«Libero Pensatore» (sempre)

Le regole dell’evidenza pubblica sono indilazionabile quando si opera nel mercato.

È noto che, ai sensi dell’art. 4 ultimo periodo della Legge 14 agosto 1991, n. 281 (“Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”), gli Enti locali, singoli o associati, provvedono «a gestire i canili e gattili sanitari direttamente o tramite convenzioni con le associazioni animaliste e zoofile o con soggetti privati che garantiscano la presenza nella struttura di volontari delle associazioni animaliste e zoofile preposti alla gestione delle adozioni e degli affidamenti dei cani e dei gatti».

La norma, in quanto speciale, non deroga l’ordinaria evidenza pubblica nella scelta del contraente ma limita il campo concorrenziale ad una serie di soggetti in relazione alla ratio di privilegiare quelle particolari organizzazioni che concorrono ad assolvere una funzione sociale, normativa che trova copertura costituzionale nel quarto comma dell’art. 118 Cost. e nella più recente disciplina del c.d. Terzo settore (ex D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117).

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Servizio di cattura, mantenimento e cura dei cani vaganti ed evidenza pubblica

Servizio di cattura, mantenimento e cura dei cani vaganti ed evidenza pubblica

Le regole dell’evidenza pubblica sono indilazionabile quando si opera nel mercato.

È noto che, ai sensi dell’art. 4 ultimo periodo della Legge 14 agosto 1991, n. 281 (“Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”), gli Enti locali, singoli o associati, provvedono «a gestire i canili e gattili sanitari direttamente o tramite convenzioni con le associazioni animaliste e zoofile o con soggetti privati che garantiscano la presenza nella struttura di volontari delle associazioni animaliste e zoofile preposti alla gestione delle adozioni e degli affidamenti dei cani e dei gatti».

La norma, in quanto speciale, non deroga l’ordinaria evidenza pubblica nella scelta del contraente ma limita il campo concorrenziale ad una serie di soggetti in relazione alla ratio di privilegiare quelle particolari organizzazioni che concorrono ad assolvere una funzione sociale, normativa che trova copertura costituzionale nel quarto comma dell’art. 118 Cost. e nella più recente disciplina del c.d. Terzo settore (ex D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117).

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È illegittimo vietare il consumo di cibo portato da casa nei locali adibiti a refezione scolastica e durante tale servizio.

La controversia oggetto di intervento della quinta sez. del Cons. Stato, con la sentenza n. 5156 del 3 settembre 2018, nella sua essenzialità affronta una questione che un tempo costituiva la normalità: consumare in classe il mangiare portato da casa, senza beneficiare del pasto fornito dalla scuola.

Il ricorso vede come parte appellante un’Amministrazione locale contro un gruppo di genitori di alunni frequentanti le scuole materne ed elementari che si erano opposti alle determinazioni del Consiglio comunale che prevedeva l’obbligatorietà – per tutti gli alunni senza alcuna distinzione – del servizio di ristorazione scolastica, mentre nulla diceva sul consumo di merende in orario scolastico (che pure risulta essere un piccolo pasto).

Le determinazioni consiliari di istituzione e regolamentazione del servizio di refezione scolastica, oltre a imporre un limite alla libertà di mangiare come meglio ritenevano opportuno i genitori (la cura dei propri figli comprende l’educazione alimentare, si tratta della tutela dei c.d. diritti sociali alla salute, all’assistenza, all’istruzione), disponeva un precetto a favore dell’appaltatore del servizio sull’uso esclusivo dei beni pubblici: nei locali in cui si svolgeva la refezione scolastica era inibito il consumo di cibi diversi da quelli forniti dall’operatore economico.

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Libero panino in libera scuola.

Libero panino in libera scuola.

È illegittimo vietare il consumo di cibo portato da casa nei locali adibiti a refezione scolastica e durante tale servizio.

La controversia oggetto di intervento della quinta sez. del Cons. Stato, con la sentenza n. 5156 del 3 settembre 2018, nella sua essenzialità affronta una questione che un tempo costituiva la normalità: consumare in classe il mangiare portato da casa, senza beneficiare del pasto fornito dalla scuola.

Il ricorso vede come parte appellante un’Amministrazione locale contro un gruppo di genitori di alunni frequentanti le scuole materne ed elementari che si erano opposti alle determinazioni del Consiglio comunale che prevedeva l’obbligatorietà – per tutti gli alunni senza alcuna distinzione – del servizio di ristorazione scolastica, mentre nulla diceva sul consumo di merende in orario scolastico (che pure risulta essere un piccolo pasto).

Le determinazioni consiliari di istituzione e regolamentazione del servizio di refezione scolastica, oltre a imporre un limite alla libertà di mangiare come meglio ritenevano opportuno i genitori (la cura dei propri figli comprende l’educazione alimentare, si tratta della tutela dei c.d. diritti sociali alla salute, all’assistenza, all’istruzione), disponeva un precetto a favore dell’appaltatore del servizio sull’uso esclusivo dei beni pubblici: nei locali in cui si svolgeva la refezione scolastica era inibito il consumo di cibi diversi da quelli forniti dall’operatore economico.

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Volendo riflettere sui fatti di cronaca nazionale non possiamo non trovare delle contaminazioni sui temi dell’etica e dell’integrità, anche se il fenomeno va al di là dei nostri confini, possiamo sostenere che nel nostro sistema ordinamentale vi sono gli anticorpi del diritto e un’Autorità di regolamentazione della prevenzione della corruzione (l’ANAC): il sistema così congegnato è di interesse per il cittadino comune.

Se si legge l’art. 97 della Costituzione Italiana, e si annota il valore cogente – in termini valoriali – si comprende che «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione», con il significato, appunto, di assicurare il “bene comune” da eventuali interessi particolari.

Se si legge l’art. 98 della Costituzione Italiana, si comprende – in parte – il significato della fiducia riposta dal dipendente pubblico «al servizio esclusivo della Nazione», e non di una parte o fazione politica.

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Nomine fiduciarie

Nomine fiduciarie

Volendo riflettere sui fatti di cronaca nazionale non possiamo non trovare delle contaminazioni sui temi dell’etica e dell’integrità, anche se il fenomeno va al di là dei nostri confini, possiamo sostenere che nel nostro sistema ordinamentale vi sono gli anticorpi del diritto e un’Autorità di regolamentazione della prevenzione della corruzione (l’ANAC): il sistema così congegnato è di interesse per il cittadino comune.

Se si legge l’art. 97 della Costituzione Italiana, e si annota il valore cogente – in termini valoriali – si comprende che «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione», con il significato, appunto, di assicurare il “bene comune” da eventuali interessi particolari.

Se si legge l’art. 98 della Costituzione Italiana, si comprende – in parte – il significato della fiducia riposta dal dipendente pubblico «al servizio esclusivo della Nazione», e non di una parte o fazione politica.

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Con l’approvazione del D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (c.d. Codice del Terzo settore) si è provveduto a rivedere la materia degli enti che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa (c.d. onlus e/o no profit), dando attuazione alla Legge 6 giugno 2016, n. 106, “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”.

La legge delega definisce immediatamente tra le finalità, al comma 1 dell’art. 1, il “Terzo settore” come «il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi. Non fanno parte del Terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche».

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Convenzioni con il “Terzo settore”

Convenzioni con il “Terzo settore”

Con l’approvazione del D.Lgs. 3 luglio 2017, n. 117 (c.d. Codice del Terzo settore) si è provveduto a rivedere la materia degli enti che concorrono, anche in forma associata, a perseguire il bene comune, ad elevare i livelli di cittadinanza attiva, di coesione e protezione sociale, favorendo la partecipazione, l’inclusione e il pieno sviluppo della persona, a valorizzare il potenziale di crescita e di occupazione lavorativa (c.d. onlus e/o no profit), dando attuazione alla Legge 6 giugno 2016, n. 106, “Delega al Governo per la riforma del Terzo settore, dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale”.

La legge delega definisce immediatamente tra le finalità, al comma 1 dell’art. 1, il “Terzo settore” come «il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi. Non fanno parte del Terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche».

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L’art. 42 del Codice dei contratti (ex D.Lgs. n. 50/2016) afferma che si ha conflitto d’interessi quando un soggetto interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, avendo, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza, a presidio anche dei valori di trasparenza (alias concorrenza, come voluto in ambito comunitario).

Nella condotta da mantenere si richiama espressamente l’obbligo di astensione (da parte di tutti i soggetti coinvolti) previsto dall’articolo 7 del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, in presenza «di interessi propri ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente», e con una disposizione di chiusura «in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza».

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Il conflitto di interessi nel Codice dei contratti

Il conflitto di interessi nel Codice dei contratti

L’art. 42 del Codice dei contratti (ex D.Lgs. n. 50/2016) afferma che si ha conflitto d’interessi quando un soggetto interviene nello svolgimento della procedura di aggiudicazione o può influenzarne, in qualsiasi modo, il risultato, avendo, direttamente o indirettamente, un interesse finanziario, economico o altro interesse personale che può essere percepito come una minaccia alla sua imparzialità e indipendenza, a presidio anche dei valori di trasparenza (alias concorrenza, come voluto in ambito comunitario).

Nella condotta da mantenere si richiama espressamente l’obbligo di astensione (da parte di tutti i soggetti coinvolti) previsto dall’articolo 7 del d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, in presenza «di interessi propri ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente», e con una disposizione di chiusura «in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza».

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SALO'La disciplina in materia di prevenzione della corruzione, ex legge n. 190/2012, ha inserito nell’art. 53, comma 16 ter del d.lgs. n. 165/2011 un vincolo per tutti i dipendenti (futuri ex dipendenti) che, negli ultimi tre anni di servizio (cd. periodo di raffreddamento), hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle P.A., di non poter svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri.

In conformità a quanto sopra, l’ANAC nel bando – tipo n. 2 del 2 settembre 2014 ha espressamente previsto l’introduzione, tra le condizioni ostative alla partecipazione, oggetto poi di specifica dichiarazione da parte dei concorrenti, tale divieto ope legis, costituendo un modello di riferimento sulla base del quale le stazioni appaltanti sono tenute a redigere la documentazione di gara per l’affidamento dei contratti pubblici, potendo discostarsene esclusivamente in presenza di una motivata deroga: tale clausola in tema di divieto di pantouflage risulta

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Il divieto di pantouflage

Il divieto di pantouflage

SALO'La disciplina in materia di prevenzione della corruzione, ex legge n. 190/2012, ha inserito nell’art. 53, comma 16 ter del d.lgs. n. 165/2011 un vincolo per tutti i dipendenti (futuri ex dipendenti) che, negli ultimi tre anni di servizio (cd. periodo di raffreddamento), hanno esercitato poteri autoritativi o negoziali per conto delle P.A., di non poter svolgere, nei tre anni successivi alla cessazione del rapporto di pubblico impiego, attività lavorativa o professionale presso i soggetti privati destinatari dell’attività della pubblica amministrazione svolta attraverso i medesimi poteri.

In conformità a quanto sopra, l’ANAC nel bando – tipo n. 2 del 2 settembre 2014 ha espressamente previsto l’introduzione, tra le condizioni ostative alla partecipazione, oggetto poi di specifica dichiarazione da parte dei concorrenti, tale divieto ope legis, costituendo un modello di riferimento sulla base del quale le stazioni appaltanti sono tenute a redigere la documentazione di gara per l’affidamento dei contratti pubblici, potendo discostarsene esclusivamente in presenza di una motivata deroga: tale clausola in tema di divieto di pantouflage risulta

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