La competenza, secondo i principi costituzionali, viene definita dalla legge, consentendo all’organo di esprimere i propri poteri in un determinato ambito, la cui violazione esprime una patologia dell’atto amministrativo: la competenza regolamentare negli Enti locali spetta al consiglio comunale, salvo che per l’organizzazione degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio, alla giunta comunale (ex terzo comma, dell’art. 48 del D.lgs. n. 267/2000)[1].
La prima sez. del T.A.R. Piemonte, con la sentenza del 9 gennaio 2020, n. 30, interviene per censurare la condotta di una giunta comunale nel dettare apposite condizioni ai titolari di proprietà immobiliari: obblighi di informazione preventiva al Comune prima di concedere in uso o locazione i propri beni, profilando di fatto una norma di natura regolamentare, di competenza esclusiva del consiglio comunale, al di là del merito estrinseco.
Il ricorrente, proprietario di un immobile, a fronte di tale disponibilità aveva valutato la possibilità di attivare le procedure di accoglienza diffusa di soggetti stranieri richiedenti protezione internazionale ed asilo, per la successiva consegna del bene allo scopo di ospitalità, incontrando, nelle more dell’avvio delle pratiche amministrative necessarie per aderire al programma ministeriale, indicazioni ostative in materia, da parte del Comune a “tutela” del proprio territorio.
In effetti, secondo l’art. 3, comma 2, del D.lgs. n. 267/2000 (c.d. TUEL) «Il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo», ed estraendo la norma si può affermare che lo spazio fisico (ossia, il territorio) garantisce la vita alla collettività (popolo) e segna il dominio su un tale bene: il territorio si identifica con il concetto di proprietà e lo Stato (il potere) ha il compito giuridico di garantire, oltre alla proprietà intesa come sovranità nel territorio, la proprietà privata (ex art. 42 Cost.).
Infine, la tutela del territorio, attraverso l’uso della forza (ovvero, l’esercizio dell’auctoritas) stabilisce l’identità sociale.
In dipendenza di ciò, nella ripartizione del policentrismo istituzionale, ogni livello di governo possiede diversa legittimazione o gerarchia di potere, in relazione alla fonte del diritto, leggi o regolamenti, ma anche ordinamenti (europeo, statale, regionale, locale): rapporti di “sovraordinazione” o “equiordinazione” nel rispetto del principio di legalità: quello superiore incide su quello inferiore.
L’art. 117 Cost. ed all’art. 7 del decreto legislativo n. 267 del 2000 segnano i limiti del potere normativo tra Stato e Autonomie locali: il Comune «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dello statuto» adotta «regolamenti nelle materie di propria competenza ed in particolare per l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni e degli organismi di partecipazione, per il funzionamento degli organi e degli uffici e per l’esercizio delle funzioni».
Ne consegue che i Comuni non hanno alcun potere legislativo: il potere regolamentare costituzionalmente previsto di loro pertinenza attiene alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, rilevando che il potere normativo attribuisce ai Comuni un potere regolamentare di carattere normativo nei limiti delle competenze che sono loro proprie[2].
Nella gerarchia delle fonti del diritto, i regolamenti comunali rappresentano delle fonti secondarie che non possono derogare o contrastare con la Costituzione, né con i principi in essa contenuti, non potendo derogare o contrastare con le leggi ordinarie, salvo che sia una legge ad attribuire loro il potere – in un determinato settore e per un determinato caso – di innovare anche nell’ordine legislativo (delegificando la materia).
Di talché, i regolamenti locali non possono intervenire nelle materie riservate dalla Costituzione alla legge ordinaria o costituzionale (riserva assoluta di legge), né derogare al principio di irretroattività della legge (ex art. 11 preleggi), ovvero prevedere una disciplina contra legem.
Il Collegio giunge ad un pronunciamento in forma semplificata, ravvisando la manifesta fondatezza del ricorso: in un sintetico riferimento al punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo ovvero, se del caso, ad un precedente conforme.
Nella sua operatività, la deliberazione di giunta comunale, redatta come “atto di indirizzo” agli uffici, introduceva una pluralità di obblighi di comunicazione in capo ai proprietari, possessori, conduttori, gestori di beni immobili siti nel Comune che intendevano impegnarsi nell’accoglienza di immigrati, prevedendo, altresì, una sanzione amministrativa: di fatto una disposizione regolamentare assecondata da una punizione amministrativa in caso di violazione.
La deliberazione, sentenzia il Tribunale, non poteva essere adottata dalla giunta comunale ma, ai sensi dell’art. 42, comma 2, lett. a) del TUEL, avrebbe dovuto essere adottata dal consiglio comunale.
Si riafferma, secondo costante giurisprudenza[3], che l’organo consiliare spetta in via generale ed esclusiva (ex art. 42, comma 2, lett. a) l’esercizio del potere normativo che, quale peculiare caratteristica dell’Autonomia dell’Ente locale (ex art. 3, comma 4), si manifesta, oltre che nell’adozione dello statuto, anche nell’emanazione di regolamenti, atti a contenuto generale ed astratto, disciplinanti il comportamento, alla stregua di altre norme giuridiche, della generalità dei cittadini o di una determinata categoria di essi: il potere regolamentare trova espresso e generale fondamento nell’art. 7 del TUEL (e copertura costituzionale nell’art. 117 Cost., come riscritto dalla Legge costituzionale 18 ottobre del 2001, n. 3).
L’approdo con la delineata natura e con le funzioni dell’organo consiliare è da considerarsi del tutto speciale ed eccezionale la competenza della giunta comunale di emanare regolamenti, limitata ai soli «regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi, nel rispetto dei criteri generali stabiliti dal consiglio».
Nel merito, al di fuori del censurato vizio di incompetenza, la considerazione pratica che il potere esercitato dalla giunta per l’introduzione di plurimi «obblighi di comunicazione in capo ai proprietari, possessori, conduttori, gestori di beni immobili siti nel Comune che intendono impegnarsi nell’accoglienza di immigrati e previsione di una sanzione amministrativa da euro 150,00 a euro 5.000,00 da applicarsi nel caso di violazione» non è previsto da alcuna disposizione di legge.
L’assenza di una previsione di legge che conferisce il potere di esercitare un obbligo coercitivo (ossia, assistito da sanzione) evidenzia che un’eventuale adozione di un provvedimento regolamentare, a cura del consiglio comunale, potrebbe essere ulteriormente viziato per eccesso di potere, in relazione al principio di tipicità degli atti amministrativi.
L’adozione di un regolamento è legittima sulla base dei requisiti e presupposti di carattere procedurale e sostanziale previsti dalla legge, in funzione del principio di tipicità degli atti amministrativi, diversamente, l’assenza della possibilità di ricorrere alle alternative ordinarie offerte dall’ordinamento, potrebbe abilitare l’esercizio di un potere sindacale extra ordinem, improbabile nel caso di specie[4].
Il quadro delineato nella sua essenzialità, a prescindere dal nomen iuris utilizzato o dall’organo abilitato, intende rispondere nel concreto ad un eventuale esercizio dell’azione amministrativa mediante un provvedimento di natura generale e astratta, dovendo chiarire ai destinatari dell’ordine (i proprietari o possessori o conduttori di beni immobili) le ragioni giuridiche e l’iter logico seguito dall’Amministrazione per giungere alla decisione da adottarsi.
A ben vedere, un onere di preinformazione o conoscitivo sull’utilizzo dei beni di proprietà privata: un controllo capillare per ragioni di sicurezza (o di polizia), estranee all’incisività delle competenze dell’Amministrazione locale ma prerogative (ammissibili) dello Stato.
La questione affrontata esprime di riflesso una situazione presente in diversi territori (se non fosse per la valenza nazionale, comunitaria e globale), ove – a livello locale – si pretenderebbe, mediante norme o obblighi informativi di varia natura, definire i flussi migratori, limitando di fatto l’accoglienza e invadendo una competenza esclusiva dello Stato (immigration policy), ex art. 117, comma 2, lettera b), «immigrazione»[5]: tali oneri informativi sarebbero funzionali alla disciplina che regola il flusso migratorio dei cittadini extracomunitari nel territorio nazionale, attribuzione che appartiene ai poteri dello Stato[6].
[1] L’organo consiliare elettivo è chiamato ad esprimere gli indirizzi politico – amministrativi di carattere generale, che si traducono in atti amministrativi fondamentali, tassativamente indicati nell’art. 42, mentre la giunta ha una competenza residuale, spettandole di emanare tutti gli atti che non sono riservati dalla legge al consiglio comunale e che non ricadono nelle competenze del sindaco, Cons. Stato, sez. V, 27 ottobre 2014, n. 5287.
[2] T.A.R. Piemonte, Torino, sez. II, 17 ottobre 2017, n. 1125.
[3] Cons. Stato, sez. V, 27 ottobre 2014, n. 5287; idem T.A.R. Abruzzo, Pescara, sez. I, 22 aprile 2016, n. 145.
[4] Cfr. T.A.R. Campania, Napoli, sez. V, 12 dicembre 2019, n. 5939.
[5] Cfr. D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero». I provvedimenti di espulsione sono rimessi all’organo di vertice del Ministero dell’Interno che investe la responsabilità del Capo del Governo, nonché l’organo di vertice dell’Amministrazione maggiormente interessata alla materia dei rapporti con i cittadini stranieri, e da ciò deriva la sua natura di atto di alta discrezionalità amministrativa, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I ter, 15 gennaio 2020, n. 468.
[6] Cfr. Corte Cost., 15 aprile 2010, n. 134.