La sez. V del Consiglio di Stato, con la sentenza 21 gennaio 2021 n. 653 (est. Gambato Spisani), chiarisce la distinzione (o la presenza o meno) tra domicilio e residenza ai fini dell’esercizio dei servizi legali[1], dichiarando l’illegittimità di un regolamento edilizio che ricomprendeva – tra gli uffici aperti al pubblico – anche quelli per l’esercizio della professione di avvocato.
L’art. 43, Domicilio e residenza, del codice civile definisce «Il domicilio di una persona è nel luogo in cui essa ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. La residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale».
Si chiarisce che:
- la residenza della persona è determinata dall’abituale e volontaria dimora[2] in un determinato luogo, caratterizzata dalla permanenza per un periodo apprezzabile (elemento oggettivo) e dall’intenzione di abitarvi in modo stabile (elemento soggettivo), rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali, familiari ed affettive, e la verifica di tali requisiti, ai sensi dell’art. 19 d.P.R. n. 223 del 1989, avviene da parte dell’ufficiale d’anagrafe, osservando, altresì, che la stabile permanenza sussiste anche quando la persona si rechi a lavorare o a svolgere altra attività fuori del comune di residenza, sempre che conservi in esso l’abitazione, vi ritorni quando possibile e vi mantenga il centro delle proprie relazioni familiari e sociali[3];
- di converso, il domicilio va inteso come la sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle relazioni personali, desumibile da elementi presuntivi[4], rilevando, sotto altro profilo, che ai fini dell’individuazione della “residenza fiscale” del contribuente (che non coincide necessariamente con quella anagrafica ma più prossima al domicilio)[5] deve farsi riferimento al centro degli affari e degli interessi vitali dello stesso, dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi è esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi, non rivestendo ruolo prioritario, invece, le relazioni affettive e familiari, le quali rilevano solo unitamente ad altri criteri attestanti univocamente il luogo col quale il soggetto ha il più stretto collegamento[6].
Su questa linea interpretativa, l’art. 44, Trasferimento della residenza e del domicilio, del c.c. precisa che «Il trasferimento della residenza non può essere opposto ai terzi di buona fede, se non è stato denunciato nei modi prescritti dalla legge. Quando una persona ha nel medesimo luogo il domicilio e la residenza e trasferisce questa altrove, di fronte ai terzi di buona fede si considera trasferito pure il domicilio, se non si è fatta una diversa dichiarazione nell’atto in cui è stato denunciato il trasferimento della residenza».
Fatte queste premesse, l’azione viene proposta contro un regolamento urbanistico edilizio, recante «Disciplina per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche», «nella parte in cui ricomprende, fra gli edifici aperti al pubblico, anche gli studi professionali di avvocati iscritti nell’elenco dei difensori d’ufficio e abilitati al gratuito patrocinio».
Giova rammentare che, ai fini della qualificazione dell’ambiente come “luogo aperto al pubblico”, è necessario verificare la sua destinazione alla fruizione di un numero indeterminato di soggetti che abbiano la possibilità pratica o giuridica di accedervi[7].
Al di là dell’aspetto squisitamente urbanistico, finalizzato ad obbligare i destinatari a sostenere i costi di adeguamento, ciò che rileva sono le conclusioni del giudice di secondo grado con riferimento alla nozione di “luogo aperto al pubblico” e di “domicilio” dello studio dell’avvocato (funzione di difesa di tipo pubblicistico).
Nel merito, l’appello viene ritenuto fondato (e di conseguenza annullati gli atti) su ragioni che si fondano esclusivamente su considerazioni giuridiche, «omesso ogni apprezzamento in termini di valore ovvero opportunità sociale, che come tale non compete al Giudice»:
- né la legge professionale (31 dicembre 2012, n. 247), in particolare l’art. 7 di essa, relativo al “domicilio”, né il codice deontologico forense obbligano l’avvocato, per esercitare la sua professione, ad avere la disponibilità di un ufficio a ciò dedicato, ovvero ad avere materialmente una sede fisica esclusiva per l’esercizio della professione (rectius ambiente), che viene rimessa alla libera scelta del professionista: una facoltà;
- invero, quello che viene richiesto risulta esclusivamente un “recapito”, ove essere reperibile e ricevere gli atti, ma non vieta che esso, al limite, coincida con la propria abitazione;
- lo studio legale, anche quando esiste, non è di per sé “luogo pubblico” o “aperto al pubblico”, come desumibile dall’art. 614 c.p., il quale prevede che commette il reato di violazione di domicilio chi acceda allo studio di un avvocato, o vi si trattenga, contro la volontà del titolare: per lo “ius excludendi alios” è sufficiente la volontà contraria all’introduzione)[8];
- non è, pertanto, obbligato l’avvocato a disporre di uno studio (inteso come ambiente di lavoro), potendo recarsi direttamente dalla parte «in un luogo che essa ritiene adeguato alle proprie esigenze, anche di salute, e in particolare non vietano certo che egli si rechi al domicilio di un disabile il quale se ne possa allontanare solo con difficoltà», ovvero l’esercizio della professione può sempre svolgersi con modalità che prescindono dalle barriere architettoniche.
In effetti, in tema di violazione di domicilio, luogo di privata dimora deve:
- ritenersi anche quello adibito all’esercizio di un’attività che si ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente senza turbamenti di terzi ed anche una volta che sia cessato l’orario di apertura;
- rientrando, pertanto, non solo l’abitazione, ma anche ogni luogo non pubblico, che serva all’esplicazione della vita professionale, culturale e politica[9].
Si comprende, quindi, che la norma tutela non solo la inviolabilità dell’abitazione e degli altri luoghi di privata dimora, ma anche le loro appartenenze, commettendo il delitto di “violazione di domicilio” chi si introduce o si trattiene sulla soglia dell’abitazione altrui, contro la volontà di chi abbia il diritto di escluderlo[10].
Fatte queste osservazioni (a margine di commento), il Giudice rileva che nella specifica disciplina delle barriere architettoniche il concetto di “luogo aperto al pubblico” andrebbe inteso in modo particolare, comprensivo dei luoghi privati chiusi alla generalità delle persone, ma accessibili a una data categoria di aventi diritto: una diversa interpretazione estensiva non trova sostegno nel testo di legge e neppure nella definizione formulata dalla fonte regolamentare.
Neppure (in fine) si ritiene apprezzabile il fatto che l’eventuale pagamento degli onerari di coloro che sono iscritti nell’elenco degli abilitati al patrocinio a spese dello Stato, corrisponde un vantaggio tale da giustificare (in funzione compensativa) una contropartita «in termini di oneri per le opere per il superamento delle barriere architettoniche, notoriamente di impegno economico non sempre lieve, potrebbe quindi al limite sussistere quanto agli iscritti all’elenco degli abilitati al patrocinio a spese dello Stato, e non per gli iscritti all’elenco dei difensori d’ufficio», e in ogni caso «non appare quindi giustificato, in termini di proporzionalità, che a fronte di un vantaggio solo potenziale sia imposto un esborso certo ed immediato».
La questione affrontata si presenta di vivo interesse e dovrebbe essere affidata ad una fonte primaria chiara (rispetto a tante norme del tutto inutili e incomprensibili), piuttosto che alle iniziative delle municipalità in una nozione estesa di “luogo aperto al pubblico” che non trova riscontro, appunto, nella legge per imporre coattivamente l’abbattimento delle barriere architettoniche: una diversa “sensibilità” gioverebbe («di tutte queste dote s’avvantaggia l’umana creatura»)[11].
[1] Si rinvia, Incarichi di consulenza e di servizi legali. Guida completa alle procedure, 2020, Maggioli.
[2] La dimora abituale può anche non coincidere con quella anagrafica, Cons. Stato, sez. V, 24 settembre 2019, n. 6359.
[3] Cfr. Cass. civ., 1° dicembre 2011, n. 25726 e n. 1738/1986, ciò che rileva ai fini della individuazione della residenza, intesa come dimora abituale, è la permanenza in un luogo per un periodo prolungato apprezzabile (c.d. elemento oggettivo), ma tale che non debba essere necessariamente prevalente sotto un profilo quantitativo, dovendo tale elemento coniugarsi con quello altrettanto rilevante, anzi dirimente, dell’intenzione di stabilirvisi stabilmente (c.d. elemento soggettivo), rivelata dalle proprie consuetudini di vita e dalle proprie relazioni familiari e sociali. Quest’altro elemento sussiste allorquando un soggetto, pur non soggiornando permanentemente in un luogo, in relazione ai plurimi impegni che possono caratterizzare la sua vita, vi ritorna non appena può, instaurando ivi le proprie più significative relazioni sociali ed affettive, Cass. civ., sez. I, ord. 15 febbraio 2021, n. 3841.
[4] Cass. civ., sez. V, 8 ottobre 2020, n. 21694, idem Cass. pen., sez. III, 6 febbraio 2020, n. 9090.
[5] Le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora, che è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro le stesse risultanze anagrafiche, assumendo rilevanza esclusiva il luogo ove il destinatario della notifica dimori di fatto, in via abituale, Corte Appello Palermo, sez. III, 11 luglio 2018, idem TAR. Sicilia, Palermo, sez. I, 13 giugno 2018, n. 1353.
[6] Cass. civ., sez. V. ord., 20 dicembre 2018, n. 32992.
[7] Cass. pen., sez. VI, 7 giugno 2018, n. 26028.
[8] Cass. pen., sez. V, 18 aprile – 26 luglio 2018, n. 35767.
[9] Cass. pen., sez. V, 4 novembre 2019, n. 50192.
[10] Tribunale Gorizia, sent., 26 marzo 2020.
[11] DANTE, Paradiso, VII 76-77.