La quarta sez. Milano del T.A.R. Lombardia, con la sentenza 3 dicembre 2018, n. 2725, interviene affermando la legittimità di un’ordinanza di rimozione di un cancello di sbarramento posto su una strada (ad uso pubblico), segnando i limiti del potere comunale in materia di tutela del regolare funzionamento della viabilità quando una proprietà privata è gravata da una servitù ad uso pubblico.
Il ricorso veniva proposto da alcuni privati contro un’ordinanza del responsabile del servizio, con cui si ordina di rilasciare «un’area, delimitata da cancello in ferro, di rimuovere tale cancello e il corpo caldaia che è posto in soprassuolo nel cortile e, inoltre, si ingiunge il pagamento di somme per occupazione abusiva».
L’area consisteva in un piccolo cortile interno, circondato da edifici (anche dei ricorrenti), e che costituiva l’ultimo tratto (interrotto dal cancello) di una diramazione della vicina strada pubblica.
Nel corpo redazionale dell’ordinanza (istruttoria) si richiamava l’avviata procedura di mediazione per vedere accertata l’usucapione ultraventennale del cortile, l’identificazione sulle mappe catastali di strada appartenente (in via presuntiva, valenza meramente dichiarativa e non costitutiva) al demanio comunale, l’assenza di un titolo di proprietà privata dell’area con la conseguenza di motivare il legittimo potere dell’Amministrazione civica di portare ad esecuzione (autotutela esecutiva) la demolizione del cancello (e la rimozione della caldaia) in quanto occupazione abusiva di area nella disponibilità pubblica.
Anche le caldaie hanno una loro posizione di diritto.
I ricorrenti a contrario riferivano che:
- il cancello era presente e autorizzato sin dal 1979, con l’evidente manifestazione silente dell’Amministrazione di valutare l’area delimitata come cortile e non come strada;
- l’assenza di un’adeguata istruttoria finalizzata ad individuare puntualmente il citato sedime;
- la mancanza della prova di uso pubblico o di proprietà pubblica del cortile con connesso potere di regolamentazione (ex artt. 2, comma 1 e 20 del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, c.d. Codice della strada);
- la mancanza di titolo all’esercizio dell’azione possessoria iure pubblico, attribuita al sindaco e non al responsabile dell’area (ex art. 378 della Legge n. 2248/1865);
- la mancata pubblicazione integrale dell’ordinanza all’Albo pretorio, sostituita ad un avviso, con conseguente inefficacia.
Il Collegio rammenta, in primis, la propria competenza sulla materia concernente la legittimità dell’ordinanza, ai sensi dell’art. 8, comma 1 del c.p.a., potendo incidentalmente valutare tutte le questioni pregiudiziali o incidentali relative a diritti, la cui risoluzione sia necessaria per pronunciare sulla questione principale, sia pure senza efficacia di giudicato (il definitivo accertamento della proprietà dell’area appartiene all’Autorità giudiziaria ordinaria).
Fatte queste premesse, la questione da affrontare si rinviene nella verifica della correttezza del potere esercitato e del suo titolare previsto dalla Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. F, formalmente in vigore, in quanto inclusa nell’allegato 1 al Decreto L1 dicembre 2009, n. 179.
Sul punto, il T.A.R. procede con un primo quadro decisionale:
- concorda con le indicazioni dell’Amministrazione civica, rilevando che se l’art. 378 della Legge n. 2248/1865, stabilisce che «Per le contravvenzioni alla presente legge, che alterano lo stato delle cose… l’ordinare la riduzione al primitivo stato», risulta di competenza dei sindaci «quando trattasi di contravvenzioni relative ad opere pubbliche dei comuni», con l’art. 107 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (TUEL), questo potere viene ora viene affidato, in generale, ai dirigenti, tra cui specificatamente include (ex comma terzo, sub g), la competenza ad emettere «tutti i provvedimenti di … riduzione in pristino di competenza comunale»;
- risulta irrilevante che l’ordinanza sia stata pubblicata o meno all’albo pretorio, atteso che nessuna norma condiziona l’efficacia del provvedimento a tale formalità.
- l’inclusione o meno nell’elenco delle strade, anche senza considerare che la materia è stata riordinata dapprima dalla Legge 12 febbraio 1958, n. 126 e, quindi, dal D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, non ha alcun contenuto costitutivo.
Con riferimento alla proprietà della strada, il Tribunale rileva:
- la presunta manifestazione di assenso al posizionamento del cancello non coincide con la corretta determinazione del sedime, ribadendo che i dati catastali hanno, in generale, un valore meramente indiziario (cfr. Cass., 28 agosto 1993, n.9138; idem 21 dicembre 1999, n. 14379);
- il presunto il nulla osta non ha alcun contenuto ricognitorio o confessorio sulla proprietà dell’area;
- l’assenza del titolo di proprietà del bene (il sedime del cortile) da parte dei privati non ne legittima la titolarità privata, fatto incontrovertibile della proprietà pubblica in presenza di una richiesta di usucapione nei confronti del Comune;
- insiste sul bene diversi varchi di accesso pedonale e carrabile appartenenti a diverse proprietà, nonché l’area risulta pavimentata ed a piano strada in continuità con la viabilità principale.
Tutti questi elementi probatori e l’assenza di un titolo di proprietà da parte dei privati portano alla ragionevole conclusione che, giusta artt. 822 e 824 c.c., tutto lo spazio intercluso dal cancello fa parte del demanio pubblico, e, pertanto, non può essere usucapito.
È noto, infatti, che sono soggetti al regime del demanio pubblico i beni indicati dagli artt. 823 e 824 c.c., tra cui, dunque, anche le strade appartenenti ai Comuni e, in tale materia, non è possibile ipotizzare la modifica della titolarità del bene per effetto di comportamenti occupativi o di impossessamento da parte dei privati, stante il divieto di usucapione del demanio di cui all’art. 823 c.c. (T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 4 febbraio 2016, n.1680).
Si deve, allora, affermare, secondo il pronunciamento del T.A.R. Lombardia, Milano, 3 dicembre 2018, n. 2725, che un’area di intersezione a servizio di una pubblica via può essere considerata una strada pubblica, non usucapibile, di cui nessuno si può impossessare, anche attraverso l’apposizione di cancelli che ne impediscono l’utilizzo collettivo, o con l’infissione di caldaie, risultando legittimo (anzi doveroso) l’esercizio del potere della P.A. ad agire per la tutela del bene pubblico, anche mediante autotutela esecutiva ex art. 823 c.c.: strumento che l’ordinamento appresta a garanzia di un’immediata esecuzione pubblica.
Il potere di autotutela demaniale, ai sensi dell’art. 378 della Legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F), che permanente e, dunque, legittimamente viene esercitato in presenza dell’apposizione di limiti o ostacoli da parte del privato: il potere esercitato attraverso l’ordinanza di messa in ripristino non è riducibile all’azione possessoria privatistica (artt. 1168 e ss. cod. civ.) ma è correlato alla finalità di ripristinare la disponibilità del bene pubblico in favore della collettività, a prescindere dalle modalità concrete nelle quali si è giunti all’occupazione abusiva in via di fatto e quali ne siano le cause (Cons. Stato, sez. V, 30 aprile 2015, n. 2196; sez. VI, 26 aprile 2018, nn. 2519 e 2520).
Il privato non è titolare manu militari di limitare la proprietà demaniale pubblica o ipotizzare una sua usucapione, pensando che l’oblio ne legittimi il titolo di provenienza.