Il T.A.R. Lombardia, sez. IV Milano, con la sentenza 7 ottobre 2019, n. 2106 conferma l’esigenza cogente, di matrice comunitaria, di procedere agli affidamenti in concessione di beni pubblici di rilevanza economica[1] solo a seguito di un procedimento ad evidenza pubblica, ammettendo un “diritto di prelazione” in capo al precedente gestore, in relazione all’interesse dell’affidatario uscente di continuare un’attività (didattica) di rilevanza pubblica (ex art. 33 Cost., rientrante nei c.d. diritti di libertà, con il connesso principio pluralistico della libertà di scuola)[2].
Il fatto, nella sua essenzialità, vede il ricorso del recedente affidatario (impresa sociale) avverso un bando per l’assegnazione in concessione d’uso di una unità immobiliare (c.d. valorizzazione immobiliare, ex art. 58 del D.L. n. 112/200), ubicata in un edificio comunale, per attività scolastiche nel quale non si ammetteva un diritto di rinnovo a favore del ricorrente (utilizzatore per il medesimo scopo nei precedenti dodici anni, sulla base di una concessione amministrativa) ma un diritto di prelazione.
Viene richiamato un precedente di rinnovo (per una volta) di una concessione di beni comunali, ma il caso trattato dal T.A.R.[3] era riferito ad un soggetto (ristoratore) che rivestiva oggettive peculiarità radicalmente differenti, giustificate dalla necessità di salvaguardare una nota insegna commerciale presente nel luogo di riferimento sin dalla fine del 1800, in quanto caratterizzante l’immagine dello stesso ed essendone divenuta una sorta di “segno” distintivo.
La vicenda vede un primo motivo di gravame: la concessionaria uscente dell’unità immobiliare lamenta l’illegittimità della scelta del Comune di non rinnovare la concessione, contestando, quindi, l’avvenuta indizione della pubblica gara per la scelta del concessionario.
Il giudice di prime cure dichiara non fondata la doglianza, non potendo esigere il concessionario uscente un diritto di insistenza in relazione all’occupazione dei locali ormai da lungo tempo:
- il principio comunitario, riferito alle concessioni di beni pubblici di rilevanza economica, implica che la scelta del concessionario deve avvenire attraverso procedure concorsuali, che garantiscano il confronto fra gli operatori e l’apertura al mercato[4];
- non sussiste in capo al titolare di una concessione alcun diritto al rinnovo della stessa alla scadenza, con conseguente necessità per il concedente di indizione di una pubblica gara dopo la scadenza stessa, ai fini della scelta del concessionario (che può, peraltro, essere anche quello uscente).
Si comprende immediatamente la regolarità del bando nella scelta del contraente ma si deve aggiungere che per bilanciare il divieto dell’affidamento diretto l’Amministrazione ha riconosciuto un diritto di prelazione al concessionario uscente, potendo questi all’esito dell’aggiudicazione provvisoria, presentare un’offerta economica superiore rispetto alla migliore offerta presentata in sede di gara: la c.d. denuntiatio al prelazionario, al fine dell’eventuale esercizio, da parte di costui, del diritto di prelazione, era prevista dal bando.
In effetti, ammette il Tribunale «attraverso tale clausola il Comune ha realizzato un equo contemperamento fra il più volte richiamato principio generale sulla necessità dell’evidenza pubblica e l’esigenza rappresentata dalla Scuola di continuare negli stessi locali l’attività didattica svolta da tempo».
Tuttavia, è da dire che la scelta comunale del riconoscimento della prelazione rappresenta, aggiunge il giudice, «comunque una – seppure parziale – deroga al regime della pubblica gara, che imporrebbe invece di premiare esclusivamente l’offerta migliore per la parte concedente, senza alcuna particolare preferenza per il gestore uscente».
Dunque, la sentenza n. 2106 del 7 ottobre 2019, della quarta sez. Milano del T.A.R. Lombardia, ammette nei procedimenti di concessione di beni pubblici (contratti attivi, pertanto, esclusi dal perimetro del D.Lgs. n. 50/2016) di poter riconoscere il diritto di prelazione al concessionario uscente, clausola ritenuta conforme ai «principi generali posti a favore della concorrenza, ma anche di esigenze di proporzionalità ed adeguatezza dell’azione amministrativa».
Accanto a questo pronunciamento, il T.A.R. riconferma che la gara per la concessione in uso di un bene pubblico, non trattandosi di concessione di lavori o di servizi esula dalle disposizioni del Codice dei contratti pubblici, mantenendo validi i principi generali di trasparenza e partecipazione, sicché risulta legittima l’ulteriore clausola «secondo cui l’aggiudicazione definitiva è subordinata alla verifica dell’insussistenza di pendenze economiche con il Comune, salvo il caso che le stesse siano già state definite in un piano di rateizzazione approvato ed opportunamente garantito».
In presenza di contratti attivi (vendita o locazione) l’esigenza indilazionabile di una procedura aperta, patrimonio di una visione non solo di natura contabile ma in un approccio comunitario di concorrenza, dispiega gli effetti nell’art. 4 del D.Lgs. 50/2016 ove si postula che «l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, dei contratti attivi, esclusi, in tutto o in parte, dall’ambito di applicazione oggettiva del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica».
L’inserimento in forma esplicita della locuzione “contratti attivi” tra quelli esclusi dall’ambito di applicazione del Codice nell’art. 4 del D.L.gs. n. 50/2016, avvenuto ad opera dal “decreto correttivo” al Codice dei contratti pubblici (ex D.Lgs. n. 56/2017), secondo le indicazioni fornite anche dal Consiglio di Stato[5], ritiene pacifica l’applicazione – anche per questo genere di contratti – dei principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità nell’individuazione del contraente, e non una puntuale riproduzione delle norme del cit. Codice.
Ne consegue che una clausola, come sopra descritta, non risulta illegittima per violazione dell’art. 83, comma 8, del D.Lgs. n. 50/2016 sulle c.d. tassatività delle clausole di esclusione dagli appalti pubblici, i cui bandi non possono, pertanto, a pena di nullità, contenere prescrizioni di esclusione ulteriori rispetto a quelle previste dalla legge.
La natura della concessione di cui è causa si desume con chiarezza dalla lettura del bando di gara, avente ad oggetto la concessione d’uso di una porzione immobiliare per attività scolastica e non invece l’affidamento dell’esecuzione di lavori, oppure la fornitura e la gestione di servizi: il Codice dei contratti pubblici si applica soltanto alle concessioni di lavori o di servizi (ai sensi dell’art. 3 lettere «uu» e «vv» del Codice medesimo), ma non alle concessioni di beni, come può desumersi del resto anche dall’art. 164 comma 1 del cit. Codice, in forza del quale le norme del codice stesso sui “contratti di concessione” non si applicano ai provvedimenti, comunque denominati, con i quali le Amministrazioni autorizzano l’esercizio di un’attività economica «anche mediante l’utilizzo di impianti o altri beni immobili pubblici»[6].
Si deve concludere che tale clausola non appare illegittima, posto che attraverso la medesima l’Amministrazione concedente intende tutelarsi nei confronti di soggetti inadempienti di obblighi assunti nei confronti della concedente medesima, evitando l’aggiudicazione a favore di operatori economici sostanzialmente non affidabili, giacché tuttora debitori dell’Amministrazione, coerente con i criteri di proporzionalità e ragionevolezza, oltre che di tutela del buon andamento dell’azione amministrativa.
Inoltre, la disposizione ha, altresì, un fondamento normativo nell’art. 68 del RD n. 827/1924 (c.d. regolamento di contabilità dello Stato, applicabile anche ai contratti attivi dell’Amministrazione, come quello di cui è causa), articolo che consente di escludere le offerte di coloro che nell’esecuzione di «altra impresa» si siano resi responsabili di «negligenza o malafede» verso la Pubblica Amministrazione.
[1] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2018, n. 3588, ove si richiama un consolidato orientamento giurisprudenziale, che trae origine dai principi di concorrenzialità di derivazione eurounitaria, il quale impone che le concessioni demaniali, in quanto concernenti «beni economicamente contendibili», siano affidate mediante procedura di gara, ritenendo anche contraria al diritto dell’Unione la proroga automatica delle suddette concessioni, Cons. Stato, A.P. 25 febbraio 2013, n. 5; sez. V, 23 novembre 2016, n. 4911 e 5 dicembre 2014, n. 6029; sez. VI, 31 gennaio 2017, n. 394; 4 aprile 2011, n. 2097; 30 ottobre 2010, n. 7239 e 17 febbraio 2009, n. 902, Corte Giust. UE, sez. V, 14 luglio 2016, in C-458/14.
[2] É da rilevare che, in base all’art. 33 Cost., lo Stato ha l’obbligo di provvedere alla pubblica istruzione, dettando le norme relative ed apprestando i mezzi necessari (apertura di scuole di ogni ordine e grado, ecc.) ma non ha l’esclusività dell’insegnamento; anzi, è lo stesso art. 33 a porre il principio del pluralismo scolastico, che è conforme, d’altronde, a quello fondamentale, di cui al primo comma, della libertà dell’arte e della scienza, Corte Cost., 29 dicembre 1972, n. 195.
[3] T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 24 giugno 2016, n. 1271, si trattava di un locale storico fondato nel 1867, la cui presenza è riconosciuta come punto di riferimento, sia per gli italiani che per i turisti stranieri; un locale che ha contribuito in modo rilevante a costruire l’identità culturale ed il prestigio del luogo.
[4] Si richiama il precedente del Cons. Stato, sez. V, sentenza n. 3588/2018 e della medesima sez. IV del T.A.R. Milano, 28 gennaio 2016, n. 187, idem sentenza n. 1233/2016, n. 1112/2018 e n. 275/2019.
[5] Parere n. 855 del 1 aprile 2016, recepito dalla Commissione Speciale del Consiglio n. 1241/2018 del 10 maggio 2018.
[6] Cfr. il “Considerando” n. 15 della Direttiva dell’Unione Europea n. 2014/23/UE, attuata in Italia con il citato D.Lgs. n. 50/2016, che esclude dal novero delle concessioni gli accordi che consentono all’operatore di gestire beni pubblici, senza che l’Amministrazione acquisisca lavori o servizi specifici.