Il comma 2 bis dell’art. 1, della legge n. 241/1990, impone un obbligo di correttezza (buona fede e collaborazione, mutato come principio nell’art. 5 del d.lgs. n. 36 del 31 marzo 2023) tra PA e cittadino, dove quest’ultimo è titolare di un’aspettativa di buona “condotta” (ex art. 97 Cost) nel riscontrare alle proprie richieste: un dovere di provvedere alle istanze di parte, ex art. 2 della legge n. 241/1990.
Tale regola è assurta a criterio di lettura delle norme, ossia l’interpretazione secondo buona fede (ex art. 1366, c.c.): criterio di interpretazione che non può essere relegato a meramente sussidiario rispetto ai criteri di interpretazione letterale e funzionale: l’elemento letterale va integrato con gli altri criteri di interpretazione, tra cui la buona fede, che si specifica in particolare nel significato di lealtà, finalizzata nell’evitare di suscitare falsi affidamenti e nel non contestare ragionevoli affidamenti ingenerati nella controparte[1].
L’aspettativa
La sez. II del Consiglio di Stato, con la sentenza 19 febbraio 2025, n. 1394 (Estensore Addesso), coglie appieno queste evenienze valoriali, dove il privato (indebitamente) utilizza un istituto giuridico (la sanatoria) per pretendere di raggiungere uno scopo diverso rispetto a quello previsto dall’impianto normativo: servirsi del silenzio inadempimento per obbligare l’Amministrazione ad adottare un atto non dovuto.
Un compulsare l’Amministrazione comunale affinché provveda.
Alla procedura deve escludersi l’applicabilità dello ius superveniens costituito dall’art. 36 bis del dPR n. 380/2001, introdotto dal d.l. n. 69/2024 (convertito con modificazioni dalla legge n. 105 del 2024, cd Decreto Salva Casa): presentazione della SCIA in sanatoria presentata prima della novella normativa (mancano norme transitorie per un’efficacia retroattiva, non potendo che trovare applicazione la regola generale sancita dall’art. 11 disp. prel. c.c.).
Il fatto
L’oggetto del giudizio è la domanda di accertamento dell’illegittimità del silenzio inadempimento o eventualmente del silenzio rifiuto serbato dal comune sulla SCIA. a sanatoria di opere abusive.
I fatti nella loro essenzialità: dopo una serie di sanatorie accolte e permessi di costruire rilasciati, il Comune accertava, sui lavori eseguiti, la realizzazione di una molteplicità di opere abusive (abusi sanati con l’aggiunta di abusi): seguiva SCIA in sanatoria, ex 37 dPR n. 380/2001 (per alcune opere nuove, prive di titolo).
In primo grado, si è ritenuto che il silenzio, sulla procedura di cui all’art. 37, Interventi eseguiti in assenza o in difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività, del dPR n. 380/2001, si configura come inadempimento[2].
Il silenzio inadempimento
Nel dichiarare l’appello infondato, il Giudice di seconde cure osserva:
- vige il principio tempus regit actum, come ancorato dall’art. 3, comma 4, del d.l. n. 69/2024, il quale esclude che la sanatoria presentata, ai sensi dell’art. 36 bis dPR n. 380/2001, fondi un diritto del privato alla ripetizione delle somme già versate a titolo di oblazione o di pagamento di sanzioni irrogate sulla base della normativa vigente alla data di entrata in vigore del decreto[3];
- non può essere invocato il silenzio assenso sull’istanza presentata, poiché l’art. 37 dPR n. 380/2001 (nel testo applicabile ratione temporis), a differenza dell’art. 36 che lo precede (relativo al silenzio rigetto sull’istanza di permesso di costruire in sanatoria), non assegna al silenzio serbato dall’Amministrazione alcun valore provvedimentale: di qui la necessaria qualificazione di esso quale silenzio inadempimento[4];
- sull’inapplicabilità, in materia edilizia, della disciplina del silenzio assenso, ex 20 della legge n. 241/1990, essendo esso assoggettato a una disciplina speciale, che ne definisce ambito e condizioni di applicazione: la stessa disposizione fa salva, peraltro, al comma 6, l’applicazione dell’accertamento di conformità di cui all’art. 36 TU edilizia (e quindi del silenzio rigetto) «ove ne ricorrano i presupposti in relazione all’intervento realizzato», ovvero laddove si tratti di interventi soggetti a permesso di costruire, insuscettibili di sanatoria ai sensi del comma 4 dell’art. 37.
In questa distesa di profili contenutistici, appare più che evidente che in mancanza di un riscontro non possa sorgere il silenzio assenso, quanto il silenzio rigetto (significativo), escludendo il silenzio inadempimento: in termini diversi, l’assenza di una regolare conformità impedisce la sanatoria, non potendo assimilare il silenzio all’inerzia della PA, quanto all’effetto voluto dalla norma: il rigetto di sanatoria.
Silenzio rigetto
Se il quadro descritto porta a ritenere che la condotta della PA è conforme al precetto normativo, in funzione del naturale corollario del principio di legalità dell’azione amministrativa, non è consentito all’interprete sostituirsi o sovrapporsi alla chiara volontà del legislatore (in claris non fit interpretatio).
L’approdo ragionevole e logico impedisce, nel caso di specie, proporre l’azione sull’accertamento del silenzio inadempimento, ai sensi degli artt. 31 e 117 c.p.a., anche se astrattamente possibile: non è ravvisabile né un obbligo di rispondere in capo all’Amministrazione, né un interesse legittimo ad ottenere una risposta in capo alla ditta ricorrente.
È noto che, al fine di valutare l’incidenza sull’assetto del territorio di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, anche realizzate in tempi diversi, occorre compiere una valutazione complessiva e globale delle opere medesime, mentre non possono essere presi in considerazione i singoli interventi in modo “atomistico”, come se fossero del tutto slegati l’uno dall’altro, sicché non è dato scomporne una parte per negare l’assoggettabilità (ad esempio) ad una determinata sanzione demolitoria, in quanto il pregiudizio arrecato al regolare assetto del territorio deriva non da ciascun intervento, ma dall’insieme delle opere nel loro contestuale impatto edilizio e nelle reciproche interazioni[5].
Ed in effetti, andando a scrutinare le circostanze concrete (i fatti probatori), si comprende (anche ad una mente mite), come l’istituto della sanatoria sia stato utilizzato in modo strumentale «non per legittimare, in via eccezionale, occasionali abusi di natura formale e di minima entità, ma come ordinario strumento per realizzare, in via progressiva e frazionata, un unico intervento di ampliamento e trasformazione dell’immobile originario (anch’esso in origine abusivo ed oggetto di sanatoria), senza ricorrere al titolo edilizio ex ante e secondo la logica del “fatto compiuto”: ciò in violazione del divieto di valutazione frazionata delle opere abusive che devono essere sempre apprezzate nella loro concreta intierezza», soprattutto in area sottoposta a vincolo paesaggistico e ambientale, oltreché nella fascia di rispetto fluviale[6].
Il Giudice, a rafforzare l’assunto: evidenzia che a fronte di plurime sanatorie ottenute, emerge con evidenza la strategia elusiva (una progressione temporale) della parte ricorrente[7], in un progressivo ampliamento (abuso) del compendio immobiliare, per concludere l’operato con una sanatoria “tombale”, quella invocata con un uso distorto della SCIA, ex 37 del d.P.R. n. 380/2001, quando la norma applicabile è diversa e più stringente, quella dell’art. 36 del dPR n. 380/2001.
Dunque, formazione del silenzio rigetto, anziché del silenzio inadempimento (o, peggio ancora, del silenzio assenso)[8].
Un tanto sul rilievo dell’inconfigurabilità di un obbligo a provvedere espressamente, pur a fronte di quanto previsto dal novellato art. 2, comma 1, della legge n. 241 del 1990, allorquando l’Amministrazione sia sollecitata a esercitare i propri poteri di autotutela[9].
L’abuso del diritto
Se allora siamo al cospetto di una strumentalizzazione dell’istituto della sanatoria, utilizzato scientemente e sistematicamente per uno scopo concreto diverso e antitetico (un ingiustificato sviamento dal fine tipico) rispetto alla finalità a cui è per legge deputato (id est) la sanatoria in via eccezionale di “abusi formali minori” e non quella più intensa di sottrarre l’intervento al rilascio del titolo edilizio ex ante e all’accertamento di compatibilità urbanistica ex post, ha immediate ricadute sul piano procedimentale e processuale, non potendo ricorrere al silenzio inadempimento per avere dal Giudice un conforto, se questo non può essere possibile in presenza del silenzio rigetto: un abuso del diritto.
Ne deriva:
- una fattispecie di abuso del diritto;
- la natura abusiva delle reiterate istanze di sanatoria, ex 37 del d.P.R. 380/2001, presentate al solo scopo di sospendere sine die l’efficacia dell’ordinanza di demolizione, le quali, anziché porre fine all’abuso, finiscono irragionevolmente per protrarlo[10];
- la violazione degli obblighi di collaborazione e buona fede[11].
Metrica etica
Le ragioni estetiche e sociali consentono di affermare, in presenza di simile percezione del diritto, che il bene comune non è la sommatoria degli interessi privati, ed il bene della vita non può ridursi a singole azioni di tutela, aggirando gli strumenti normativi: sollecitare l’Amministrazione, confondendo gli istituti, con azioni ardite di responsabilità omissive, segna all’evidenza la ricerca di una espediente, un accorgimento (modo ingegnoso di sottrarsi a un “pericolo” della legge, dura lex sed lex) cassato dal Giudice senza esitazione: un’inversione (incomprensione) del motto: audentes fortuna iuvat (VIRGILIO).
[1] Cons. Stato, sez. IV, 5 settembre 2024, n. 7435.
[2] Nel procedimento di sanatoria edilizia conclusa ai sensi dell’art. 37, comma 4, del dPR n. 380 del 2001, non si applicano i termini perentori di 30 giorni previsti per l’esercizio dei poteri inibitori della SCIA, di cui all’art. 19, commi 3 e 6 bis, della legge n. 241 del 1990: si tratta di un vero e proprio procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento espresso dell’Amministrazione, e l’assenza di tale provvedimento configura un’ipotesi di silenzio inadempimento, TAR Calabria, Catanzaro, sez. II, 22 novembre 2024, n. 1635.
[3] Sull’inapplicabilità in via retroattiva del d.l. n. 69/2024, cfr. Cons. Stato sez. II, sentenza n. 10076 del 2024 e Corte cost., sentenza n. 124 del 2024, ove si è chiarito che la nuova fonte «non ha inteso superare il requisito della cosiddetta “doppia conformità”, ma ne ha circoscritto l’ambito di applicazione agli abusi edilizi di maggiore gravità».
[4] Cfr., Cons. Stato, sez. II, sentenze n. 1708 del 2023; n. 8806 del 2023 e n. 4191 del 2024.
[5] Cons. Stato, sez. VII, 18 febbraio 2025, n. 1382, idem sez. VI, 3 novembre 2022, n. 9653.
[6] Cfr., Cons. Stato, sez. III, sentenze n. 8795 del 2024; sez. V, n. 8032 del 2024; sez. VI n. 7968 del 2024.
[7] Manca una situazione soggettiva tutelabile: per la natura illegittima, emulativa ed elusiva dell’interesse rivendicato, c.d. interesse illegittimo o emulativo, cfr. Cons. Stato, sez. I, parere n. 1034 del 2024, sez. IV, nn. 1734 del 2022, 2698 del 2016, sez. V, n. 5870 del 2015.
[8] L’obbligo di provvedere in capo alla PA, sorge solo a fronte di un’aspettativa legalmente tutelata del privato di ottenere il bene e/o l’utilità dovuti tramite un’attività funzionale (procedimento amministrativo) della PA, Cons. Stato, sez. IV, 3 aprile 2023, n. 3396.
[9] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 6915 del 2022.
[10] Cfr. Cons. Stato, sez. II, sentenza n. 2329 del 2024.
[11] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 7843 del 2022.