Tutte le popolazioni interessate devono partecipare al referendum e il quesito referendario deve essere comprensibile.
Il referendum generalmente viene considerato una delle principali espressioni di democrazia diretta o partecipata, distinguendosi dal meccanismo della democrazia rappresentativa indiretta: un esercizio di sovranità popolare di una potestà normativa senza intermediazione dei rappresentanti politici e del tradizionale monopolio parlamentare della legge, integrando le fonti del diritto (Corte Cost., 22 ottobre 1990, n. 468).
In una società pluralista, costituisce un correttivo ai processi legislativi e uno strumento di partecipazione popolare rispetto alla mediazione delle assemblee rappresentative (e degli eletti): una sorta di soccorso al completamento della volontà elettiva.
In questo caso, il Comune di Venezia e la Città Metropolitana di Venezia ricorrono contro la Regione Veneto per l’annullamento di una serie di atti, del Consiglio Regionale del Veneto, riferiti alla “meritevolezza” della consultazione popolare sulla «suddivisione del Comune di Venezia nei due Comuni autonomi di Venezia e Mestre».
L’indizione del referendum, essendo atto politico, sarebbe sottratto al sindacato giurisdizionale sia del G.A. che del G.O. e, comunque, trattandosi di referendum consultivo e non vincolante per la Regione, la sua celebrazione non lederebbe alcun interesse giuridicamente rilevante.
La prima sezione del T.A.R. Veneto, con la sentenza n. 864 del 14 agosto 2018, interviene sull’argomento chiarendo da principio che la deliberazione di indizione di un referendum è sindacabile, in quanto tale, dal G.A. sino a quando non sia ancora in vigore la legge di “variazione territoriale” (ex art. 133, secondo comma Cost.), effetto utile dell’intero procedimento referendario, e allo stesso tempo non può considerarsi atto di natura politica, dunque non impugnabile, ex art. 7 c.p.a. (Corte Cost., sentenza n. 2/2018).
Il giudice di prime cure, dimostra che il referendum sulla variazione territoriale del Comune di Venezia non risulta neutro per gli effetti a cascata che produrrebbe sulla Città Metropolitana di Venezia, alterando inesorabilmente la rappresentanza in seno agli organi dell’Ente metropolitano.
Questi effetti diretti non sono indifferenti sulla popolazione interessata, che non può coincidere con il solo territorio del Comune di Venezia, ma deve essere esteso a tutti i cittadini che compongono i Comuni della Città metropolitana di Venezia (che ha assorbito la Provincia).
Inoltre, il quesito referendario non brilla di chiarezza poiché, nella sua sintetica elaborazione, non consente all’elettore di comprendere i reali ed effettivi confini territoriali dei nuovi Comuni di Venezia e Mestre, minando alla radice le finalità del referendum per l’indeterminatezza dell’oggetto, ovvero del contenuto.
La narrazione referendaria deve condurre ad un effetto consapevole, deve rappresentare la realtà nella sua effettività senza lasciare spazio alla fantasia o alla suggestione per non generare il caos.
Anche una consultazione popolare, un sondaggio on line deve esprimere compiutamente l’obiettivo finale, rispettando un campione significativo di utenti consultati, senza tralasciare i diretti interessati, coloro che subiscono gli effetti degli esiti della consultazione.
In pratica, anche la c.d. call pubblica, o secondo le «Linee guida sulla consultazione pubblica in Italia» (F.P., Direttiva n. 2 del 31 maggio 2017), esige «una maggiore partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche» impegnandosi a considerare «la consultazione pubblica, svolta anche attraverso modalità telematiche, come una fase essenziale dei processi decisionali»: pretendere una modifica territoriale senza coinvolgere tutta la popolazione interessata dalle conseguenti modifiche agli Enti territoriali (da ricomprendere la Città metropolitana) non è una semplice questione semantica o di opportunità, ma un diritto di libertà che va preteso e riconosciuto a tutti i residenti in quel determinato territorio.
Gli obiettivi della consultazione, annota la Funzione Pubblica nella cit. Direttiva n. 2/2017, «così come l’oggetto, i destinatari, i ruoli e i metodi devono essere definiti chiaramente prima dell’avvio della consultazione; al fine di favorire una partecipazione la più informata possibile, il processo di consultazione, deve essere corredato da informazioni pertinenti, complete e facili da comprendere anche per chi non possiede le competenze tecniche».
Sembra un’ovvietà stendere i testi normativi in modo leggibile, ma così non è se vi è stato il bisogno, da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di scrivere una Circolare (la n. 1/1.1.26/10888/9.92 del 2 maggio 2001) dal titolo indicativo: «Guida alla redazione dei testi normativi»; oppure, dallo stesso tenore, la Direttiva del Dipartimento della Funzione Pubblica, del 24 ottobre 2005, dal titolo più esaustivo «Direttiva sulla semplificazione del linguaggio delle Pubbliche amministrazioni».
Si invoca la trasparenza (secondo il modello FOIA), si combattono le fake news, si vuole la consultazione on line, in un modello di connessione a rete, espressione di compiuta ed evoluta democrazia, ampliando gli effetti cognitivi con la permanenza nei social media/social network e nelle dirette facebook, fornendo la disponibilità immediata di documenti, immagini e filmati, ma si distorge al contempo l’effetto voluto se al momento concreto – di chiamare l’elettore ad esprimere il voto – si limita tale libertà di espressione agli aventi titolo e si confondono le idee con quesiti generici e contradditori.
L’abbandono al voto è anche il frutto di una poco chiara produzione normativa, di testi incomprensibili, di modelli irrealizzabili e irrazionali, senza voler riferirsi alle leggi ad personam o, nella recente variante, ad cognatum (cfr. Il Fatto Quotidiano, prima pagina, 14 agosto 2018), senza voler citare il leading case dei movimenti populisti (meno tasse e più spese, o meno evasione e più investimenti), con l’uso costante della propaganda e della manipolazione del consenso.
Bisognerebbe rafforzare la credibilità delle istituzioni, rafforzando i loro rappresentanti sul piano dei valori della disciplina e dell’onore (ex art. 54 Cost.), profili etici che dovrebbero condizionare le scelte nel perseguimento del bene collettivo (tanto invocato in questi giorni di immane disastro).
L’efficacia dei principi di legalità richiede concretezza e attuabilità, richiede il coinvolgimento di tutti i soggetti che potenzialmente sono incisi dalle decisioni politiche se si vuole dare un senso alla consultazione referendaria, e prima ancora è necessario essere trasparenti e comprensibili sulle scelte e sui limiti dei quesiti referendari; diversamente saccheggiamo la buona fede e la correttezza dell’elettore riposta verso le istituzioni, con un danno che potrebbe ricadere e ricade nel silenzio e nell’abbandono al voto: in questo caso, l’elettore/parte di essi non verrebbe/verrebbero nemmeno chiamato/i.
(Si riportano gli estratti, in parte elaborati, della sentenza che presenta passaggi molti espressivi degli argomenti sopra trattati, senza indugiare sul significato dei termini, con un breve pensiero finale).
Nell’analisi delle eccezioni di inammissibilità del Comune di Venezia, che impedirebbe l’iniziativa processuale in quanto contrasterebbe con la libera iniziativa legislativa di un ampio gruppo di cittadini, l’infondatezza del rilievo sarebbe palesemente incongrua poiché nessun diritto dei cittadini di Venezia può giudicarsi conculcato dall’esercizio, da parte dell’Ente che li rappresenta, di un diritto costituzionalmente garantito, quale quello di agire in giudizio (ex art 24 Cost.) e senza che vi sia la prova di un abuso dello strumento processuale.
L’effetto raccolto dal referendum, con il ruolo del Comune di Venezia, quale Comune capoluogo della Città Metropolitana di Venezia, e del Sindaco di Venezia, quale Sindaco metropolitano, determinerebbe lo scardinamento istituzionale della Città Metropolitana di Venezia e l’obiettiva impossibilità di funzionamento della stessa: di qui l’inapplicabilità della suddetta procedura referendaria, nel quadro più esteso della Legge n. 56/2014 (c.d. legge Delrio), istitutiva del nuovo Ente territoriale minore, la “Città Metropolitana di Venezia”, solo in apparenza coincidente con l’Ente di cui ha preso il posto e cioè le Provincia.
Si rileva, altresì, la presupposta preminenza demografica del Comune capoluogo già presente nella c.d. legge Delrio: anzi, il nesso di presupposizione è ancor più stringente, poiché la ragione di tale regola si rinviene nella circostanza che il Comune capoluogo esprime, rispetto agli altri Comuni della Città Metropolitana, il corpo elettorale più numeroso, chiamato ad eleggere il Consiglio Metropolitano.
I suesposti elementi a dimostrare di per sé l’incompatibilità, con l’assetto istituzionale della Città Metropolitana di Venezia, della procedura di “suddivisione” del Comune di Venezia, ex legge regionale n. 25/1992, portata avanti dai firmatari della proposta di legge e recepita dalla Regione Veneto, che l’ha valutata “meritevole” ed ha indetto su di essa il referendum consultivo previsto dagli artt. 5 e 6 della cit. legge.
Ciò, in ragione del dato per cui l’eventuale approvazione della proposta di legge di iniziativa popolare comporterebbe – in ogni caso – circa la delimitazione dei due nuovi Comuni autonomi di Venezia e Mestre una diminuzione del territorio e della popolazione del Comune di Venezia, tale da privarlo, in radice, del carattere di Comune con il maggior peso demografico nell’ambito della Città Metropolitana.
Il dato ora esposto è pacifico e, del resto, esso è senz’altro ammesso da tutte le parti del processo, ma la Regione Veneto e, soprattutto, i due gruppi di firmatari della proposta si sforzano vanamente di eliderne la rilevanza giuridica, degradandolo a mero elemento descrittivo o, sulla scorta anche di pareri di autorevole dottrina, a mero elemento di opportunità, in ambedue i casi senza infirmare le argomentazioni degli Enti ricorrenti.
Donde la manifesta infondatezza dell’eccezione, alla quale è sottesa una generale sottovalutazione – in cui incorre talora anche la difesa regionale – della peculiarità, nel nostro sistema istituzionale, del nuovo Ente territoriale “Città Metropolitana”, dotato di copertura costituzionale ex art. 114 Cost. e che, nel disegno legislativo, si rivela altra cosa rispetto ai tradizionali Enti territoriali conosciuti dal nostro ordinamento (e disciplinati, per quanto riguarda i Comuni e le Province, dal D.Lgs. n. 267/2000, c.d. TUEL).
Sotto il secondo aspetto, poi, ridurre il tema del maggiore peso demografico del Comune capoluogo della Città Metropolitana a questione di mera opportunità significa, ad avviso del Collegio, non dare il giusto peso né ai succitati commi 19 e 21 dell’art. 1 della Legge n. 56/2014, né agli effetti “deflagranti” (per parafrasare la difesa della Città Metropolitana di Venezia) che la “suddivisione” del Comune di Venezia, nei termini propri della proposta di legge referendaria, avrebbe sull’assetto istituzionale della medesima Città Metropolitana, determinandone lo scardinamento e la paralisi.
In termini diversi, la sottrazione al Comune di Venezia della popolazione di Mestre – comunque la si voglia intendere e cioè comprensiva o meno di tutta la popolazione della terraferma – farebbe sì che detto Comune si troverebbe con una popolazione assai ridotta (ben inferiore a 100.000 abitanti) e meno della metà del nuovo Comune di Mestre.
Il Sindaco di Venezia resterebbe Sindaco Metropolitano, ma rappresenterebbe ormai solo circa il 10% della popolazione della Città Metropolitana, mentre proprio il Sindaco di Mestre sarebbe ben più rappresentativo (esprimendo una popolazione più che doppia).
Il rinnovo del Consiglio Comunale di Mestre, che sarebbe di gran lunga il maggior Comune di tutta la Città Metropolitana di Venezia, non produrrebbe alcuna conseguenza sul Consiglio di quest’ultima, mentre il rinnovo del Consiglio dell’ormai ridotto Comune di Venezia imporrebbe il rinnovo anche del Consiglio Metropolitano.
Verrebbe, così, irrimediabilmente compromesso il duplice equilibrio istituzionale che regge l’Ente “Città Metropolitana” nel disegno del Legislatore statale: quello tra il Comune capoluogo e gli altri Comuni, da un lato, e quello tra tutti i Comuni componenti e la Città Metropolitana, dall’altro.
Questo equilibrio è espressione del principio di rappresentanza democratica, quindi, in definitiva, dello stesso principio democratico che permea il nostro ordinamento sin dall’art. 1 della Costituzione, cosicché la sua alterazione o compromissione, lungi dal rappresentare una questione di mera opportunità, vulnera alla radice la stessa conformità alla Costituzione del nuovo Ente: quest’ultimo diventerebbe una sorta di “scheggia impazzita”, di elemento dissonante, nell’ambito del nostro ordinamento costituzionale, non rispondendo più a basilari regole di rappresentanza democratica, recando, inoltre un vulnus allo stesso principio costituzionale di buon andamento ex art. 97 Cost. (a ribadire la schietta giuridicità della questione).
In conclusione, il disallineamento istituzionale (tra Sindaco Metropolitano e popolazione del nuovo Ente, nonché tra il ridetto Sindaco ed il Consiglio Metropolitano), che deriverebbe dalla suddivisione territoriale effettuata secondo la procedura della legge regionale, è, invero, questione di schietto valore giuridico, poiché delinea un assetto istituzionale della Città Metropolitana di Venezia tutt’altro che conforme agli artt. 1 e 97 Cost..
Se ne desume, per evidenti ragioni logico-giuridiche, che le modificazioni territoriali del Comune di Venezia, quale Comune capoluogo dell’omonima Città Metropolitana, non possono essere disposte se con le modalità previste dall’art. 1, comma 22, della c.d. legge Delrio: modalità che sono rispettose del dettato costituzionale dell’art. 133, secondo comma, Cost..
Accolta la proposta di legge di iniziativa popolare e a seguito del suo esito positivo, il Comune di Venezia si rimpicciolirebbe in modo assai rilevante dai punti di vista demografico e territoriale, ma resterebbe il Comune capoluogo e, quindi, sarebbe soggetto ad un’ulteriore suddivisione in caso di passaggio all’elezione diretta del Sindaco e del Consiglio Metropolitani: ma non si vede come una simile ulteriore suddivisione possa a quel punto aver luogo, cosicché – com’è stato acutamente osservato dal difensore del Comune di Venezia – ad un tale stadio ci si troverebbe nel famoso “paradosso di Shylock” raccontato da SHAKESPEARE nel “Mercante di Venezia”, dovendosi addivenire ad una scissione ormai di fatto impossibile, salvo ipotizzare, assurdamente, la separazione delle isole che compongono il nucleo storico di Venezia.
Donde, per questa via, un’ulteriore conferma dell’illegittimità degli atti impugnati, poiché l’approvazione della proposta di legge per cui è causa renderebbe inapplicabile alla sola Città Metropolitana di Venezia la disciplina di cui all’art. 1, comma 22, della Legge n. 56/2014.
Viene poi chiarito che, a mente dell’art. 117, secondo comma, lett. p), Cost., l’ordinamento della Città Metropolitana appartiene alla competenza esclusiva statale, che investe non solo la legislazione elettorale ma si estende, altresì, agli organi di governo ed alle funzioni fondamentali delle Città Metropolitane (oltre che dei Comuni e delle Province), non potendo, pertanto, ritenere prevalente la disciplina regionale ove il suo effetto sia di incidere su una materia riservata alla potestà esclusiva statale.
I due profili, appena riportati, valgono a dar pienamente conto della fondatezza dei ricorsi riuniti, poiché dimostrano l’illegittimità della procedura referendaria indetta, in quanto basata su un procedimento – delineato sulla scorta della Legge regionale n. 25/1992 – chiaramente inapplicabile al caso di specie.
Nondimeno, anche ove si volesse opinare diversamente e ritenere che il procedimento, ex art. 1, comma 22, della legge c.d. Delrio, non fosse l’unica via per addivenire alla variazione territoriale del Comune di Venezia, quale Comune capoluogo dell’omonima Città Metropolitana, ma che fosse, possibile, altresì, pervenire a detta variazione sulla base dell’iter seguito dai firmatari della proposta di legge per cui è causa, le deliberazioni regionali impugnate resterebbero comunque illegittime, per l’illegittimità delle modalità con cui hanno disposto la consultazione referendaria, sotto almeno i due seguenti profili:
1) INDIVIDUAZIONE DELLA POPOLAZIONE INTERESSATA ALLA CONSULTAZIONE REFERENDARIA;
2) EQUIVOCA FORMULAZIONE DEL QUESITO REFERENDARIO.
Ed infatti, fermando ora l’attenzione sulla questione di cui al n. 1) – individuazione della popolazione interessata al referendum ricomprendere i soli cittadini dell’attuale Comune di Venezia non tiene in alcun modo conto degli effetti “deflagranti” dell’approvazione della proposta di legge di iniziativa popolare sull’organizzazione e sul funzionamento della Città Metropolitana, e, quindi, non considera in alcun modo l’interesse di tutti i cittadini della “Città Metropolitana di Venezia”, che comprendono altri Comuni (quelli dell’ex Provincia di Venezia).
Non è quindi vero che – come eccepiscono le controparti – i cittadini ad es. di Dolo, di Portogruaro o di altri Comuni compresi nella Città Metropolitana di Venezia non abbiano alcun titolo, né interesse ad esprimersi sulle variazioni territoriali del Comune di Venezia: l’obiezione è errata, perché muove dalla falsa prospettiva della situazione si verifica normalmente per le divisioni o le scissioni proprie dei Comuni non capoluogo di Città Metropolitana.
Ma la situazione delle Città Metropolitane – e dei Comuni che ne sono il capoluogo – è del tutto diversa e peculiare, cosicché è innegabile l’interesse dei cittadini di Dolo, di Portogruaro, ecc. ad essere governati da un Sindaco e da un Consiglio Metropolitani:
- che non siano affetti da un deficit democratico, ma, al contrario, siano rappresentativi;
- che non si trovino in una situazione di paralisi dovuta al disallineamento istituzionale;
- che possano, invece, operare in modo efficiente ed efficace.
Ancora una volta, perciò, gli atti della Regione dimostrano la sottovalutazione, da parte della stessa, delle peculiarità istituzionali e funzionali del nuovo Ente “Città Metropolitana”, la cui natura non pare essere stata ben compresa e che è stato troppo frettolosamente assimilato all’Ente cui è succeduto (la Provincia), senza coglierne le profonde differenze.
È chiaro, rileva il Tribunale, che per “popolazioni interessate” alle modifiche territoriali del Comune capoluogo debbono intendersi, oltre ai cittadini di questo, anche tutti gli altri cittadini metropolitani, cosicché nessuna violazione dell’art. 133, secondo comma, Cost., è rinvenibile sotto tale profilo.
Nessun valore ha poi il richiamo al dato fattuale che in passato i referendum consultivi per la scissione del Comune di Venezia abbiano sempre riguardato i soli residenti nel Comune di Venezia, visto che, all’epoca, la Città Metropolitana di Venezia non esisteva ancora.
Per la stessa ragione, non colgono nel segno neppure le eccezioni sollevate che, se la consultazione referendaria fosse estesa ai cittadini di tutti i Comuni compresi nella Città Metropolitana, si verificherebbe una discriminazione a danno dei cittadini del Comune capoluogo (Venezia).
Infatti, mentre in caso di suddivisione, scissione ecc. di un qualsiasi Comune della Città Metropolitana, sarebbero chiamati al referendum i soli cittadini di quello stesso Comune, solo per il Comune di Venezia dovrebbero essere chiamati alla consultazione anche i cittadini di tutti gli altri Comuni: si verificherebbe, quindi, una duplice violazione: sul piano costituzionale, verrebbe violato il principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.; sul piano della legittimità amministrativa, verrebbe in rilievo la disparità di trattamento, quale figura sintomatica dell’eccesso di potere.
La giurisprudenza costituzionale ha avuto modo di sottolineare, in relazione al mutamento circoscrizionale di un Comune, che non possono essere escluse dalla consultazione referendaria, oltre alle popolazioni direttamente interessate a siffatto mutamento, anche quelle che, essendo comunque residenti nel Comune interessato dalla proposta di mutamento, sebbene non direttamente coinvolte, vantino un interesse ad esprimersi su di essa (cfr. Corte Cost., 15 settembre 1995, n. 433).
Invece, le popolazioni non direttamente coinvolte possono essere escluse dal referendum solo quando ad esse non possa riconoscersi un interesse qualificato per intervenire in procedimenti di variazione relativi a parti del territorio rispetto al quale le stesse non abbiano alcun diretto collegamento (Corte Cost., 27 luglio 1989, n. 453).
L’insieme porta a concludere che, alla peculiare fattispecie del Comune capoluogo della Città Metropolitana, anche i cittadini dei Comuni diversi dal capoluogo vantano un interesse ad esprimersi sul referendum circa la divisione territoriale dello stesso capoluogo.
La parte finale del pronunciamento, si sofferma sulle tecniche redazionali (PUNTO 2 DELLA QUESTIONE REFERENDARIO, CHIAREZZA ESPOSITIVA), ovvero su come dovrebbero essere scritte le leggi ispirate ai principi – di matrice costituzionale – di chiarezza, semplicità, coerenza, completezza e univocità del quesito referendario e, per conseguenza, non permetta un pieno, libero e consapevole esercizio del voto popolare (ex multis, Corte Cost. 27 gennaio 2017, n. 28; idem, 26 gennaio 2011, n. 24).
Nel caso di specie, il quesito referendario approvato dalla deliberazione della Giunta Regionale recita: «È lei favorevole alla suddivisione del Comune di Venezia nei due Comuni autonomi di Venezia e Mestre, come da progetto di legge di iniziativa popolare n. 8?».
Orbene, detto quesito è privo dei caratteri di chiarezza, semplicità, completezza ed univocità, poiché esso non consente di comprendere che cosa siano i due nuovi Comuni che nascerebbero nell’ipotesi di approvazione del progetto (rectius, proposta) di legge.
Il Comune di “Mestre”, configurato con una consistenza territoriale comprensiva dell’intera terraferma dell’attuale Comune di Venezia, non solo non è mai storicamente esistito, ma è, altresì, qualcosa di diverso dal toponimo “Mestre” per come anche oggi conosciuto dal punto di vista della geografia, cosicché ne viene definitivamente confermata l’ingannevolezza ed insufficienza del quesito referendario.
Né si potrebbe argomentare, come proposto dalla Regione, al rinvio agli allegati alla proposta di legge, contenenti gli elaborati analitici del confine proposto, facente riferimento ad elementi fisici della Laguna di Venezia: l’inadeguatezza di un simile argomento, non potendosi costringere la massa dei votanti a consultare i suddetti allegati – sempre ammesso che questi contengano davvero adeguati chiarimenti – laddove invece sarebbe stato necessario, oltre che opportuno, inserire semplici, ma precisi riferimenti geografici nello stesso quesito referendario: ad es. inserire, in detto quesito, la specificazione che con il termine “Comune di Mestre” si intendeva tutto lo spazio di terraferma.
Quanto all’argomentazione, per cui sarebbero per tutti chiarissime le entità territoriali di “Mestre” e di “Venezia”, è fin troppo facile obiettare il carattere tautologico della stessa, trattandosi, in realtà, di un’evidenza che non si autodimostra per niente, nemmeno la bontà dell’iniziativa sotto il profilo storico, economico e sociale.
Il pronunciamento se da una parte, espone le argomentazioni del diritto, dall’altra parte, evidenzia i blocchi dell’ordinamento che sovrappone, senza coordinare, discipline giuridiche (quelle nazionali incompiute e quelle regionali settoriali) che non possono convivere, limitando l’autonomia decisionale di una singola municipalità e del suo territorio, in funzione di un concetto sovrabbondante (di territorio) da superare i confini del singolo Comune, per ricoprire quelli più allargati della Città Metropolitana.
Se il Comune è l’Ente locale che «rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo» (ex art. 3, comma 2 del D.Lgs. n. 267/2000), estendere tali confini per non compromettere la funzionalità della Città Metropolitana, di cui il Comune ne è una parte, conferma tutte le aporie della disciplina e incide fortemente sulle prerogative della singola municipalità.
L’azione interpretativa affidata al giudice se delinea il corretto esercizio del diritto, dimostra, invero, tutti i limiti delle modalità di esercizio del potere referendario di consultazione della popolazione di un determinato territorio su una scelta che non può che dipendere dai cittadini di quel territorio (quello di Venezia): la «sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (ex art. 1, comma 2 Cost.), come «la giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge» (ex art. 101 Cost.): nel caso di specie, non sempre i principi e limiti si distinguono.