo:
- prevedere che un singolo affidamento possa essere assegnato a due o più fornitori (multi – sourcing) a lotti o quote;
- agire sulle specifiche tecniche, mediante gare su standard e non su sistemi prioritari;
- verificare quali standard sono forniti dal mercato, lavorare con il mercato per lo sviluppo di soluzioni sostenibili, definire specifiche neutrali dal punto di vista tecnico (che non avvantaggino cioè alcun operatore sul mercato) e rivedere periodicamente gli standard adottati;
- evitare di fare riferimento a marchi e altri elementi tecnici su cui esiste una privativa;
- invitare gli offerenti ad indicare i costi necessari per rendere i prodotti serviti aperti ad altri fornitori al termine del periodo di vigenza del contratto;
- richiedere agli aspiranti concorrenti un’espressa dichiarazione, in sede di presentazione dell’offerta, circa elementi che possano comportare lock – in o che richiedano utilizzo di licenze;
- l’apertura dei sistemi informativi e la circolazione dei dati fra gli stessi sistemi, la c.d. interoperabilità;
- l’istituto del riuso delle soluzioni e gli standard aperti;
- dati accessibili dal committente in qualunque momento e non solo a seguito di un’eventuale cessazione del contratto;
- richiesta al fornitore una documentazione adeguata della logica di business adottata, che sia in grado di spiegare il funzionamento dei moduli implementati, evidenziando le interfacce di ingresso e di uscita e l’algoritmo usato, i c.d. codice sorgente.
Appare circostanziato, che a fronte delle tecnologie informatiche, del tracciamento decisionale, di programmi (software) IA di difficile comprensione anche per i “creatori”, pretendere l’accesso tout court ai dati sembrerebbe una “missione impossibile”; tuttavia, si deve affermare che il lock – in, trattandosi di un fenomeno distorsivo della concorrenza, postula di operare con programmi aperti, con prodotti equivalenti, imponendo al fornitore di cedere le proprie banche dati costituite (costruite) nel tempo (di proprietà pubblica), rilevando che i costi dovuti in prima battuta al cambio di operatore, saranno nel lungo periodo recuperati attraverso il risparmio di spesa che ne conseguirà e compensati dai vantaggi qualitativi acquisibili mediante la concorrenza, nel senso che «l’uscita dalla condizione di lock – in può avvenire solamente con una procedura aperta in cui l’amministrazione si renda disponibile alla fornitura di modelli equivalenti a quelli in uso»[3].
L’intervento ANAC: un caso insolito
La delibera ANAC n. 452 del 3 ottobre 2023 (Fascicolo Anac n. 2787/2023), interviene su una gara aperta per l’affidamento ad una Destination Management Company (DMC) dei servizi di informazione, accoglienza turistica, promozione, promocommercializzazione e destination marketing, che vedeva il ricevimento di un’unica offerta (il precedente gestore).
Si legge che l’aggiudicatario nella formazione del Piano promozionale annuale deve prevedere «la creazione, gestione e aggiornamento quotidiano, con produzione di post propri o altre attività di social marketing, di almeno tre social network (Facebook, Instagram, Twitter). I profili così creati per la promozione della destinazione, al termine dell’affidamento resteranno di proprietà del Comune di … L’aggiudicatario dovrà impegnarsi a consegnare le “chiavi di accesso” per l’utilizzo di detti profili», così come per la creazione di siti informatici, con relativi domini e loghi del Comune.
Si legge, ancora, che «Invece nella precedente procedura di gara indetta … non era stato previsto che sia il dominio che i profili creati sarebbero divenuti di proprietà del Comune di …; dunque, ad oggi sia il dominio che i profili social creati in esecuzione del precedente contratto di appalto risultano essere di proprietà della società».
L’Autorità Anticorruzione evidenzia che quest’ultima circostanza ha «determinato conseguenze pregiudizievoli per l’Amministrazione Comunale a vantaggio dell’operatore economico affidatario della procedura che, nell’esecuzione del contratto ha utilizzato il logo del Comune di … oltreché tutte le attività istituzionali dell’Ente locale per acquisire seguito, visibilità e interesse per le pagine multimediali create. In tal modo, il prodotto digitale implementato ha acquisito seguito e, di riflesso, un valore in termini economici a vantaggio dell’operatore economico privato, proprietario di tutti i domini utilizzati per sponsorizzare l’attività turistica del Comune».
In conseguenza di ciò, si osserva che l’attuale gestore uscente e unico offerente possessore di una considerevole esperienza maturata lo pone in una situazione di evidente vantaggio competitivo, in quanto, lo stesso, oltre a conoscere il prodotto turistico “già consolidato”, avrebbe ed ha «già un posizionamento “social” ottenuto eseguendo le prestazioni contrattuali di cui al precedente contratto, peraltro, sfruttando anche le eventuali attività istituzionali pubbliche e/o le iniziative pubbliche di interesse (oltre che i loghi istituzionali del Comune)», avendo, altresì, oltre 18 mila follower.
Si deduce, senza voli d’uccello, che l’operatore economico uscente, nell’esecuzione del contratto d’appalto con il Comune abbia acquisito un “posizionamento digitale” ed un bagaglio informativo – in merito all’offerta presentata da porlo in una situazione soggettiva di apprezzabile vantaggio rispetto ai competitors, laddove, sottolinea ANAC, possa contare anche sul mantenimento della proprietà delle implementate realtà digitali.
Il profilo social
Senza entrare nel merito delle valutazioni ANAC sull’anomalia e sulla criticità della procedura di affidamento, ciò che preme acclarare è l’aspetto del profilo social dell’Amministrazione, quando ha consentito ad un operatore economico di essere il titolare dei propri domini digitali (siti e loghi).
In termini diversi, si direbbe che ANAC abbia voluto richiamare, da un caso concreto, le Amministrazioni sull’importanza di non cedere a terzi l’identità digitale, che nel logo trova una chiara manifestazione di un’espressione che non può che appartenere alla singola personalità giuridica: l’Amministrazione pubblica, identificabile con stemma e denominazione propria (un unicum nell’ordinamento giuridico).
La mancata acquisizione della proprietà del dominio e dei relativi profili social implementati dall’operatore economico uscente, nell’ambito delle prestazioni rese con il precedente appalto, senza considerare gli effetti distorsivi del mercato di riferimento, creano un vulnus, oltre che ai principi comunitari di libera concorrenza, par condicio e massima partecipazione, all’immagine pubblica quando il privato possiede l’accesso ad una serie di informazioni riservate, o quanto meno acquisite nel corso di un rapporto pubblico che altrimenti non avrebbe accesso.
Un tanto sul rilievo che l’uso della rete, e, nello specifico, dei social media, intreccia una serie di relazioni con l’utente (il follower) che vive una singolare relazione immediata con il sistema digitale, a volte sostituendosi nella personalità con diverse dimensioni (e pagamenti).
Lo strumento di connessione, inoltre, profila (le c.d. tracce o impronte digitali) una serie infinita di dati e informazioni personali, capaci di stimolare il marketing commerciale, aprendosi in uno spazio immenso, virtualmente illimitato, dove il gestore della piattaforma immagazzina IP, con nuove opportunità di business e brand, consentendo all’impresa di espandere la propria influenza ben oltre gli spazi e i tempi del singolo contratto, con marginalità senza vincoli e senza alcun beneficio diretto o indiretto per l’Amministrazione in mancanza di clausole limitative di tali “prassi predatorie” ma coerenti con la libertà economica (ex art. 41 Cost.) e le politiche dei grandi social network.
In effetti, sottrarre all’Amministrazione, senza alcun corrispettivo o controprestazione, le attività social afferenti alle prestazioni contrattuali di promozione turistica, senza alcun controllo pubblico dei dati personali acquisiti, è una operazione amministrativa che sommessamente inqueta anche gli animi più miti.
Siti web e social di Amministrazioni devono restare sotto il controllo pubblico
Tale inquietudine si trova nelle note riportate nel sito ANAC, di presentazione della deliberazione n. 452 del 3 ottobre 2023, quando si ha modo di scorrere le righe dove si rimarca il fatto che il terreno (di qui l’espressione comune “messa a terra”) social deve (un evidente ordine) «restare in capo all’ente al termine del contratto di gestione», dovendo le PA «metter in chiaro nel contratto di gestione che il dominio e i relativi profili social curati dalla società di comunicazione, e i loro contenuti, devono essere restituiti alla fine del contratto e restare come patrimonio dell’ente pubblico», impedendo l’effetto lock – in.
Il Presidente di ANAC esprime queste considerazioni con l’esigenza (un obbligo) di inserire «nei contratti precise clausole che li tutelino» al fine di non rischiare «che, a conclusione del contratto, l’impresa affidataria divenga di fatto proprietaria del profilo social e dei relativi follower, privando l’ente di un patrimonio di contatti e conoscenze che invece deve rimanere nel pieno controllo degli enti pubblici».
Nel prosegue gli apprezzamenti non mancano quando rileva «un comportamento inadempiente e approssimativo da parte dell’amministrazione… È evidente … che il prodotto digitale implementato ha acquisito seguito e, di riflesso, un valore in termini economici a vantaggio dell’operatore economico privato, proprietario di tutti i domini utilizzati per sponsorizzare l’attività turistica del Comune».
I social e i siti web sono divenuti ormai strumenti di diffusione di ogni genere di materiale/prodotto/desiderio (entrati prepotentemente nel Codice di comportamento, ex DPR n. 81/2023), i profili dell’utente sono accessibili ad un numero imprecisato e non prevedibile di soggetti, specie quando l’utente stesso non provvede ad effettuare restrizioni, che peraltro i social network a volte non consentono facilmente: essere proprietari di queste piattaforme on line, connesse h24, rende (da rendita) in termini economici e di immagine, entrando in contatto con persone (i consumatori) con modalità di comunicazione difficilmente classificabile, ma sicuramente che originano flussi di dati e flussi finanziari.
Si può allora spingerci a provare a incontrare una possibile indicazione valoriale: privare (nel togliere) la PA di questo patrimonio digitale (immateriale) è una perdita non solo economica ma di fine etico, quell’interesse pubblico che dovrebbe andare ben oltre al “bene della vita”: «quando il leone uccide è lo sciacallo che guadagna»[4].
[1] Per attestare l’infungibilità è necessaria una preliminare indagine di mercato, TAR Lazio, Roma, sez. I, 6 novembre 2019, n. 12735.
[2] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 luglio 2014, n. 3997 e 30 aprile 2014, n. 2255.
[3] Cons. Stato, sez. V, 20 novembre 2020, n. 7239.
[4] The International, 2009, diretto da TYKWER.