Il regime dei beni pubblici
L’occupazione con un chiosco di un’area demaniale richiede un atto autorizzatorio, essendo il bene destinato ex lege all’uso collettivo (senza possibilità di sottrazione dalla destinazione), ed avendo caratteri propri, quale l’inalienabilità e non potendo formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano (ex art. 823 c.c.).
Non del tutto dissimile è il regime dei beni che fanno parte del patrimonio indisponibile che non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (ex art. 828, comma 2, c.c.)[1].
Si comprende che il mutamento del regime giuridico di un bene, da patrimonio indisponibile a patrimonio disponibile, presuppone che il bene abbia subito una immutazione irreversibile, tale da non essere più idoneo all’uso della collettività, senza che a tal fine sia sufficiente la semplice circostanza che detto uso sia stato sospeso per lunghissimo tempo[2], confermando i caratteri dei beni pubblici.
Una volta che hanno perso la particolare destinazione pubblica (con la sdemanializzazione)[3] possono essere utilizzati per scopi diversi, dove le parti del rapporto assumono posizioni paritetiche: manca l’esercizio di un potere sovrano da parte della PA, passando dal regime autorizzatorio della concessione (per l’utilizzo temporaneo del bene) al contratto (di locazione per l’utilizzo del cit. bene)[4].
Va aggiunto, per completare il quadro prospettico, che le opere realizzate su beni demaniali o in concessione, premesso che fanno parte, oltre ai beni demaniali veri e propri, anche le pertinenze, cioè quei beni che, pur essendo distinti dai beni demaniali, sono destinati in modo durevole al servizio degli stessi, qualora realizzati dal concessionario (vedi, ad es. l’impianto di illuminazione votiva nei cimiteri, bene demaniale per eccellenza), accedono al bene demaniale principale in forza del meccanismo di cui all’art. 934 c.c. (superficies solo cedit), di talché, alla scadenza della concessione, esse divengono automaticamente, e senza necessità di ulteriori atti traslativi, di piena proprietà dell’ente pubblico concedente, ovvero anche in assenza di condizioni previste nell’atto concessorio o nel contratto – concessione di affidamento del servizio (o bene in uso): prevale l’indisponibilità ex se della proprietà[5].
In ogni caso, l’Amministrazione esercita il suo potere discrezionale:
- sia per consentirne un uso temporaneo diverso, sottraendolo alla disponibilità collettiva, per meglio perseguire l’interesse pubblico;
- sia qualora sia venuto meno l’interesse pubblico con una diversa destinazione, in previsione anche della sua alienazione (vedi, i piani di valorizzazione patrimoniale, quando i beni hanno perso la loro funzione a servizio dell’Amministrazione, ex a 58, Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali, D.L. 25 giugno 2008, n.112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133)[6].
L’assegnazione di beni pubblici
Pare giusto rammentare che in tema di concessioni amministrative di beni pubblici a fini economici o di commercio, la discrezionalità dell’Amministrazione nell’organizzare il procedimento di gara per l’assegnazione del provvedimento ampliativo è certamente maggiore di quanto non si riscontri nelle ordinarie procedure di appalto per opere pubbliche o forniture o servizi.
Tuttavia, la discrezionalità trova pur sempre un limite di scopo nel dovere di assicurare un effettivo confronto concorrenziale, secondo i principi nazionali ed europei (vedi, per le concessioni delle spiagge)[7].
L’evidenza pubblica è lo strumento giuridico per l’assegnazione dei beni, e la pubblicità costituisce l’offerta al pubblico per la presentazione di proposte, avendo lo scopo di sollecitare il privato eventualmente silente.
Non pare superfluo annotare che l’occupazione di area pubblica, per l’installazione di arredi o altre strutture ad uso commerciale, non può avvenire sine titulo, ancorché per ragioni di fatto legate a condizioni di contesto variamente caratterizzate da asserite disparità di trattamento tra operatori economici (concorrenti), dovendo sempre essere intermediata da un provvedimento costitutivo dell’Amministrazione: né vale a costituire un legittimo titolo di occupazione il silenzio che eventualmente l’Amministrazione Locale abbia serbato su una istanza di concessione dell’occupazione medesima[8].
I beni pubblici vanno concessi attraverso una procedura aperta, comparativa, trasparente mediante un interpello del mercato (c.d. avviso pubblico), trattandosi sempre di una risorsa che appartiene alla Comunità e che la Pubblica Amministrazione è chiamata, appunto, ad amministrare nell’interesse pubblico, di tutti[9].
Altro aspetto non secondario, per l’esecuzione di opere su suolo di proprietà pubblica non è sufficiente il provvedimento di concessione per l’occupazione di detto suolo, ma occorre l’ulteriore ed autonomo titolo edilizio, che opera su un piano diverso – e risponde a diversi presupposti – rispetto sia all’atto che accorda l’utilizzo a fini privati di una determinata porzione di terreno di proprietà pubblica, sia ad altri atti autorizzativi eventualmente necessari (come ad es. l’autorizzazione commerciale per la vendita di determinati prodotti)[10].
Distinzione dei termini amministrativi
Ai fini di non confondere le definizioni degli atti amministrativi appare opportuno cogliere la distinzione di quei provvedimenti con i quali si concedono i beni:
LE AUTORIZZAZIONI: sono considerate come rimozioni di un limite posto dall’ordinamento, come ostacolo al libero esercizio di un diritto, ovvero di un potere preesistente in capo al soggetto richiedente del provvedimento (permessi, nulla osta, licenze, patenti, abilitazioni)[11].
Questo provvedimento non si può intendere solo come rimozione di un limite, ma anche eliminazione di un divieto sempre posto dall’ordinamento all’esercizio di un’attività generalmente vietata.
LE CONCESSIONI: sono uno strumento autoritativo particolarmente adatto per soddisfare l’esigenza di “governo” di determinati interessi pubblici (concessione di un bene, quelle cimiteriali ne sono un esempio, cittadinanza, status).
A differenza dell’autorizzazione, la concessione è il provvedimento con il quale si attribuisce un nuovo diritto, di cui il soggetto destinatario non era titolare prima dell’emanazione dell’atto.
La concessione di questo nuovo diritto si ricollega al potere pubblico di esclusiva spettanza dell’Amministrazione agente.
In tutte le concessioni c’è un momento traslativo e un momento costitutivo:
- verifica dell’interesse e determinazione del potere;
- la disciplina e/o le modalità concessione.
L’illegittimo esercizio del potere amministrativo
Ciò posto, la concessione di un bene pubblico demaniale, a fronte di una richiesta di installazione di un chiosco, deve essere valutata con riferimento alla destinazione complessiva del bene, in termini di temporaneo utilizzo sottratto alla destinazione pubblica non limitandosi a soffermarsi sulla destinazione demaniale o del patrimonio indisponibile, senza ponderare l’interesse privato e quello pubblico, in un suo equilibrato bilanciamento, specie ove non viene meno la portata collettiva (uso) del bene.
La sez. III Catania, del TAR Sicilia, con la sentenza 13 giugno 2022, n. 1594, censura la condotta di un’Amministrazione che ha negato l’autorizzazione all’utilizzo di parte (del suolo) di una piazza pubblica[12] per l’istallazione di un chiosco per le bevande (per iniziare un’attività lavorativa), soffermandosi esclusivamente sul fatto che l’area interessata è destinata a “sede stradale”, con conseguente divieto di ogni tipo di installazione, anche richiamandosi alla disciplina del Codice della strada.
Il diniego, seguiva ad una conferenza di servizi semplificata dove veniva recepito il parere negativo «in quanto come destinazione risulta sede stradata e pertanto è vietata ogni tipo di installazione»: l’assioma istruttorio si fondava sul fatto che, essendo la richiesta ricadente su una strada classificata nel patrimonio indisponibile ne consegue una indisponibilità dell’oggetto di concessione, ossia del bene, che ricomprendeva parte del marciapiede con ritenuto pregiudizio per i pedoni in transito.
Il Tribunale, in relazione alla documentazione e al progetto del ricorrente, evidenziava la possibilità di destinare parte del suolo pubblico in concessione all’interno della piazza, nella parte più vicina ai tratti viari che le corrono d’intorno, denotando, «quindi radicalmente escludersi che il contestato atto di diniego possa trovare adeguato fondamento nella circostanza che la porzione di suolo pubblico chiesta in concessione dall’attuale ricorrente presso Piazza … per realizzarvi un chiosco sia tale da pregiudicare la “destina(zione) ai pedoni” di una porzione del perimetro esterno della suddetta piazza».
In termini diversi, il GA, nel rilevare una molteplicità di vizi («calendati vizi di vizi di violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 20 del Codice della Strada, nonché di eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto di motivazione e di istruttoria») e nel condannare alle spese, annota che il bene, seppure demaniale o del patrimonio indisponibile, poteva essere concessionato, togliendone una parte all’uso collettivo, per rispondere all’iniziative di operatori economici privati, senza minarne l’essenza.
I beni del patrimonio indisponibile
In effetti, l’orientamento sopra annotato trova un suo recentissimo precedente della stessa sez. III Catania, del TAR Sicilia, che con la sentenza del 23 maggio 2022, n. 1405, affermava la possibilità giuridica di disporre di una parte del bene del patrimonio indisponibile (le condizioni sono similari) per un utilizzo diverso: l’autorizzazione per la installazione su suolo pubblico di un chioschetto per la vendita di bibite (accogliendo il ricorso del privato sul diniego e con condanna alle spese).
Il Collegio riteneva «del tutto inconferente l’affermazione dell’Amministrazione secondo cui la richiesta concessione non può essere rilasciata in quanto l’area sarebbe destinata ad uso pubblico e costituirebbe patrimonio indisponibile dell’ente», dovendo confutare l’assioma istruttorio che in presenza di tale destinazione impressa al suolo una diversa e temporanea destinazione, sottratta all’uso pubblico, non potesse ammettersi per una “nullità” intrinseca dell’oggetto della concessione: la classificazione del bene ne impediva la disponibilità.
Invero, il GA esprimeva una diversa posizione coerente con il quadro ordinamentale: «ciò per la semplice considerazione che proprio la natura pubblica del suolo, sia sotto il profilo della titolarità dello stesso che della sua intrinseca destinazione, costituisce il presupposto necessario per l’applicazione della disciplina che, attraverso il rilascio di un apposito titolo concessorio/autorizzatorio, ne consente l’occupazione e l’utilizzo da parte dei privati».
Il chiosco e il suo posizionamento
In effetti, senza citare alcun alato parere istruttorio, una lettura della disciplina di riferimento, quella regionale per il commercio su aree pubbliche per la somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, espone nella più esemplare vividezza, in claris non fit intepretatio, tale possibilità, già ex se idonea allo scopo, senza aggiungere l’ulteriore evenienza che l’eventuale sedime stradale, in cui insisterebbe il chiosco, occupasse parte del marciapiede, ai sensi del comma 1, n. 33), dell’art. 3, Definizioni stradali e di traffico, del d.lgs. n. 285/1992 (CdS), questo non ne impedirebbe l’uso, essendone esterno alla strada, come sancito dal legislatore: «la parte della strada, esterna alla carreggiata, rialzata o altrimenti delimitata e protetta, destinata ai pedoni».
Ne discende l’applicazione alla fattispecie del comma 3, dell’art. 20, Occupazione della sede stradale, del Codice della strada che dispone che «nei centri abitati può essere consentita l’occupazione di marciapiedi da parte di chioschi, edicole o altre installazioni, purché in adiacenza ai fabbricati e sempre che rimanga libera una zona per la circolazione dei pedoni larga non meno di 2 metri».
Neppure meritevoli di positiva considerazione sono state le difese dell’Amministrazione sull’assenza dell’istituzione di posteggio e la sua non previsione di istituirli per non limitare la concreta utilizzazione del marciapiede da parte dei pedoni, con l’intento di riservare le aree destinate a chioschi solo all’interno delle aree mercatali, mancando a monte e su tutto il territorio comunale l’individuazione di aree da destinare alla installazione dei chioschi, peraltro in sede istruttoria l’Amministrazione aveva ritenuto che «l’installazione non intralcia il passaggio pedonale»: un’evidente contraddittorietà e travisamento dei fatti.
Neppure, i limiti imposti dall’erigendo regolamento sull’eventuale concessione (di suolo pubblico per il chiosco) con bando è stato degno di accoglimento, secondo il noto fondamentale principio tempus regit actum.
Aggiungendo sull’apparato motivazionale della sentenza che «il diniego al rilascio di autorizzazioni motivato con la carenza di un atto pianificatorio (o regolatorio) è illegittimo, non potendo l’esercizio dell’attività economica essere subordinato alla condizione meramente potestativa che il Comune decida – incertus an, incertus quando – di pianificare il settore»[13].
Le sentenze, quasi gemelle, confermano la piena disponibilità del patrimonio indisponibile per l’utilizzo – con apposito atto amministrativo – del suolo pubblico, e allo stesso tempo, alimentano la convinzione che è sempre necessaria un’accurata istruttoria (altri chiamerebbero prudenza, altri ancora diligenza, visto la condanna alle spese) che, oltre a bilanciare l’interesse pubblico con quello privato, si allinei con la fonte di riferimento, specie quando non esige (come sovente accade) il ricorso all’interpretazione, a fronte di un’esegesi consolidata e di norme chiare.
(pubblicato, Concessione dell’occupazione del patrimonio indisponibile con un chiosco, dirittodeiservizipubblici.it, 28 giugno 2022)
[1] In materia di beni di appartenenza pubblica, il codice civile opera una classificazione incentrata sulla distinzione tra beni demaniali (artt. 822 ss., c.c.) e beni patrimoniali (art. 826. c.c.), sostanzialmente incentrata sul criterio di individuazione tipologica dei primi e sul criterio funzionale del momento destinatorio per i secondi (cfr. art. 828 c.c.). In negativo, la mancata inclusione all’interno dei beni demaniali e l’assenza di destinazione a pubblico servizio qualifica, per contro, beni patrimoniali in senso esclusivamente soggettivo, caratterizzati dalla mera titolarità pubblica, tali da concretare, sotto il profilo funzionale, beni pubblici di interesse oggettivamente privato: i quali, per la assenza di un profilo destinatorio idoneo ad attrarli al regime propriamente pubblicistico, è invalsa la tradizionale denominazione di beni patrimoniali disponibili, TAR Puglia, Lecce, sez. III, 28 settembre 2020, n. 1022.
[2] Cons. Stato, sez. II, 8 giugno 2021, n. 4379.
[3] Nel caso di beni la cui destinazione all’uso pubblico derivi da una determinazione legislativa, la declassificazione dei medesimi deve avvenire in virtù di atto di pari rango non potendo trarsi da una condotta concludente dell’ente proprietario che postuli la cessazione tacita della patrimonialità indisponibile, TAR Sicilia, Catania, sez. III, 3 giugno 2021, n. 1821.
[4] L’appartenenza di un bene al patrimonio indisponibile di un Ente territoriale discende, non solo, dall’esistenza di un atto amministrativo che lo destini ad uso pubblico, ma anche dalla concreta utilizzazione dello stesso, TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 31 maggio 2021, n. 1792.
[5] TAR Liguria, sez. II, 22 maggio 2020, n. 316.
[6] Le finalità istituzionali concernenti la gestione dei beni pubblici sono previste dal legislatore in varie disposizioni normative da cui si evince la necessità che la gestione dei beni pubblici e la relativa cessione, sia orientata al rispetto dei principi di economicità, adeguatezza, proporzionalità e gestione produttiva dei beni stessi, anche qualora siano individuate forme alternative o sussidiarie di valorizzazione a salvaguardia dell’interesse pubblico, Corte dei Conti, sez. contr. Piemonte, Deliberazione 31 gennaio 2020, n. 16.
[7] TAR Lazio, Roma, sez. II ter, 5 settembre 2016, n. 9543. Cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con le due sentenze gemelle n. 17 e n. 18 del 9 novembre 2021.
[8] TAR Lazio, Roma, sez. II ter, sentenza n. 10312/2016.
[9] Vedi, L’archetipo dell’evidenza pubblica per la concessione di una tartufaia ad uso gratuito, mauriziolucca.com, 13 febbraio 2019.
[10] Cons. Stato, sez. VI, sentenza n. 1106/2012.
[11] L’autorizzazione ambientale, ad esempio, si connota come una tipica autorizzazione costitutiva, in quanto è “concessa” per un tempo prestabilito e dunque non sussiste in capo al destinatario alcun precostituito diritto a ottenerla: può essere rilasciata solo dopo che la PA abbia valutato i vari interessi rilevanti, che vengono in evidenza nel corso dell’iter procedimentale, TAR Puglia, Bari, sez. II, 23 settembre 2021, n. 1387.
[12] Ai fini della classificazione e declassificazione delle strade, le definizioni di cui all’art. 2, co. 2 e 3, del Codice della strada non impediscono di ricomprendere le piazze nella nozione di strada a mente del comma 1 del medesimo articolo, secondo cui: «Ai fini dell’applicazione del presente codice si definisce “strada” l’area ad uso pubblico destinata alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali»; tanto emerge anche dall’art. 22, comma 3, della legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. F), disposizione non abrogata, ed espressamente mantenuta in vita dal d.lgs. n. 179 del 2009, il quale include tra le strade comunali, fra l’altro, anche le piazze, Cons. Stato, sez. V, 13 maggio 2014, n. 2447.
[13] TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 14 aprile 2015, n. 919, proprio relativa al diniego di autorizzazione al commercio su aree pubbliche, idem TAR Sicilia, Catania, sez. III, 22 dicembre 2011, n. 3170 e sez. II, 5 gennaio 2005, n. 10.