In generale nei rapporti con la PA, può accadere che si ometta di rendere una dichiarazione a fronte di un obbligo imperativo di presentare, in funzione di un dovere di collaborazione (ex comma 2 bis dell’art. 1 della legge n. 241/1990), tutta una serie di informazioni relative all’affidabilità del soggetto, ad es. c.d. moralità professionale, con lo scopo di individuare un contraente fedele.
La buona fede
Ne consegue che l’omissione di un obbligo dichiarativo quando si appalesa la sua necessità integra, con ogni evidenza, una dichiarazione mendace poiché esigenze di completezza e veridicità, posti a tutela dell’interesse pubblico alla trasparenza e, al tempo stesso, alla semplificazione, esigono di comportarsi in buona fede, evitando il mendacio: una dichiarazione inaffidabile, perché falsa o incompleta, è già di per sé stessa lesiva degli interessi tutelati, a prescindere dall’interesse della parte agente, ove, peraltro, l’omessa dichiarazione ha il grave effetto di non consentire proprio all’Amministrazione una valutazione ex ante[1].
In effetti, il falso “commissivo”, come pure il falso c.d. “omissivo”, laddove la mancata dichiarazione, in virtù della consapevolezza dell’omissione da parte del soggetto tenuto a renderla (è richiesto il dolo generico, inteso come semplice consapevolezza della condotta tenuta)[2], sono idonei ad indurre in errore la PA circa il possesso, da parte del dichiarante medesimo, di determinati requisiti o condizioni, capaci di precluderle una rappresentazione genuina e completa della realtà posta alla base di una propria decisione: il provvedimento amministrativo.
In termini diversi, l’alterazione della realtà, oppure l’omissione di elementi utili di valutazione, comporta la non corrispondenza al vero della dichiarazione resa, con la conseguenza di essere in presenza di un’ipotesi di dichiarazione/documentazione non veritiera sulle condizioni richieste per acquisire un titolo: un’anomalia dichiarativa.
Il fatto
La sez. II del TAR Marche, con la sentenza 3 luglio 2024, n. 629, interviene per distinguere una dichiarazione dolosamente infedele da una dichiarazione veritiera, dove l’omissione non serbava l’intento (volontà cosciente) di indurre in errore la PA.
La questione si presentava a fronte di un ricorso per l’annullamento di un diniego a un condono, dove nella domanda si producevano planimetrie in parte difformi rispetto allo stato dei luoghi all’epoca dei fatti (contrasto tra elaborato grafico e stato di fatto), rilevando che la stessa non era dolosamente infedele, ossia idonea ad indurre in errore la Pubblica Amministrazione onde ottenere una sanatoria non dovuta.
Dichiarazione dolosamente infedele
Il Giudice di prime cure, nel dichiarare il ricorso fondato, fornisce immediatamente una nozione di istanza (di condono) dolosamente infedele dove è necessario:
- essere in presenza di una domanda che presenti inesattezze ed omissioni tali da configurare un’opera completamente diversa per dimensione, natura e modalità dell’abuso dall’esistente;
- dove la difformità possa ritenersi preordinata a trarre in errore il Comune su elementi essenziali dell’abuso, quali la data della sua commissione, la qualificazione giuridica dell’illecito, l’entità dell’ablazione, la consistenza dell’abuso;
- deve provarsi (accertare in sede istruttoria) la volontà di rendere un’inesatta rappresentazione della realtà, con l’unico scopo di acquisire il titolo, dove l’espressione letterale rilevanza delle omissioni, si coniuga inscindibilmente al dato d’ordine quantitativo all’“infedeltà” ed al “dolo”, che connotano la domanda per il fatto stesso dell’esistenza del primo[3].
Si comprende che la domanda di condono (se si volesse ritenere infedele) dovrebbe essere confezionata in modo da rappresentare una realtà non conforme allo stato dei luoghi, nel senso che l’individuazione della parte da condonare risulterebbe diversa da quella esistente (all’epoca dell’abuso).
Pare giusto osservare che vi è un interesse pubblico in re ipsa all’eliminazione, ai sensi dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, di un titolo abilitativo illegittimo a fronte di falsa, infedele, erronea o inesatta rappresentazione, dolosa o colposa, della realtà da parte dell’interessato, risultata rilevante o decisiva ai fini del provvedimento ampliativo, non potendo l’interessato vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un titolo ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’Amministrazione procedente[4].
Quando, invece, la domanda di condono non è stata assistita da una falsa rappresentazione dello stato dei luoghi, dal momento che lo stato di fatto è stato fedelmente rappresentato, sia all’epoca della presentazione della domanda sia successivamente in sede di integrazione istruttoria, non su può ritenere di essere in presenza di una dolosa infedele richiesta, anzi quando la parte rappresenta integralmente la situazione di fatto le eventuali incongruenze rilevate dagli atti prodotti esclude una volontà dolosa.
La correttezza
In termini più chiari, le eventuali discrasie rilevate dal Comune non sono emerse all’esito di un accertamento istruttorio eseguito nell’interesse della stessa Amministrazione, bensì sulla base del mero raffronto fra i documenti di provenienza della parte: questo esclude la configurabilità di comportamento doloso volto a rappresentare all’Amministrazione una situazione di fatto differente dal reale al fine di indurla nel falso convincimento della sanabilità di un intervento che altrimenti resterebbe escluso dal beneficio richiesto.
In dipendenza di ciò, è evidente che l’Amministrazione ha operato una valutazione della documentazione fornita dal richiedente, e qualora ritenesse che tale documentazione fosse stata alterata (nel senso difforme rispetto alla reale consistenza) avrebbe dovuto dare conto di questa difformità rispetto al reale[5]; avrebbe dovuto motivare sotto quale profilo la modifica dello stato dei luoghi sia stata posta in essere dal ricorrente al precipuo scopo di indurre artificiosamente l’Amministrazione a riconoscere un condono che sulla base dello stato dei luoghi realmente esistente non poteva essere concesso.
L’infedele rappresentazione
Il precipitato della sentenza conferma un orientamento giurisprudenziale costante dove costituisce domanda dolosamente infedele, tale quindi da comportare il diniego di condono edilizio, quella che presenti inesattezze ed omissioni tali da configurare un’opera completamente diversa per dimensione, natura e modalità dell’abuso dall’esistente, purché tale difformità risulti preordinata a trarre in errore il Comune su elementi essenziali dell’abuso, nei termini sopra riportati, o quando, ad esempio, si prospetti la presenza di un edificio in un determinato momento storico, attraverso il deposito di documenti/relazioni/perizie, mentre da un’analisi foto aerea (oppure, carta aerofotogrammetrica con ricognizione eseguita sui luoghi dall’IGM)[6] si evince che l’immobile non esisteva.
È noto, per quanto interessa, che l’onere della prova dell’ultimazione entro una certa data di un’opera edilizia abusiva, allo scopo di dimostrare che essa rientra fra quelle per le quali si può ottenere una sanatoria speciale, incombe in linea generale sul privato a ciò interessato, unico soggetto ad essere nella disponibilità di documenti e di elementi di prova, in grado di dimostrare con ragionevole certezza l’epoca di realizzazione del manufatto[7].
[1] Invero, nelle procedure di evidenza pubblica l’incompletezza delle dichiarazioni lede di per sé il principio di buon andamento dell’Amministrazione, inficiando ex ante la possibilità di una non solo celere ma soprattutto affidabile decisione in ordine all’ammissione dell’operatore economico alla gara, Cons. Stato, sez. V, 27 dicembre 2018, n. 7271.
[2] Cfr. Cass. pen., 31 maggio 2013, n. 23732, dove il dolo generico consistente nella rappresentazione e nella volontà dell’«immutatio veri», mentre non è richiesto l’«animus nocendi» né l’«animus decipiendi», di talché la falsità rileva anche nel caso in cui sia – in ipotesi – compiuta senza l’intenzione di nuocere o, addirittura, accompagnata dalla convinzione di non produrre alcun danno.
[3] Cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 2086/2008; sez. IV, 30 novembre 2009, n. 7491 e gennaio 2013, n. 39; sez. VI, 18 agosto 2021, n. 5927.
[4] TAR Campania, Salerno, sez. II, 5 gennaio 2021, n. 18, richiamata da Cons. Stato, sez. VI, 6 luglio 2023, n. 6615.
[5] Invero, si può incorrere in un travisamento dei fatti che può presentarsi quando una specifica area del territorio comunale viene qualificata dell’esistenza di un vincolo di natura espropriativa, tuttavia basato su una tavola del PRG adottata ma non ancora approvata e, dunque, non valida né efficace: tale erronea prospettazione di un documento non valido rende il provvedimento finale palesemente illegittimo per travisamento dei fatti, in quanto sono stati ritenuti presenti (e rilevanti ai fini della sussistenza del vincolo espropriativo) degli standard di progetto in realtà assenti, TAR Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 6 luglio 2024, n. 337.
[6] Sulla rilevanza delle aerofotogrammetrie, anche ai fini della reiezione dell’istanza di condono, cfr. TAR Campania, Napoli, sez. II, 3 agosto 2022, n. 5246.
[7] Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2020, n. 6112; TAR Campania, Napoli, sez. III, 3 maggio 2021, n. 2900.