- Il danno d’immagine e la condotta dell’amministratore pubblico. 2. Il reato. 3. L’urbanistica. 4. La condotta corruttiva. 5. La quantificazione del danno d’immagine. 6. La difesa. 7. Il principio ne bis in idem. 8. Il danno d’immagine. 9. Sulla retroattività del criterio di quantificazione del danno. 10. Piena cognizione del giudice contabile.
- Il danno d’immagine e la condotta dell’amministratore pubblico
La sez. giur. Lombardia della Corte dei Conti, con la sentenza n. 254 del 9 novembre 2022, interviene per condannare un amministratore locale al danno d’immagine (con conversione in pignoramento del sequestro conservativo su richiesta della Procura contabile ante causam), e relativo risarcimento, a favore del Comune in relazione ad una condotta corruttiva, consistente in un accordo con il privato in ambito urbanistico (l’illecita condotta nel c.d. mettersi “a disposizione”)[1], a seguito di condanna definitiva alla pena detentiva di anni tre di reclusione per il reato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, di cui all’art. 319 c.p. commesso in qualità di assessore comunale all’urbanistica.
Va subito appuntato, come meglio si preciserà, che il danno d’immagine si identifica nelle conseguenze negative, sulla base dell’id quod plerumque accidit, della condotta illecita posta in essere con abuso della propria posizione di pubblico funzionario, in dispregio dei doveri di correttezza, lealtà, fedeltà connessi al proprio status, in termini di alterazione del prestigio e della personalità della Pubblica Amministrazione, con conseguente lesione anche del buon andamento della PA (bene presidiato).
Occorre ricordare che la condanna penale, risulta ampiamente lesiva del fondamentale dovere di esercitare le pubbliche funzioni «con disciplina ed onore» (ex art. 54 Cost.)[2] e, per ciò stesso, compromettente l’immagine e il prestigio dell’Ente di appartenenza (ex art. 97 Cost.), ove si consideri che l’assessore all’urbanistica, in un Ente locale, svolge un ruolo primario al fine di ponderare l’interesse pubblico (ampiamente discrezionale e di merito) sull’assetto del territorio[3], espressione elettiva della cura di un territorio e del suo armonico (armonioso) sviluppo, includendo l’assetto di più interessi economici/finanziari.
Il danno all’immagine di una condotta lesiva del bene protetto (l’imparzialità e la trasparenza) prescinde (indipendentemente) dalla diffusione a livello meramente locale della vicenda (c.d. clamor fori) per le ricadute sul piano esterno ed interno che tale condotta genera sulla comunità amministrata, specie ove si consideri da una parte, la gravità e le modalità di commissione degli illeciti, dall’altra, il ripetersi di vicende passate, che hanno congiuntamente (e reiteratamente) comportato la rottura di quelle aspettative di legalità, imparzialità e correttezza, posti alla base del comune sentire (la c.d. opinione pubblica).
- Il reato
L’art. 319, Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, cod. pen., si presenta quando «il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa», applicabile solo se il funzionario (rectius amministratore) viola le regole che disciplinano il potere che gli è attribuito in funzione di una non corretta ponderazione degli interessi in campo, facendo cioè prevalere l’interesse privato di cui è portatore l’extraneus (privato) che gli ha corrisposto il denaro e svalutando l’interesse pubblico generale (la vendita della parzialità).
Sulla determinazione dell’atto di ufficio deve essere colta la differenza tra i due tipi di corruzione previsti dal Codice penale:
- se il privato corrisponde denaro o altra utilità per assicurarsi l’asservimento della funzione pubblica agli interessi privati, senza che la condotta del pubblico agente sia riferita nell’accordo a specifici atti, troverà applicazione l’art. 318 cod. pen. (c.d. corruzione impropria);
- qualora, invece, il patto tra privato e agente pubblico prevede l’asservimento della funzione attraverso l’individuazione, anche solo nel genere, di atti contrari, vi sarà spazio per l’art. 319 cod. pen. (c.d. corruzione propria).
- L’urbanistica
Giova rammentare che il “Governo del territorio”, che include l’urbanistica e l’edilizia, è proiettato al perseguimento primario dell’interesse pubblico, secondo i canoni costituzionali della trasparenza e dell’imparzialità (ex art. 97 Cost.), compendiati dall’art. 1 della legge n. 241/1990, assegnando al funzionario pubblico (nella sua lata accezione di colui che esercita una funzione pubblica, amministratore o dipendente) una varietà di compiti e competenze, da assolvere in situazioni di terzietà e in assenza di conflitti di interesse a presidio del principio di legalità.
In termini più divulgativi, chi esercita la funzione pubblica dovrebbe realizzare compiutamente il principio di “buon andamento” che comporta l’obbligo della pubblica amministrazione (rectius dei suoi rappresentanti) di perseguire la migliore realizzazione dell’interesse pubblico, in modo che vi siano congruenza e congruità tra l’azione amministrativa e il fine che essa deve perseguire[4].
La legge n. 190/2012 e dei suoi decreti attuativi (ex d.lgs. n. 33 e 39 del 2013) hanno come obiettivo complessivo quello di contrastare la cattiva gestione amministrativa (prima ancora di quella penale), che alterando le regole del procedimento amministrativo possono dare ingresso a fenomeni degenerativi e a condotte arbitrarie, anche penalmente rilevanti, offuscando il perseguimento trasparente dell’interesse primario: «la prevenzione della corruzione non è una moda. È una dimensione dell’essere cittadino: combattere la corruzione vuol dire attuare la Costituzione italiana, dare sostanza alla nostra democrazia, realizzare i vincoli internazionale a cui siamo legati. Insomma vivere appieno la nostra cittadinanza»[5].
Il PNA 2016[6] nell’approfondimento “Governo del territorio” ammette che tale ambito di massima discrezionalità e merito amministrativo «rappresenta da sempre, e viene percepito dai cittadini, come un’area ad elevato rischio di corruzione, per le forti pressioni di interessi particolaristici, che possono condizionare o addirittura precludere il perseguimento degli interessi generali… Il rischio corruttivo è trasversale e comune a tutti i processi dell’area governo del territorio, a prescindere dal contenuto (generale o speciale) e dagli effetti (autoritativi o consensuali) degli atti adottati (piani, programmi, concessioni, accordi, convenzioni)».
Le cause di queste illecite “interessenze” (nel cit. PNA 2016) sono molteplici: vanno dalla stratificazione, frammentazione e complessità normativa, all’elevato livello di discrezionalità, dalla varietà e molteplicità di interessi pubblici e privati da valutare e ponderare alla commistione tra soggetti e organi di indirizzo politico – amministrativo e organi gestionali e di controllo, nella difficile separazione e/o distinzione tra politica e amministrazione (solo per citarne alcune).
Appare evidente che la materia risulta delicata e la creazione di un canale preferenziale si riflette inesorabilmente sulla potenzialità di responsabilità molteplici che, oltre a violare le norme penali, sono fonte di responsabilità erariale[7].
- La condotta corruttiva
In sede penale, l’amministratore infedele, sfruttando il suo incarico politico e la posizione ricoperta nell’Ente locale, si era adoperato, d’accordo con alcuni privati corruttori, per far approvare dalla Giunta comunale il Piano di Governo del Territorio contenente una serie di previsioni illegittime (indicatori/indici di anomalia del rischio dell’area “Governo del Territorio”):
- artificioso aumento della superficie edificabile;
- acquisto di alcune aree demaniali interessate dall’intervento ad un prezzo molto inferiore al reale valore delle stesse;
- indebita riduzione dell’importo del contributo di costruzione dovuto;
- modifica della destinazione urbanistica di terreni di proprietà dei corruttori: da agricola a produttiva/commerciale.
Il patto illecito tra l’amministratore, con il suo intervento, e i privati consisteva in contropartita (c.d. dazione) nel supporto politico e finanziario, nonché in una serie di incarichi di consulenza remunerati «…per complessivi 460.000 euro, di cui 92.000 euro immediatamente incassati) e per la figlia (acquisto di un immobile a prezzo di favore)».
Il giudice penale, oltre alle pene detentive, disponeva a carico dell’amministratore (pagate integralmente per quota) in solido con i suoi complici, la liquidazione in favore del Comune di una provvisionale, per il danno morale arrecato all’immagine dell’ente, e delle spese di costituzione e difesa.
Pare giusto rammentare che, ove il danno all’immagine sia da collegare, come nel caso di specie, ad una condotta costituente reato, il dies a quo deve essere individuato, in applicazione del principio di presunzione d’innocenza che costituisce principio di civiltà giuridica fondamentale nel nostro ordinamento e per espressa previsione di legge, nella data della sentenza irrevocabile di condanna e non nel momento del rinvio a giudizio o prima ancora nella data in cui si sono verificati i fatti[8].
- La quantificazione del danno d’immagine
A seguito della sentenza definitiva, la Procura erariale contesta all’assessore comunale corrotto la responsabilità dolosa per i descritti fatti i quali, oltre a rilevare sotto il profilo penale, integrano anche un illecito amministrativo che ha cagionato al Comune un rilevante danno all’immagine.
L’ammontare di tale pregiudizio erariale, determinato facendo ricorso al criterio di cui all’art. 1, comma 1 sexies della legge n. 20/1994 (aggiunto dall’art. 1, comma 62, della legge n. 190/2012), è «quantificato dal PM in 170.376,08 euro, pari al doppio della somma di denaro illecitamente percepita dall’odierno convenuto in conseguenza dell’accordo corruttivo»:
- ovvero, 92.000 euro incassati a titolo di acconto sul corrispettivo pattuito per le consulenze;
- detratto l’importo di 13.623,92 euro già versato al Comune in esecuzione della sentenza penale di condanna.
All’importo sopra definito vanno aggiunti rivalutazione ed interessi legali, oltre alle spese di giudizio.
- La difesa
La difesa espone:
- il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti per improponibilità oggettiva del giudizio in base al principio del ne bis in idem;
- in subordine, l’inammissibilità dell’azione per violazione dell’art. 67, comma 7, del Codice di giustizia contabile, che espressamente vieta al PM lo svolgimento di attività istruttoria successiva all’invito a dedurre (fatto non avvenuto);
- in ulteriore subordine, la violazione nella determinazione dell’ammontare del danno all’immagine in base al «doppio della somma di denaro o del valore patrimoniale di altra utilità illecitamente percepita», ritenuto non applicabile ai fatti avvenuti prima della novella legislativa del 2012, violando così il principio di irretroattività;
- l’esercizio del potere riduttivo.
- Il principio ne bis in idem
In via preliminarmente non viene accolta l’eccezione del contrasto col principio del ne bis in idem dell’azione proposta dalla Procura contabile innanzi alla Corte dei Conti, in quanto la domanda attorea perseguirebbe un fatto che già è stato oggetto di giudizio definitivo da parte del giudice penale.
Vengono citati una serie di precedenti:
- il danno all’immagine fatto valere innanzi alla Corte dei Conti dopo una sentenza penale di assoluzione per intervenuta prescrizione del reato di corruzione ha escluso la violazione del ne bis in idem in quanto la “sanzione” comminata dal giudice contabile per responsabilità erariale non ha natura “penale” bensì risarcitoria[9];
- per definire la natura sostanzialmente penale di una sanzione occorre avere riguardo, alternativamente, alla natura dell’infrazione secondo il diritto interno, oppure alla natura della sanzione desunta dallo scopo (punitivo, deterrente, riparatorio, di prevenzione, ecc.) o, ancora, alla gravità, in astratto, della sanzione, atteso che il giudizio di responsabilità davanti alla Corte dei conti è indubitabilmente finalizzato alla reintegrazione del danno subìto dall’Amministrazione, ne consegue che per esso non si pone la problematica del ne bis in idem rispetto al giudizio penale[10];
- la reciproca autonomia tra la sfera della giurisdizione contabile e quella penale (e, in generale, di ogni altro plesso giurisdizionale), sul presupposto che, per quanto i procedimenti possano essere accomunati da situazioni fattuali anche totalmente coincidenti, sono comunque diversi i beni della vita che si possono far valere e di cui se ne chiede tutela nell’una piuttosto che nell’altra giurisdizione[11].
Si conferma la piena concomitanza di più procedimenti innanzi a giudici diversi, stante l’autonomia, la differenza ontologica e quella effettuale che caratterizzano le diverse azioni: la giurisdizione della Corte dei Conti non è preclusa né dal contemporaneo svolgimento di paralleli procedimenti, né dal fatto che sui medesimi fatti sia già intervenuta altra pronuncia, rilevando che la provvisionale risarcitoria disposta dal giudice penale viene detratta nella quantificazione del danno erariale[12].
- Il danno d’immagine
Il Collegio non può non rilevare gli effetti dell’art. 651 c.p.p., ai sensi del quale anche nel processo amministrativo contabile il giudicato penale di condanna fa stato quanto alla sussistenza del fatto, alla sua illiceità penale e alla effettiva commissione dello stesso da parte dell’imputato.
L’apparato probatorio dimostra nella sua fattualità di prova la condotta illecita dell’assessore all’urbanistica consistita nell’avere intenzionalmente favorito una serie di scelte amministrative, ottenendo in cambio del suo fattivo interessamento diverse utilità economiche: viene accertata a condotta contra ius e i suoi riflessi effettivi nella causazione di un pregiudizio all’immagine dell’Amministrazione comunale.
Il danno d’immagine viene così descritto:
- l’apporto probatorio dimostra «fatti gravi ed altamente disdicevoli commessi… nell’esercizio delle sue funzioni, volte all’ottenimento di utilità personali anziché al perseguimento dell’interesse pubblico», palesandosi del tutto lesivi del prestigio dell’Ente locale;
- la condotta ha arrecato «un rilevante vulnus alla fiducia che i cittadini dovrebbero riporre in ordine al corretto esercizio dell’attività amministrativa»;
- la diffusione della condotta infedele (corruzione e tangenti percepite) ha avuto una vasta eco nei mass media, rinvenibile dalle numerose pubblicazioni giornalistiche, riflettendosi presso l’opinione pubblica;
- a rafforzare il rilevante strepitus fori legato alla notizia non oscurabile (la negazione del diritto all’oblio) che il politico, noto a livello regionale, «non è nuovo al coinvolgimento in siffatte situazioni illecite».
L’insieme di tutti questi elementi porta a ritenere l’indubbio pregiudizio subito dal Comune, quantificato correttamente dalla Procura, rifacendosi al criterio del doppio delle somme indebitamente percepite e alla gravità della condotta e al danno all’immagine arrecato.
- Sulla retroattività del criterio di quantificazione del danno
Viene osservato che il criterio introdotto dalla legge n. 190/2012 è di natura presuntiva (presunzione semplice), e questa sarebbe vinta dalla determinazione del danno fissata dal giudice penale, rilevando che il giudice determina comunque l’ammontare del danno all’immagine in base ad una valutazione equitativa e che il criterio del c.d. “doppio tangentizio” era già utilizzato dalla giurisprudenza della Corte dei Conti.
Inoltre, aggiunge, che la determinazione de giudice penale a favore del Comune costituitosi parte civile era una “mera” provvisionale, che di per sé non ha carattere definitivo in quanto è determinata «nei limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova» (ex art. 539, comma 2, c.p.p.).
- Piena cognizione del giudice contabile
Questo ultimo aspetto, dimostra ancor più in generale che nei rapporti tra l’Autorità giudiziaria ordinaria e contabile, in ordine ai medesimi fatti storici, non sussiste interferenza tra giurisdizioni, ma solo eventuale improponibilità della domanda con riferimento al danno già completamente ristorato[13].
Di guisa che il rivendicato giudicato penale sull’an e il quantum in alcun modo vincola le omologhe statuizioni del giudice contabile, in quanto pronunciate sulla scorta di una disciplina e una competenza giurisdizionale prevista ad hoc per tale plesso magistratuale, ai sensi del precetto, di cui all’art. 538, Condanna per la responsabilità civile, secondo comma, c.p.p. che gli imporrebbe una condanna solo generica per siffatta tipologia di danno essendo la “competenza” devoluta per legge ad altro giudice (quello erariale)[14].
(pubblicato, dirittodeiservizipubblici.it, 14 dicembre 2022)
[1] Cass. pen, sez. VI, sentenza n. 7020/2021. Ed in effetti, la “collusione” va intesa come ogni accordo clandestino diretto ad influire sul normale svolgimento dell’azione amministrativa, ontologicamente distinta dal “mezzo fraudolento” che consiste in qualsiasi artificio, inganno o menzogna concretamente idoneo a conseguire l’evento del reato, che si configura non soltanto in un danno immediato ed effettivo, ma anche in un danno mediato e potenziale, dato che la fattispecie si qualifica come reato di pericolo, Cass. pen, sez. VI, 16 gennaio 2012, n. 12298, riferita ad una condotta di alcuni soggetti che, partecipando ad una gara pubblica, avevano presentato offerte imputabili ad unico centro di interessi, in questo modo dissimulando offerte collegate e solo apparentemente concorrenti.
[2] La fonte costituzionale, assieme ad altre, rappresenta il parametro – etico e valoriale – nell’assolvere un compito elettivo, di rappresentanza della collettività, che di per sé costituirebbe l’unico perimetro di riferimento (una sorta di Grundnorm) senza ricorrere ad altro, riducendo tutta una serie infinita di norme e postille, «perché il corrotto, prima ancora che essere punito o intimidito, va disarmato… Occorre togliere tutti quei pulsanti che consentono di aprire o chiudere a piacimento le porte cui bussa il cittadino», NORDIO, Giustizia ultimo atto. Da tangentopoli al crollo della magistratura, Milano, 2022, pag. 153 e 154.
[3] In effetti, la norma del terzo comma, dell’art. 78, Doveri e condizione giuridica, del d.lgs. 267/2000, stabilisce che «I componenti la giunta comunale competenti in materia di urbanistica, di edilizia e di lavori pubblici devono astenersi dall’esercitare attività professionale in materia di edilizia privata e pubblica nel territorio da essi amministrato», risponde alle indicazioni del legislatore di riconoscere la presenza di un conflitto di interessi verso coloro che esercitano una determinata funzione pubblica e una professione privata, con «l’evidente intento (etico) di impedire che l’azione politica possa essere compromessa da un interesse secondario, quello personale, in tensione con quello primario di perseguimento del bene collettivo, il quale postula un animus dell’amministratore al servizio dell’intera comunità, in piena assonanza con il secondo comma dell’art. 54 Cost.», LUCCA – NARDI, Attività professionale dell’assessore e limiti in materia urbanistica, edilizia e lavori pubblici, LexItalia.it, n. 8, 28 agosto 2022.
[4] Cons. Stato, sez. VI, 18 settembre 2018, n. 5454.
[5] Presidente di ANAC, Busia al convegno per i dieci anni della Legge 190 del 2012: “La prevenzione della corruzione non è una moda”, anticorruzione.it, 18 novembre 2022, nell’intervento al convegno presso il Consiglio di Stato il Presidente ANAC, osserva che «senza l’anticorruzione perderemmo diritti civici indispensabili… La grande novità della Legge 190 è stata la prevenzione, lavorando per diffondere ‘Buona amministrazione pubblica’, la passione del far bene, l’utilità del fare bene. Anac potrebbe essere anche chiamata l’Autorità della Buona Amministrazione, perché noi lavoriamo per creare best practices, e quindi allontanare maladministration. È provato che la buona amministrazione e la cultura della legalità all’interno della Pubblica amministrazione sono un antidoto potente alla corruzione».
[6] ANAC, Delibera n. 831 del 3 agosto 2016, pagg. 65 ss.
[7] Cfr. Corte conti, sez. giur. Lombardia, 27 luglio 2015, n. 135.
[8] Corte conti, sez. I App., 14 novembre 2022, n. 527, dove è stato chiarito che la giurisprudenza contabile è univoca nel ritenere che il danno all’immagine, derivante da un fatto di reato “in danno” della PA, risente in modo rilevante dell’andamento e dell’esito del processo penale, in quanto le decisioni del giudice penale finiscono per incidere anche sulla percezione collettiva del disvalore del fatto e sul disdoro per l’ente.
[9] Corte EDU, sentenza “Rigolio contro Italia” del 13 maggio 2014.
[10] Corte EDU, sentenza “Engel e altri contro Paesi Bassi” dell’8 giugno 1976.
[11] Cfr. Corte conti, sez. I App., sentenza n. 80/2015 e n. 22/2021; sez. II App., sentenza n. 670/2018; sez. III App., sentenza n. 547/2017, a sua volta fondata sul costante orientamento espresso Cass. civ, SS.UU., sentenze n. 8927/2014 e n. 14632/2015.
[12] Si richiama, altresì, l’evoluzione del principio: la CEDU, se fino al 2014 (sentenza “Grande Stevens e altri contro Italia” del 4 marzo 2014) aveva escluso la promovibilità e/o proseguibilità, nei confronti del medesimo soggetto, di un secondo “giudizio penale” per gli stessi fatti già oggetto di un altro precedente conclusosi con sentenza definitiva, a partire dal 2016 (sentenza “A. e B. contro Norvegia” del 15 novembre 2016) ha operato un deciso mutamento di indirizzo (confermato dalle tre sentenze – casi “Menci”, “Garlasson Real Estyate e altri”, “Di Puma e Zecca” – del 20 marzo 2018), ritenendo che il suddetto principio non è violato quando tra i due procedimenti vi è connessione sostanziale e temporale stretta al punto da far ritenere unica la “pena” inflitta e da consentire all’autore dei fatti di prevedere il doppio procedimento, le misure applicate perseguono scopi complementari e la sanzione complessivamente inflitta è proporzionata alla gravità dell’illecito commesso; spetta al giudice nazionale adito per secondo valutare la ricorrenza di tali condizioni.
[13] Cass. civ., SS.UU., sentenza n. 7457/2020.
[14] Corte Cost., sentenza n. 272/2007. Vedi, Cass. civ., SS.UU., ordinanza 4 ottobre 2019, n. 24859, dove si riferisce che non è prevista una riserva di giurisdizione esclusiva in favore del giudice contabile, in quanto l’art. 17, comma 30 ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge 3 agosto 2009, n. 102, nel prevedere la proposizione dell’azione per il risarcimento del danno all’immagine da parte delle procure regionali della Corte dei Conti nel giudizio erariale, si limita a circoscrivere oggettivamente l’ambito di operatività dell’azione, senza introdurre una preclusione alla proposizione della stessa dinanzi al giudice ordinario da parte dell’Amministrazione danneggiata.