I danni prodotti da un’ambiente insalubre collegato al fumo passivo devono essere dimostrati concretamente.
La prima sez. del T.A.R. Veneto, con la sentenza del 22 agosto 2018, n. 868, stabilisce che all’interno dei luoghi chiusi (alias istituti penitenziari o carceri) non è possibile separare i locali dei fumatori dai non fumatori.
Il ricorso veniva promosso da un dipendente contro il Ministero della Giustizia per la violazione di precisi obblighi del datore di lavoro.
I motivi e le richieste:
- il risarcimento dei danni alla salute patiti per violazione delle norme a tutela della salute dei lavoratori;
- l’assenza di un adeguamento dei luoghi di lavoro mediante installazione di idoneo impianto di aerazione (un obbligo di facere);
- il mancato esonero dai servizi presso i luoghi di detenzione o la destinazione a servizi da svolgersi al di fuori di tali ambienti, almeno sino all’adeguamento al d.lgs. n. 81/2008 (in punto, art. 237, comma 1, lett. c) a tenore del quale il datore di lavoro «progetta, programma e sorveglia le lavorazioni in modo che non vi è emissione di agenti cancerogeni o mutageni nell’aria. Se ciò non è tecnicamente possibile, l’eliminazione degli agenti cancerogeni o mutageni deve avvenire il più vicino possibile al punto di emissione mediante aspirazione localizzata, nel rispetto dell’articolo 18, comma 1, lettera q). L’ambiente di lavoro deve comunque essere dotato di un adeguato sistema di ventilazione generale».
Più in evidenza, il danno era attribuibile all’ambiente di lavoro malsano (sotto il profilo della sicurezza e dell’igiene), alla costante stagnazione di grandissime quantità di fumo (cfr. Tribunale di Milano, sentenza n. 2536/2014, Giudice Atanasio, per la condanna al “danno esistenziale” per fumo passivo), con conseguente inalazione per tutto il periodo di servizio del c.d. fumo passivo, senza che la direzione si sia mai attivata per risolvere tale emergenza con l’istallazione di impianti di aerazione.
La conseguenza inevitabile del c.d. fumo passivo consisteva nell’insorgere di patologie respiratorie certificate come «dipendenza da causa di servizio» e il riconoscimento dell’invalidità biologica permanente (pur non essendo tale malattia considerata “malattia professionale”), donde la richiesta di risarcimento del danno alla salute a causa dell’esposizione.
In primis il Collegio profila la propria giurisdizione in relazione alla domanda di risarcimento del danno biologico (ex art. 2087 c.c.) collegato alla responsabilità contrattuale della P.A. datrice di lavoro, rientrando, pertanto, nell’ipotesi di giurisdizione esclusiva del G.A., ex artt. 3 e 63, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001 (c.d. TUPI), tenuto conto che il lavoratore, quale agente di polizia penitenziaria (il testo presenta gli omissis) appartiene al c.d. pubblico impiego non contrattualizzato (Cons. Stato, sez. IV, 6 giugno 2017, n. 2720).
La domanda di risarcimento del danno biologico presenta una duplicità di profili di responsabilità:
- azione di natura extracontrattuale, se proposta ai sensi dell’art. 2043 c.c., con giurisdizione del G.O. (cfr. T.A.R. Campania, Napoli, Sez. VII, 5 agosto 2010, n. 17232);
- azione di responsabilità contrattuale della P.A., correlata alla violazione dell’obbligo di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori dipendenti, ai sensi dell’art. 2087 c.c., giurisdizione esclusiva del G.A. (cfr. Cass. Civ., Sez. Un., 6 marzo 2009, n. 5468; idem 4 marzo 2008, n. 5785).
Ciò che rileva ai fini dell’inquadramento sono gli elementi materiali dell’illecito posto a base della pretesa risarcitoria:
- la condotta lesiva della P.A. indifferentemente nei confronti della generalità dei cittadini e nei confronti dei propri dipendenti, perché in tal caso il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione dell’evento dannoso;
- la condotta lesiva della P.A. imputabile alla violazione di specifici obblighi di protezione dei lavoratori, ex 2087 c.c., evidenziando la natura contrattuale della responsabilità conseguente all’ingiustizia del danno alle violazioni di taluna delle situazioni giuridiche in cui il rapporto di lavoro si articola (caso di specie).
Si tratta di un diritto della persona costituzionalmente tutelato, in quanto l’art. 2087 c.c. pone a carico del datore di lavoro il dovere di proteggere proprio la sfera personale del lavoratore e in particolare il diritto all’integrità psico-fisica: la violazione di tale norma autorizza la corresponsione anche del danno non patrimoniale (c.d. danno biologico).
Il Tribunale elenca le richieste di condanna della P.A. ad un “facere” specifico:
1) installazione di un idoneo impianto di aerazione;
2) adozione di misure organizzative di esonero dai compiti presso le aree dove permane il c.d. fumo passivo, con destinazione ad altri servizi, almeno fino alla realizzazione del suddetto impianto di aerazione.
Tali richieste, precisa il giudice di prime cure, vanno ad incidere sui poteri pubblicistici della P.A. e che, perciò, si tratti di pretese non giustiziabili, non essendo ammesso che il G.A., o qualsiasi altro giudice, possano incidere su poteri discrezionali, sia sotto i profili di discrezionalità amministrativa che tecnica (cfr., ex multis, Cons. Stato, A.P., 29 luglio 2011, n. 15).
Si evidenzia che la valutazione circa l’opportunità o no di installare impianti di aerazione nei luoghi deputati alla restrizione della libertà personale, ovvero alle scelte organizzative della P.A. circa la più oculata ripartizione del personale tra le varie strutture di detenzione, attiene alla discrezionalità amministrativa; quanto, alla discrezionalità tecnica, riferita alla valutazione di possibili opzioni alternative all’installazione degli impianti di aerazione.
In presenza di tali poteri discrezionali della P.A., la posizione del pubblico dipendente non può che connotarsi quale interesse legittimo, che si affianca al diritto soggettivo del medesimo alla salute, ex art. 32 Cost., ma che ne va distinto, venendo in tal modo confermata l’inesperibilità, nel caso di specie, delle azioni di condanna proposte dal ricorrente: la conclusione porta l’inammissibilità delle suesposte azioni di condanna ad un “facere” specifico.
Passando al merito della domanda risarcitoria è necessario definire una chiara individuazione del nesso di causalità tra l’insorgere della patologia e l’affermata esposizione al c.d. fumo passivo: in assenza del citato accertamento l’istanza non può essere accolta.
Nella sentenza, il Tribunale, annota che «è ictu oculi percepibile l’inopportunità del rimedio individuato… consistente nell’installazione di sistemi di aspirazione e ventilazione forzata, ove si sostenga – come preteso dal ricorrente – che tale installazione dovesse avvenire…, poiché… tale rimedio potrebbe non essere compatibile con la funzione di restrizione della libertà personale… Di tal ché, pur a riconoscere l’esistenza del problema segnalato dal lavoratore, a ben guardare non vi è in atti l’indicazione di nessun rimedio per il problema stesso, la cui mancata adozione possa aver concretato una condotta illecita della P.A., ascrivibile alla responsabilità contrattuale di questa e fonte del preteso danno alla salute».
Si conclude con alcune indicazioni pratiche e alternative esperibili da parte della P.A.:
- scartata quella basata sulle sanzioni per il divieto di fumo, vista la sua scarsa efficacia nei confronti della popolazione carceraria;
- la rotazione di tutto il personale (compreso il ricorrente) in servizi e luoghi differenti, senza destinarlo continuativamente nel luogo maggiormente esposto al fumo passivo.
In definitiva, si postula che il G.A. non può sostituirsi ad un altro potere, quello della P.A., obbligandola ad un facere specifico, soprattutto in presenza di una discrezionalità pura (soluzione più opportuna) e tecnica (modalità operative): il giudice amministrativo può sindacare le valutazioni della P.A. sotto il profilo della logicità, ragionevolezza ed adeguatezza dell’istruttoria, ma non procedere ad una autonoma verifica disponendo la soluzione pratica attivando poteri sostitutivi e di natura istruttoria esercitando l’azione amministrativa.
Poi, il danno biologico non è stato dimostrato da alcuna prova se non da una semplice dichiarazione che «l’esposizione a fumo passivo può aver contribuito in misura significativa nell’insorgenza della malattia»: è mancato l’onere probatorio, ovvero la dimostrazione della causalità giuridica (cfr. Cons. Stato, A.P., 23 febbraio 2018, n. 1).
La sentenza in commento si allinea all’orientamento secondo il quale il titolo dell’obbligazione risarcitoria è regolato dall’art. 2087 cod. civ., applicabile anche in ambito pubblicistico, il quale prevede che «l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».
In relazione alla natura di tale obbligazione datoriale si è ricondotta la responsabilità nell’alveo di quella contrattuale (escludendo quella extracontrattuale), tipica del datore di lavoro, rinvenibile la propria fonte nel contratto di lavoro che, ai sensi dell’art. 1374 c.c., integrato dalla norma di legge, sopra riportata, prevede doveri di prestazione finalizzati ad assicurare la tutela della salute del lavoratore.
Sul piano strutturale, tale qualificazione dell’illecito implica, ai sensi dell’art. 1218 c.c., da una parte, che il datore di lavoro deve provare l’assenza di colpa e pertanto di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo, dall’altra parte, il lavoratore deve provare l’esistenza dell’obbligazione lavorativa, l’inadempimento del datore di lavoro e i danni conseguenza (Cass. Civ., sez. lav., 15 giugno 2017, n. 14865).
L’accertamento di tale responsabilità contrattuale va dimostrata in tutti i suoi elementi probatori e, sussistendone i presupposti, dà diritto al risarcimento del danno non patrimoniale: l’art. 2059 c.c. dispone che tale voce di danno «deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge».
Va detto, anche, con riguardo al risarcimento del danno non patrimoniale «deve rilevare come la limitata esposizione al fumo passivo (relativa solo a una frazione del turno o all’occasionale presenza nei corridoi), l’ampiezza degli ambienti interessati dal fumo (in almeno due casi su tre costituita da corridoi di sufficiente larghezza ed ampiezza) e lo stesso potere/dovere di richiedere ai detenuti l’osservanza dei divieti e delle cautele disposte dalla Direzione costituiscano ragione sufficiente per escludere che si sia verificata una compromissione della vita relazionale di tale intensità da determinare il diritto al risarcimento del danno» (T.A.R. Toscana, sez. II, 11 dicembre 2014, n. 2025).
La giurisprudenza, annota il T.A.R. Toscana cit., in materia di danno non patrimoniale ha rilevato l’impossibilità di attribuire rilevanza a comportamenti che non superino una “soglia minima di tollerabilità” (Cass. Civ., sez. VI , 12 settembre 2014, n. 19327; pen., sez. III, 12 dicembre 2013, n. 5481; T.A.R. Toscana, sez. I, 7 novembre 2013 n. 1501).
Desta stupore comprendere che ad una situazione così importante, e presente da anni, non sia possibile trovare delle soluzioni organizzative o strutturali (intese nella conformazione/progettazione degli ambienti) in grado di garantire a tutti il diritto fondamentale (un c.d. nucleo essenziale recettivo ed efficace erga omnes) alla salute, alla tutela dell’integrità psico-fisica, al diritto ad un ambiente salubre (ex art. 32 Cost.), corollario agli altri diritti inviolabili dell’uomo (ex art. 2 Cost.).
La tematica affrontata, al di là della vicenda e dei suoi profili di natura probatoria, nonché dei limiti di condanna ad un facere specifico, fa emergere di riflesso una situazione alquanto difficile dal lato squisitamente umano (cui peraltro dovrebbe anelare il c.d. bene della vita) per tutti coloro che si trovano, a vario titolo, all’interno di un ambiente di detenzione, costretti a subire il fumo passivo.
Negli «errori nella misura delle pene» BECCARIA, Dei delitti e delle pene, 1764, scriveva «Qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre volte colla più cattiva volontà ne fanno il maggior bene».
(In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati).