L’ultimo comma dell’articolo 97 della Costituzione della Repubblica italiana prevede che «Agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge», con l’intento di privilegiare un’azione amministrativa neutra, approvvigionandosi delle “risorse umane” mediante meccanismi trasparenti di regole, in assonanza con un altro principio costituzionale di “uguaglianza” di tutti cittadini davanti alla legge, canonizzato nell’art. 3 Cost., sotto i profili formali e sostanziali della norma.
A ben vedere, nella Costituzione, il richiamo ai “cittadini” non ha riguardato solo l’ammissione al “pubblico impiego” in quanto tale, ma l’esercizio degli “uffici pubblici”, le “cariche elettive” e le “funzioni pubbliche” (ex artt. 51 e 54 Cost.), volendo affermare che l’accesso alla funzione pubblica va intesa nel senso che deve esservi «l’uguaglianza dei cittadini senza discriminazioni e limiti».
La lettura dell’art. 97, quarto comma, Cost. induce a ritenere, secondo gli insegnamenti della Corte Cost., che in linea di principio la provvista di personale pubblico esige lo svolgimento di una procedura pubblica “di tipo comparativo”, volta cioè a selezionare la persona oggettivamente più idonea a ricoprire una data posizione ovvero il migliore fra gli aspiranti che si presentano, e “congrua”, nel senso che essa deve consentire la verifica del possesso delle richieste professionalità.
A sostegno di tale orientamento, i principi affermati esigono che si è in presenza di un pubblico concorso quando la Commissione, designata all’individuazione dei soggetti da assumere, effettua il confronto dei titoli di ciascun candidato e pone in essere una procedura selettiva tra più aspiranti, valutando le prove (anche i colloqui) di ognuno e stabilendo, in base a parametri e criteri predefiniti, il soggetto che risulterà vincitore in base al superamento delle citate prove selettive.
La natura e la ratio dell’articolo 97 Cost. risiede nella fondamenta dell’ordinamento democratico – che affida all’azione dell’amministrazione, separata nettamente da quella di governo (politica per definizione), il perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento: il concorso pubblico, quale meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci, si presenta come il metodo migliore per individuare il personale chiamato ad esercitare le proprie funzioni in condizioni d’imparzialità ed al servizio esclusivo della Nazione.
Valore, quest’ultimo, in relazione al quale il principio posto dall’art. 97 Cost. impone che l’esame del merito sia indipendente da ogni considerazione connessa alle condizioni personali dei vari concorrenti, rilevando, pertanto, che deroghe alla regola del concorso, da parte del legislatore, sono ammissibili soltanto nei limiti segnati dall’esigenza di garantire il buon andamento dell’amministrazione o di attuare altri princìpi di rilievo costituzionale, che possano assumere importanza per la peculiarità delle situazioni, come avremo modo di illustrare per le progressioni verticali interne (previste da apposita norma di legge).
Va subito chiarito, allora, che i concorsi interni (le c.d. progressioni verticali) costituiscono una eccezione alla regola generale che deve trovare copertura da una fonte normativa primaria, derogando al principio di rango costituzionale secondo cui l’accesso a posti di pubblico impiego deve avvenire generalmente mediante concorso pubblico.
La previsione, pertanto, di concorsi interni ha natura di norma eccezionale, che non può essere oggetto applicazione analogica ed estensiva, i requisiti di partecipazione alla procedura riservata devono essere oggetto di interpretazione rigorosa e restrittiva, trovando solo nella legge il proprio ambito di applicazione.
Questo non esclude che il termine “assunzioni” sia correlato non solo alle procedure concorsuali strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l’accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore, accesso il quale realizza una novazione oggettiva del rapporto, nei limiti individuati dal legislatore sulla quota assunzionale prevista.
In termini più espliciti, la prefata norma dell’art. 97 Cost., richiede che l’accesso avvenga in condizioni di parità e mediante un concorso pubblico aperto all’esterno a tutti i potenziali concorrenti, senza discriminazioni, privilegi o rendite di posizioni al fine di conseguire l’imparzialità sostanziale.
Nell’ambito di siffatto regime non si è ritenuto sottratto, ad avviso della Corte Costituzionale, nemmeno il passaggio ad una fascia funzionale superiore, nel quadro di un sistema che ordinariamente non prevede carriere, o le prevede entro ristretti limiti, nell’àmbito dell’amministrazione: in tale passaggio è stata, infatti, ravvisata una forma di reclutamento che esige anch’essa un selettivo accertamento delle attitudini, negando ogni genere di automatismo.
In particolare, viene osservato come l’abnorme diffusione del concorso interno per titoli nel passaggio da un livello all’altro produce una distorsione che, oltre a reintrodurre surrettiziamente il modello delle carriere in una nuova disciplina che ne presuppone invece il superamento, si riflette negativamente anche sul buon andamento della pubblica amministrazione.
L’accesso al concorso può, ovviamente, essere condizionato al possesso di requisiti fissati in base alla legge, e in tal modo non è da escludere a priori che possa stabilirsi anche il possesso di una precedente esperienza nell’àmbito dell’amministrazione, ove questo si configuri ragionevolmente quale requisito professionale; ma quando ciò non si verifichi, la sostituzione al concorso di meccanismi selettivi esclusivamente interni ad un dato apparato amministrativo non si giustifica alla luce degli accennati princìpi costituzionali.
La regola costituzionale della necessità del pubblico concorso per l’accesso alle pubbliche amministrazioni (P.A.) va rispettata anche da parte di disposizioni che regolano il passaggio da soggetti privati ad enti pubblici, atteso che il principio dettato dall’art. 97 Cost. può consentire la previsione di condizioni di accesso intese a consolidare pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa amministrazione, a condizione, tuttavia, che l’area delle eccezioni alla regola del concorso sia rigorosamente delimitata e non si risolva in una indiscriminata e non previamente verificata immissione in ruolo di personale esterno attinto da bacini predeterminati.
È stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di una norma regionale che introduceva la possibilità di conferire, in via diretta, incarichi dirigenziali a dirigenti provenienti dall’esterno (società pubbliche), sia pur in subordine rispetto ai dirigenti regionali privi di incarico, nei casi in cui non vengano presentate istanze
Il principio della necessità del pubblico concorso è stato ancora ribadito con specifico riferimento a disposizioni legislative che prevedevano il passaggio automatico di personale di società in house, ovvero società o associazioni private, all’amministrazione pubblica: il trasferimento da una società partecipata dalla Regione alla Regione o ad altro soggetto pubblico regionale si risolve in un privilegio indebito per i soggetti beneficiari di un siffatto meccanismo, in violazione dell’art. 97 Cost..
A completamento occorre osservare che i concorsi con riserva del 50% dei posti al personale interno trovano una loro collocazione nell’art. 52, comma 1 bis del D.Lgs. n. 165/2001 (c.d. TUPI), secondo il quale «Le progressioni fra le aree avvengono tramite concorso pubblico, ferma restando la possibilità per l’amministrazione di destinare al personale interno, in possesso dei titoli di studio richiesti per l’accesso dall’esterno, una riserva di posti comunque non superiore al 50 per cento di quelli messi a concorso».
Non è un caso, infatti, che l’art. 24 «Progressioni di carriera», comma 2 del D.Lgs. n. 150/2009 (c.d. decreto Brunetta), dopo aver stabilito al primo comma (modificato dal D.Lgs. n. 74/2017) che a decorrere dal 1° gennaio 2010, le P.A. «coprono i posti disponibili nella dotazione organica attraverso concorsi pubblici, con riserva non superiore al cinquanta per cento a favore del personale interno, nel rispetto delle disposizioni vigenti in materia di assunzioni», precisa – in un’ottica di natura valoriale ed esperienziale – che «l’attribuzione dei posti riservati al personale interno è finalizzata a riconoscere e valorizzare le competenze professionali sviluppate dai dipendenti, in relazione alle specifiche esigenze delle amministrazioni».
Invero, l’art. 24 del D.Lgs. n. 150/2009 allinea la normativa in materia di progressioni di carriera ai principi desumibili dall’ordinamento e acquisiti in una copiosa giurisprudenza della Corte Costituzionale che ha ricondotto anche l’accesso dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni a funzioni più elevate – al pari dell’assunzione – alla regola del concorso pubblico, riconosciuta, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, come forma generale e ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, escludendo la ragionevolezza di norme che permettano selezioni interne per la copertura dei posti vacanti.
Le considerazioni che precedono involgono una fattispecie generale che può ammettere eccezioni solo se giustificate da fonti normative equiparate alla legge, ed è proprio l’art. 22 «Disposizioni di coordinamento e transitorie», al comma 15 del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75 (c.d. decreto Madia) che vengono ad innestarsi, per un periodo limitato (il triennio 2018 – 2020), le progressioni verticali riservate interamente al personale di ruolo delle pubbliche amministrazioni.
Similarmente, per finalità diverse volte esclusivamente al superamento del precariato, l’art. 20, commi 1 e 2 del cit. D.Lgs. n. 75/2017, introduce un sistema in deroga all’ordinario regime delle assunzioni per concorso, prevedendo per il personale a tempo determinato (compreso il lavoro flessibile) una tipologia di assunzione per titoli o mediante riserva.
La norma del comma 15 dell’art. 22 del decreto Madia, in funzione di tutte le osservazioni svolte riferite ai limiti indicati dalla giurisprudenza costituzionale sui concorsi riservati (rectius progressioni verticali interne), viene costruita come una possibilità, assegnata alla singola amministrazione, di consentire ad un numero limitato di personale in servizio (non superiore al 20 %) di accedere al livello superiore, mediante una procedura selettiva tesa a verificare le capacità acquisite, mediante prove e titoli di merito.
Volendo trarre delle considerazioni minime si può riferire che i concorsi interni (comprese le stabilizzazioni) sono da considerare come eccezione al principio dell’ammissione in servizio per il tramite del pubblico concorso.
La facoltà del legislatore di introdurre deroghe al predetto principio deve essere delimitata in senso rigoroso, potendo tali deroghe considerarsi legittime soltanto allorquando siano funzionali al buon andamento dell’amministrazione e ricorrano altresì “peculiari e straordinarie” esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle.
La post verità che assume la veste salvifica di valorizzare l’esperienza e di stabilizzare il precariato, non brilla in trasparenza, se il principio generale e criteri di uguaglianza impongono una procedura concorsuale per accedere a determinati profili professionali, richiedendo titoli speciali e prove selettive aperte, senza riserva.
Appare lesivo dell’integrità e dei canoni di legalità non seguire le regole anteposte: le deroghe sistematiche e periodiche, seppure ampiamente giustificate e giustificabili, portano in sé il seme della discordia (altri, direbbero della disparità di trattamento) e privilegiano una sola parte, creando una cultura del provvisorio in attesa della fonte (normativa, più corretto battesimale) che sana l’imperfezione e il rigore dei criteri ordinari di reclutamento del personale pubblico in chiave di reale ed effettiva imparzialità.
(estratto, Concorsi interni e progressioni verticali, Comuni d’Italia, 2018, n. 4)