La quinta sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 9 aprile 2019 n. 2327, conferma la condotta legittima di un’Amministrazione civica, capoluogo di regione, che ha negato l’affissione di manifesti pubblicitari contenenti la promozione dell’obiezione di coscienza in ambito sanitario, riformando il pronunciamento del giudice di primo grado nella sua neutralità di pensiero (come si ha avuto modo di riferire in sede di analisi giuridica della sentenza della seconda sez. del T.A.R. Liguria, n. 174 del 4 marzo 2019)[1].
L’Amministrazione civica impugnava la sentenza del Tribunale di prime cure di accoglimento del ricorso avverso il diniego di affissione di centotrenta manifesti della campagna informativa nazionale «Non affidarti al caso», in tema di obiezione di coscienza in ambito sanitario.
In premessa, viene analizzata la motivazione del diniego alla pubblicazione dei manifesti in considerazione che gli stessi presenterebbero «una possibile violazione di norme vigenti in riferimento alla protezione della coscienza individuale (artt. 2, 13, 19 e 21 della Costituzione; Sentenza della Corte Costituzionale n. 467/1991; premessa e art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo; artt. 9 e 10 della Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo) e al rispetto e tutela dovuti ad ogni confessione religiosa, a chi la professa e ai ministri di culto nonché agli oggetti che formano oggetto di culto (artt. 403 e 404 c.p.; art. 10, comma 2 del vigente Piano generale degli Impianti del Comune…; artt. 10 e 11 del vigente Codice di autodisciplina della Comunicazione Commerciale dell’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria)».
Nello specifico il bozzetto dei manifesti evidenziava «l’immagine con diversa gradazione cromatica, bipartita e giustapposta, del busto di un medico e di un ministro del culto cristiano (manifestate, rispettivamente da camice e stetoscopio, da abito talare e croce), con l’enunciato letterale a grandi caratteri, nello spazio sovrastante il torace, “Testa o croce?” e sotto in caratteri minori “Non affidarti al caso”, e più sotto ancora con l’aggiunta “Chiedi subito al tuo medico se pratica qualsiasi forma di obiezione di coscienza”».
Il contenuto del manifesto nella sua essenzialità descrittiva, sia sotto il profilo letterale del contenuto che della dimensione visiva, assume tutti gli elementi per definire il contesto e lo scopo voluto, secondo i canoni del marketing e del messaggio pubblicitario, il cui sentire si immerge su tematiche di primazia valoriale, attinente alla vita in quanto tale (senza indugiare su profili più eminentemente etici e morali)[2].
In primo grado, analizza il giudice di seconde cure:
- il committente dei manifesti deduceva l’illegittimità del diniego in materia di tributi comunali e per violazione del diritto di manifestazione del pensiero e di associazione;
- il regolamento comunale e il piano generale degli impianti pubblicitari del Comune disciplina i divieti per particolari forme pubblicitarie in relazione ad esigenze di pubblico interesse, rilevando che «il messaggio pubblicitario di qualsiasi natura, istituzionale, culturale, sociale e commerciale, non deve ledere il comune buon gusto, deve garantire il rispetto della dignità umana e dell’integrità della persona, non deve comportare discriminazioni dirette o indirette, né contenere alcun incitamento all’odio basato su sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età o orientamento sessuale, non deve contenere elementi che valutati nel loro contesto, approvino, esaltino o inducano alla violenza contro le donne, come da risoluzione 2008/2038 (INI) del Parlamento Europeo».
Ciò posto, il messaggio pubblicitario, al di là della sua componente economica, presenta una valenza non economica, e nella sua concretezza pubblicitaria «appare discriminatorio nelle descritte modalità di composizione delle contrapposte descritte immagini collegate in una al sovrapposto, dominante enunciato letterale “Testa o croce ?” e con l’incitazione “Chiedi subito al tuo medico se pratica qualsiasi forma di obiezione di coscienza” perché appare offendere indistintamente il sentimento religioso o etico, e in particolare dei medici che optano per la scelta professionale di obiezione di coscienza in tema di interruzione volontaria della gravidanza, pur garantita dalla legge 22 maggio 1978, n. 194, art. 9».
Viene descritta nella sua materialità la condotta discriminatoria[3]:
«– oppone (“testa o croce’”) in termini negativi e reciprocamente escludenti la ragione (“testa”) e la fede cristiana (“croce”);
– pubblicizza così implicitamente che la fede cristiana (“croce”) oscura la ragione (testa”);
– nega la dignità della ragione (“testa”) alla scelta medica di obiezione di coscienza motivata da ragioni di fede cristiana (“croce”);
– appare negare autonoma dignità all’obiezione mossa da ragioni non già cristiane ma semplicemente etiche ovvero di altra fede religiosa;
– collega la meritevolezza o adeguatezza professionale del medico alle sue libere convinzioni religiose o comunque etiche in tema di interruzione volontaria della gravidanza».
Dal dato fattuale e descrittivo si rileva che la discriminazione in base alla religione e alle convinzioni etiche individuali, viene compiuta dove la pur naturalmente legittima critica alle scelte dei professionisti obiettori supera i limiti generali della continenza espressiva giacché non si ferma a valutazioni misurate, ma – senza necessità – trasmoda in valutazioni lesive dell’altrui dignità morale e professionale[4].
Invero, l’esigenza di ricorrere al diritto di critica come scriminante, anziché come criterio per l’accertamento della stessa esistenza di un’offesa, si pone nei casi in cui l’espressione della critica comporti necessariamente anche valutazioni negative circa le qualità morali o intellettuali o psichiche del destinatario; in questi casi l’inevitabilità del collegamento alla critica scrimina l’offesa, che sarebbe illecita, ma solo nei limiti in cui essa è indispensabile per l’esercizio del diritto costituzionalmente garantito, sicché rimangono egualmente punibili quelle espressioni che la giurisprudenza definisce “gratuite”, nel senso di non necessarie all’esercizio del diritto, in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti[5].
Ciò che rileva, quindi, non è la maggiore o minore aggressività dell’espressione o l’asprezza dei toni quanto l’abuso del diritto è la gratuità delle aggressioni non pertinenti ai temi apparentemente in discussione[6].
Si comprende che quando le espressioni utilizzate si risolvono in valutazioni negative in ordine alle qualità morali, intellettuali, professionali o psichiche del destinatario si pone il problema di verificare se le offese, che sarebbero illecite, sono scriminate dall’esercizio del diritto di critica, espressione del bilanciamento tra l’interesse individuabile alla reputazione e l’interesse generale che non siano introdotte limitazioni alla libera formazione del pensiero costituzionalmente garantita (art. 21 Cost.).
In ogni caso, il presupposto della verità accomuna il diritto di critica, e il bilanciamento di tale esercizio (del diritto di critica) non può prescindere il piano della concreta manifestazione dei fatti, che non può prescindere dal rispetto dei limiti della rilevanza sociale dell’argomento e della correttezza dell’espressione – principio della c.d. continenza – che nello specifico perché possa ritenersi operante la scriminante del diritto di critica, pur essendo certamente consentito, nei riguardi di soggetti investiti di pubbliche funzioni (c.d. diritto di critica politica), il ricorso a un linguaggio più indiviso, occorre comunque che il fatto narrato sia vero, che sia correttamente riferito e che sia pertinente al potenziale interesse dell’opinione pubblica ed è indispensabile che l’azione, l’atteggiamento, l’operato o l’opinione altrui, che si intende criticare, sussistano e siano correttamente esposti da chi intende criticarli[7].
Il diritto di critica è tanto più incisivo quando l’interesse pubblico dell’argomento presenta una forte finalizzazione, quando sia socialmente rilevante, giacché non può considerarsi potenzialmente lesiva della reputazione altrui l’espressione di un dissenso rispetto all’esercizio di una funzione pubblica, anche se per manifestare disapprovazione siano usate espressioni oggettivamente polemiche e toni aspri e veementi, senza per questo superare il limite della correttezza o adeguatezza formale purché l’agente non trasmodi in ad attacchi personali, diretti a colpire su un piano individuale, senza alcuna finalità di pubblico interesse[8].
In questo ultimo caso l’esercizio del diritto di critica deborda e trascende nel campo dell’aggressione alla sfera morale altrui, penalmente protetta: in tema di diffamazione, non può trovare applicazione la scriminante del diritto di critica quando la condotta dell’agente trasmodi in aggressioni gratuite, non pertinenti ai temi in discussione ed integranti invece l’utilizzo di “argumenta ad hominem”, intesi a screditare l’avversario mediante la evocazione di una sua presunta indegnità od inadeguatezza personale, piuttosto che a criticarne i programmi e le azioni[9].
La continenza espressiva correlata al diritto di critica e alla pubblicità informativa se riferita al servizio comunale di affissioni pubblicitarie, seppure distinta dalla c.d. critica politica, i cui toni possono assumere contorni aspri e di disapprovazione più incisivi rispetto a quelli degli usuali rapporti tra privati (come sopra evidenziato), non può giungere (diversamente) in una campagna di informazione ad eccedere i canoni di continenza, necessari per il pubblico interesse all’informazione ampia e corretta, fermo il rispetto dell’interesse, individuale o collettivo, alla reputazione.
In questo senso, anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene legittima una restrizione operata dalla legge quando, in una società democratica, sia necessaria la protezione della reputazione o dei diritti altrui, e il diritto alla libertà di espressione va valutato alla luce dei principi di proporzionalità e pertinenza[10].
In definitiva, riformando il giudizio del T.A.R., si deduce che il provvedimento comunale non appaia viziato da carenza di motivazione, laddove nega l’affissione per una possibile violazione di norme poste a protezione della coscienza individuale ed a tutela di ogni confessione religiosa.
A margine, viene anche ritenuto infondato il motivo riproposto dall’associazione appellata in ordine alla disparità di trattamento perpetrata dal Comune rispetto alla consentita affissione dei manifesti del movimento “Pro-Vita”, stante la diversità, la non comparabilità e la non identità delle situazioni, circostanza che esclude l’eccesso di potere.
Il pronunciamento del giudice di appello, se rapportata a quello di primo grado, segna un non apparente contrasto nell’affrontare un tema che implica più valutazioni, sia sul piano dell’obiezione di coscienza in ambito sanitario e sia sul credo religioso, registrando una marcata sfasatura tra il “comune sentire” di tradizioni, culture e credo in contrapposizione con il c.d. “pensiero unico” (o “relativismo morale”) nella sua categoria di “cittadino del mondo” in uno standard senza un’identità definita.
La sentenza della quinta sez. del Consiglio di Stato, n. 2327 del 9 aprile 2019 n. 2327, riporta il tema della vita e dell’obiezione di coscienza al centro della questione madre, se sia possibile o meno rivendicare una propria identità e fede religiosa senza essere discriminati; o forse se sia opportuno ignorare le identità individuali e collettive per il timore di creare delle discriminazioni inverse.
Il pregio del pronunciamento va oltre a quanto sentenziato, confermando il potere dell’Autorità locale nel definire concretamente l’interesse pubblico, con piena potestà regolamentare e di indirizzo politico sulle valutazioni del e nel merito, un giusto tributo alla rappresentanza elettiva e alla sovranità che appartiene al popolo (ex art. 1 Cost.), specie quando sono in gioco valori che caratterizzano un Paese e, più in generale, l’espressione di un principio di libertà e di democrazia compiuta, nella corretta separazione tra i poteri dello Stato Comunità.
Nella più evidente libertà di manifestare (ex art. 21 Cost.), la ridondanza dell’ego e pretendere – in termini astratti – che il messaggio pubblicitario non si traduca in una lesione alle proprie libertà di pensiero (ovvero, in primis di coloro che professano l’obiezione), in nome di una sterilizzazione della personalità individuale a favore di una comparazione tra “testa” o “croce”, pensando che il valore simbolico (a cui accede) non corrisponda prima ancora ad un valore cogente (di fede), è negare l’evidenza dei fatti e ammettere di non vedere quello che si vorrebbe nascondere.
In effetti, se ogni giorno facciamo delle scelte, dalle più banali a quelle che cambiano o possono cambiare il sentiero fino ad ora percorso, la libertà di riconoscere l’essere umano in quanto tale è un accadimento essenziale per l’intera umanità: un primario valore da tutelare in un bilanciamento di condizioni che si vorrebbero sempre più elidere, o anche negare, in ragione di un superiore interesse alla globalizzazione dei sentimenti più intimi e personali afferenti al rapporto con il proprio Creatore, in un periodo storico e di estrema attualità dove tali distinzioni portano alla morte non solo delle coscienze ma della vita stessa.
[1] Cfr. intervento di chi scrive, Obiezione di coscienza, aborto e manifesti pubblicitari: una questione di attualità, mauriziolucca.com, 7 marzo 2019.
[2] Le norme di rango costituzionale che garantiscono il diritto alla esistenza e alla salute non recano una nozione certa circa il momento iniziale della vita umana e l’estensione dell’ambito di tutela nel corso del suo sviluppo; tuttavia, l’esame sistematico della regolamentazione dettata dalla Legge n. 194/1978, «Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza», induce a ritenere che il legislatore abbia inteso – quale evento interruttivo della gravidanza – quello che interviene in una fase successiva all’annidamento dell’ovulo nell’utero materno, T.A.R. Lazio, Roma, sez. III quater, 2 agosto 2016, n. 8990.
[3] È richiamata la disciplina dell’art. 2 del D.Lgs. n. 215 del 2003 in materia di razza ed origine etnica; l’art. 2 del D.Lgs. n. 216 del 2003 in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; l’art. 2 del D.Lgs. n. 67 del 2006 in tema di disabilità, nonché l’art. 9, paragrafo 2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
[4] Cass. Civ., sez. III, 20 gennaio 2015, n. 841.
[5] La critica può anche essere molto aspra, irriverente ed ironica, a condizione, però, che siano rispettati i canoni dell’interesse pubblico della notizia e/o vicenda criticata, che i presupposti di fatto esposti a critica siano veri e che vi sia continenza espositiva, Cass. Pen., sez. V, 3 ottobre 2012, n.38437.
[6] Cass. Pen., sez. V, sentenza n. 4853/2017.
[7] Cass. pen., sez. V, 21 gennaio – 26 febbraio 2004, n.8678.
[8] Tribunale di Padova, 30 gennaio 2004, n. 157.
[9] Cass. Pen., sez. V, 25 settembre 2001, n. 38448. Per altri versi, è stato rilevato che le dichiarazioni del giornalista nell’utilizzo di “toni vivaci e ad effetto” risentono della sua cultura e della sua sensibilità, il tutto per dire che non si assoggettano – se non come canone – tendenziale all’obbiettività assoluta, e in questo modo si coglie la distinzione tra cronaca e critica, Cass. Civ., sez. III, 31 marzo 2006, n. 7605.
[10] Corte E.D.U., 19 giugno 2012, n. 27306; 28 ottobre 1999, n. 18396; 23 aprile 1992, n. 236; 8 luglio 1986, n. 103.