In presenza di un vizio del provvedimento (violazione di legge per contrasto con una norma superiore) l’Amministrazione dispone del potere di annullamento di ufficio, in mancanza del quale l’atto disperde nel tempo i propri effetti (non corretti con l’assetto ordinamentale), dovendo, al contempo, osservare che a fronte di questo limite (inerzia della PA) vi è stata un’apertura giurisprudenziale[1], secondo la quale si potrebbe invocare in giudizio (a cura del giudice) l’inapplicabilità della norma (che l’Amministrazione avrebbe potuto rimuovere esercitando l’autotutela).
I poteri del GA
A tale riguardo è da osservare il riconoscimento al giudice amministrativo del potere di disapplicazione, condizione che si è andata progressivamente affermata nella giurisprudenza sia:
- con riferimento ad ipotesi di regolamenti illegittimi che sacrifichino posizioni soggettive di diritto o di interesse legittimo attribuite dalla legge[2];
- con riguardo al caso di disposizione di rango regolamentare che attribuisca un diritto in contrasto con norme sovraordinate[3].
Il precipitato esegetico fa ritenere possibile – in via generale – la facoltà (un dovere) di disapplicare, ai fini della decisione sulla legittimità del provvedimento amministrativo, la norma secondaria di regolamento, qualora essa contrasti in termini di palese contrapposizione con il disposto legislativo primario, in applicazione delle regole sulla gerarchia delle fonti (inter alia).
Il pronunciamento
La sez. III del TAR Toscana, con la sentenza 8 aprile 2025, n. 655 (Est. Gabriele), considera lecita (anzi doverosa) la disapplicazione di una norma regolamentare quando contrasti con le disposizioni (di principio) della Costituzione, precludendo i diritti pieni attinenti alla persona del cittadino: l’accesso al pubblico impiego (infermiere a tempo indeterminato).
Il provvedimento attuativo (di esclusione) di una norma regolamentare contrastante con una fonte superiore rende l’atto illegittimo.
Fatti
La parte ricorrente ricorre contro un provvedimento di esclusione da un pubblico concorso, con la seguente motivazione: «Sussistenza di causa impeditiva all’ammissione ai sensi del comma 2, dell’art. 2 del d.p.r. 220/2001, non possono accedere agli impieghi coloro che … sono licenziati a decorrere dalla data di entrata in vigore del primo contratto collettivo»: la parte sollevava preliminare eccezione di illegittimità costituzionale della cit. norma (in pendenza del giudizio, la parte ricorrente veniva ammessa con riserva, successivamente assunta con clausola condizionate).
In particolare, la ricorrente ha dedotto l’illegittimità della disposizione regolamentare applicativa della norma, perché essa non terrebbe conto degli effetti derivanti dalla riabilitazione penale medio tempore intervenuta, osservando che una tale previsione avrebbe dovuto essere adottata con disposizione di legge, stante l’inidoneità della fonte regolamentare a disporre l’inefficacia in un ambito, quale quello della riabilitazione penale, coperto da riserva assoluta di legge.
In sostanza, si chiedeva l’annullamento del provvedimento di automatica esclusione dalla procedura concorsuale (con disapplicazione del licenziamento, donde l’illegittimità dell’esclusione) in quanto in contrasto con una fonte primaria ove si consideri, tra l’altro, che il licenziamento risale al 1999 e i fatti oggetto di condanna al 1994, con reati estranei al rapporto di lavoro.
La parte resistente insisteva sul rigetto del ricorso in considerazione di una doverosa esclusione, adottata in applicazione della disposizione regolamentare.
Prime posizioni
Il Tribunale accoglie il ricorso sulla base della disapplicazione dell’art. 2, comma 2, del d.P.R. n. 220/2001, rendendo di conseguenza illegittimo il provvedimento di esclusione, senza per ciò rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità costituzionale della prefata norma, poiché essa costituisce una disposizione regolamentare, cioè formalmente amministrativa e sostanzialmente normativa[4].
A ben vedere, la censura riguarda una norma regolamentare, recata dall’art. 2, comma 2, del d.P.R. n. 220/2001 (la forza del DPR risulta inferiore di livello rispetto alla Legge), con piena cognizione del GA del potere (anche officioso) di disapplicare i regolamenti illegittimi, sulla scorta del principio di gerarchia delle fonti e del principio iura novit curia: quando si deve giudicare della legittimità di un provvedimento conforme al regolamento ma in contrasto con la norma primaria, o viceversa, si deve dare prevalenza a quest’ultima, in ragione della gerarchia delle fonti[5].
Nello specifico, la disposizione regolamentare si pone in aperto contrasto con l’immediata precettività di plurimi parametri costituzionali con obbligo di disapplicazione e, con conseguente pronuncia caducatoria del provvedimento di esclusione impugnato.
Disapplicazione
La situazione è inquadrabile nel c.d. “rapporto di simpatia”, che ricorre ogniqualvolta un provvedimento amministrativo sia conforme ad un regolamento a sua volta contrastante con disposizioni di rango superiore, comportando la disapplicazione del regolamento per contrasto con la disposizione gerarchicamente superiore, a cui si associa l’illegittimità del provvedimento che radica la propria legittimità in quella disposizione regolamentare[6].
Orientamento della Corte cost.
Fatte queste considerazioni di sostanza, a rafforzare il pronunciamento viene richiamato un orientamento della Corte costituzionale[7] che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una norma di legge che impediva l’accesso al pubblico impiego, senza consentire all’Amministrazione di esercitare un potere valutativo in ordine all’effettiva sussistenza delle ragioni a supporto della esclusione dalla relativa procedura concorsuale.
In definitiva non può considerarsi lecita una condotta (quella dell’Amministrazione con il provvedimento espulsivo) che escluda l’accesso ad un posto pubblico in presenza di una sentenza penale di condanna ove non si consideri una compiuta ponderazione del giudicato sulla prestazione da eseguire, non essendo la esclusione dalla partecipazione al pubblico concorso un effetto penale della condanna: la riabilitazione non comporta di per sé, automaticamente, il venir meno dell’esclusione stessa, quando sia prevista dalla legge.
Una soluzione diversa risulterebbe irragionevole (ex art. 3 Cost.) e contrastante con le finalità di reinserimento del condannato nella vita sociale, cui s’ispira anche l’art. 27 della Costituzione, terzo comma, ultima parte, non potendo non considerare rilevante l’intervenuta riabilitazione, precludendo (condotta obbligata) all’Amministrazione la valutazione di tale evenienza, in tutti i suoi elementi, con riferimento particolare alla qualifica ed alle mansioni da espletare in base al concorso.
In termini più comprensibili, con l’abilitazione gli effetti penali vengono meno privando l’Amministrazione da ogni potere di valutazione della condanna.
Motivazione
La fonte regolamentare (di cui al DPR) va disapplicata poiché confligge con la fonte primaria di rango superiore, ovvero la Costituzione, determinando un vulnus all’art. 4, comma 1 («La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto»), e all’art. 35 (sono i principi di tutela del lavoro), come letti nel prisma dell’art. 2 (diritti inviolabili), nella parte in cui tutela l’individuo «nelle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità».
Si comprende, dunque, che «la preclusione all’accesso all’impiego declinata dall’art. 2, comma 2, d.P.R. n. 220/2001 in termini assoluti, con un automatismo che non ammette valutazioni da parte dell’amministrazione volte a operare verifiche in concreto, risulta direttamente violativo del diritto al lavoro così come espressamente riconosciuto dalla Costituzione nelle richiamate disposizioni da ritenersi di immediata precettività e cogenza».
L’approdo valoriale porta ad affermare che il mero automatismo conseguente all’esistenza del predetto licenziamento, si presenta in aperto contrasto con il principio di non contraddizione, quale precipitato dell’art. 3 (principio dell’eguaglianza formale e sostanziale) della Costituzione, in combinato disposto con l’art. 27, comma 3 («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»), nella misura in cui la riabilitazione penale e l’avvenuta emenda del soggetto siano irrilevanti ai fini della verifica in concreto della compatibilità della causa ostativa con l’accesso all’impiego.
La sentenza termina nel dare prevalenza alla tutela del diritto all’impiego, disapplicando il regolamento recato dal d.P.R. n. 220/2001, annullando (effetto diretto) il provvedimento di esclusione.
In questa proiezione valoriale di effettiva tutela della persona, una volta venuti meno gli effetti della condanna penale, questi (cit. effetti) non possono perdurare mediante norme del tutto estranee, in solare contrasto con una batteria di principi costituzionali.
Proiezioni
Volendo andare oltre, in apertura (primo sipario) della Costituzione, il comma 1, dell’art. 1 prevede che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», dove il lavoro costituisce il contributo di ogni essere vivente (cittadino) nel forgiare una Nazione, anzi nel definire (inquadrare) una forma di Stato, rispetto al governo del singolo – dittatura (Sic semper tyrannis) – contrario ad assicurare le tante libertà disseminate nel testo costituzionale.
Abbiamo assistito in epoca pandemica alla produzione di norme (da includere dpcm e dirette Facebook) che di questo principio, presidiato da innumerevoli tutele, ha compulsato un’inversione di paradigma, in nome dell’ignoto irriducibile (un concetto avulso dal diritto)[8], escludendo illegittimamente – dal mondo del lavoro – centinaia di persone oneste, privandole di tutela e libertà (il c.d. confinamento)[9].
A distanza di un soffio, altri celebranti (di virtù estrema) invocano il riarmo, interpretando (a modo loro) l’art. 11 della Costituzione: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»: la guerra per garantire la pace: un altro altare da edificare alla Fortuna Redux.
Un modo alquanto stravagante di lettura (nuova sintassi).
[1] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 febbraio 1992, n. 154, con la quale si constatava che ogni ordinamento non può non prevedere un meccanismo invalidante delle norme di grado inferiore che sopraggiungano ed urtino contro precetti pozioni dell’ordinamento medesimo. Aspetto acquisito anche con la disapplicazione delle norme interne configgenti con il diritto comunitario, Cons. Stato, sez. VI, 5 dicembre 2002, n. 6657, già oggetto di un’elaborazione da parte della Corte costituzionale, con le sentenze n. 170 del 1984 e n. 168 del 1991. L’atto amministrativo che viola il diritto dell’Unione europea è affetto da annullabilità per vizio di illegittimità sotto forma di violazione di legge e non da nullità, atteso che l’art. 21 septies della legge n. 241/1990, ha codificato in numero chiuso le ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo e tra queste ipotesi non rientra il contrasto con il diritto dell’Unione europea, Cons. Stato, sez. VI, 19 marzo 2025, n. 2254.
[2] Cfr. Stato, sez. V, 20 maggio 2003, n. 2750; sez. V, 30 ottobre 2002, n. 5972; sez. VI, 12 aprile 2000, n. 2183; sez. IV, 29 febbraio 1996, n. 222.
[3] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 6 luglio 2000, n. 3789; sez. V, 9 settembre 1995, n. 1332.
[4] Il sindacato di legittimità della normativa subprimaria è rimesso alla cognizione del giudice comune, ovvero alla giurisdizione di annullamento del giudice amministrativo e al potere di disapplicazione incidentale di ogni altro giudice: il contrasto di una norma inferiore e secondaria con la legge esclude il giudizio sulla costituzionalità della legge per una asserita illegittimità del contenuto della norma regolamentare, anche se emanata per l’esecuzione della legge medesima, Corte cost., 27 luglio 2023, n. 174.
[5] Cfr. Cons. Stato, sez. II, 9 gennaio 2020, n. 219; sez. VI, 5 gennaio 2015, n.1.
[6] Cons. Stato, sez. V, sez., 24 luglio 1993, n. 799.
[7] Corte cost., 23 novembre 1993, n. 408.
[8] Vedi, FOÀ, il nuovo diritto della scienza incerta: dall’ignoto irriducibile come noumeno al mutamento di paradigma, Diritto Amministrativo, Fasc. 3, 2022.
[9] Vedi, LUCCA, Gli obblighi abnormi di mascheramento e confinamento vaccinale: dal green pass all’uomo nuovo digitale, comedonchisciotte.org, 25 agosto 2021.