La sez. IV del Consiglio di Stato, con la sentenza del 3 dicembre 2020 n. 7658 (est. Lamberti), delinea i termini di una condotta censurabile in relazione alla lesione dell’immagine dell’istituzione ricoperta (caso di specie, un militare): osservazioni estensibili all’intero personale della Pubblica Amministrazione.
La questione di massima riguarda l’applicazione di una sanzione disciplinare «per aver detenuto nel proprio ufficio… dove era stato condotto un soggetto attinto da misura cautelare custodiale (e che aveva poi reso pubblica la circostanza), un cimelio riferibile al periodo fascista (“un calendario storico riferito all’epoca del fascismo”)».
L’interessato a sua difesa riferiva che il calendario «non sarebbe riferito al fascismo, ma sarebbe semplicemente “un calendario storico… dell’anno 1939”».
L’interesse della vicenda, al di là del caso trattato, concerne la legittimità di esporre nel proprio ufficio calendari o foto o immagini o oggetti, che possano ledere l’immagine dell’Amministrazione, e, più in generale, se all’interno di un ufficio pubblico, si possa personalizzare l’arredo in relazione ai propri interessi, oppure se tale sobrietà possa nuocere all’immagine della P.A., potendo limitare tali abitudini se suscettibili di ledere le aspettative di imparzialità e buon andamento che governano l’agire pubblico, ovvero la sensibilità del cittadino (come nella peculiarità del pronunciamento).
È noto che il d.P.R. n. 62/2013 all’art. 3, Principi generali, fornisce delle indicazioni comportamentali (la violazione del codice di comportamento da avvio ad un procedimento disciplinare) dei “doveri minimi” esigibili (sono obbligazioni negoziali):
- al comma uno che il dipendente osserva la Costituzione, servendo la Nazione (ex 98 Cost.) con disciplina ed onore (ex art. 54, comma 2 Cost.) e conformando la propria condotta ai principi di buon andamento e imparzialità dell’azione amministrativa (ex art. 97 Cost.), svolge i propri compiti nel rispetto della legge, perseguendo l’interesse pubblico senza abusare della posizione o dei poteri di cui è titolare, mentre:
- al terzo comma specifica che «evita situazioni e comportamenti che possano ostacolare il corretto adempimento dei compiti o nuocere agli interessi o all’immagine della pubblica amministrazione. Prerogative e poteri pubblici sono esercitati unicamente per le finalità di interesse generale per le quali sono stati conferiti»;
- al quinto comma obbliga l’astensione «da azioni arbitrarie che abbiano effetti negativi sui destinatari dell’azione amministrativa o che comportino discriminazioni basate su sesso, nazionalità, origine etnica, caratteristiche genetiche, lingua, religione o credo, convinzioni personali o politiche, appartenenza a una minoranza nazionale, disabilità, condizioni sociali o di salute, età e orientamento sessuale o su altri diversi fattori».
Nelle relazioni, in privato o con il pubblico, il cit. Codice di comportamento chiarisce:
- art. 10, Comportamento nei rapporti privati, da intendersi comprese le relazioni extralavorative con pubblici ufficiali nell’esercizio delle loro funzioni, il dipendente non abusa del proprio ruolo per fini propri (c.d. utilità indebite) e «non assume nessun altro comportamento che possa nuocere all’immagine dell’amministrazione»;
- art. 11, Comportamento in servizio, riferisce che il dipendente «utilizza il materiale o le attrezzature di cui dispone per ragioni di ufficio e i servizi telematici e telefonici dell’ufficio nel rispetto dei vincoli posti dall’amministrazione»;
- art. 12, Rapporti con il pubblico, oltre a rendersi disponibile con i cittadini, «salvo il diritto di esprimere valutazioni e diffondere informazioni a tutela dei diritti sindacali, il dipendente si astiene da dichiarazioni pubbliche offensive nei confronti dell’amministrazione».
Tutte norme finalizzate a contenere la condotta del dipendente pubblico proiettata a sviluppare azioni che aumentino la credibilità dell’istituzione e dei connessi fini.
Nelle linee guida ANAC «in materia di Codici di comportamento delle pubbliche amministrazioni», approvate con delibera n. 177 del 18 febbraio 2020, al punto 9, Contenuti dei codici di comportamento, assegna ai Codici di comportamento l’obiettivo di sviluppare «un sistema completo di valori fondamentali che siano in grado di rappresentare all’esterno quali sono gli standard che l’amministrazione richiede ai propri dipendenti e collaboratori»: un comportamento atteso del valore di lealtà (obbligo principe del dipendente, sia pubblico che privato) e di legalità.
Inoltre, nelle cit. linee guida, si raccomanda di imporre delle condotte che «mantengono la funzionalità e il decoro degli ambienti», utilizzando gli oggetti, le attrezzature e gli strumenti esclusivamente per finalità lavorative, con la correlata possibilità di imporle.
Tutte regole a presidio di un’azione amministrativa specchiata al buon andamento della P.A. di riferimento del dipendente pubblico.
Fatte queste premesse di inquadramento, analizzando la sentenza della IV sez. per ciò che interessa, si rileva il seguente fatto: «l’oggetto di censura è stato il fatto di aver dato autonomo risalto al calendario fascista, appendendolo, non già come avviene comunemente su un portacalendari insieme ad altri indistintamente, bensì in maniera isolata, ben visibile e mantenendolo ivi anche durante le operazioni di polizia giudiziaria eseguite nei confronti di un soggetto noto di area antagonista… oltretutto, il calendario in questione “mostra in copertina un’immagine ben visibile di Mussolini a mezzo busto (la cui effigie occupa circa metà della facciata) che si sopraeleva rispetto a una folla di carabinieri indistinta e raffigurati con dimensioni notevolmente inferiori rispetto a quella di Mussolini”».
Dal fatto si rileva:
- il Codice di comportamento non può riportare tutte le condotte censurabili, ovvero un’elencazione tassativa sui doveri generali;
- le norme della disciplina militare «devono essere lette alla luce … in primo luogo della carta costituzionale, fondata sui valori dell’antifascismo e di ripudio dell’ideologia autoritaria fascista”, di talché non avrebbe valenza ostativa all’irrogazione della sanzione de qua il fatto che “la condotta del -OMISSIS-non sia stata ritenuta penalmente rilevante”»;
- l’esposizione dei simboli araldici dell’Arma «avrebbe un mero “valore storico e non politico”», dovendo sempre verificare se il locale, ove tali simboli sarebbero esposti, sia accessibile al pubblico;
- la condotta censurabile non è la detenzione del calendario, quanto la sua ostensione durante le operazioni di polizia giudiziaria, rilevando che appurato il suo collegamento diretto con l’ideologia fascista, ma soprattutto «perché è l’unico calendario presente nell’ufficio: è evidente, dunque, che l’esclusiva presenza di esso nella stanza del ricorrente, lungi dal voler riferirsi in maniera neutra alla storia dell’Arma, veicola un implicito messaggio politico».
In definitiva, nel rigettare il ricorso si conferma la correttezza della sanzione applicata nella considerazione che l’Amministrazione «ha inteso stigmatizzare una condotta potenzialmente lesiva del prestigio dell’Arma presso il pubblico, in quanto atta a offuscarne l’apoliticità e l’assoluta ed esclusiva fedeltà alle Istituzioni repubblicane o, quanto meno, a consentire una strumentalizzazione in tal senso».
Il pronunciamento, al di là della sua specifica applicazione al militare, indica un dovere cogente del dipendente pubblico teso al “senso di responsabilità” e “contegno” che deve informarne – in ogni momento – la sua condotta; sicché, il dipendente pubblico (che lo distingue da quello privato, ex art. 54, comma 2 Cost.) deve uniformare il suo comportamento a questi valori di lealtà e legalità, che assurgono a «parametri generali da cui discende un vincolo di condotta, certo violato dall’esposizione, in un ufficio dell’Amministrazione aperto al pubblico (anche solo in una circostanza), di un oggetto che richiama direttamente, specificamente ed esclusivamente il passato fascista».
Un dovere di essere prima di apparire, con una condotta che deve sicuramente proiettarsi al pieno rispetto del fine pubblico (ex art. 97 Cost., imparzialità e buon andamento) ma, allo stesso tempo, deve esprimere compiutamente i valori che sono posti alla base del nostro ordinamento costituzionale, quei valori di etica pubblica «come impegno per la Comunità» che nasce dall’incontro tra l’etica e la sfera pubblica (la c.d. la moralità delle istituzioni)[1].
Un profilo “etico minimo”, un patrimonio di valori che distinguono il singolo cittadino da colui che è al «servizio esclusivo della Nazione» (ex art. 98 Cost.); precetto nato dalla volontà costituente di marcare una significativa differenza dell’organizzazione amministrativa, nel suo complesso, in chiave democratica rispetto al precedente regime fascista: si è elevato il dipendente pubblico al servizio non di una parte politica ma dell’intero Paese, con l’obiettivo di escludere ogni possibilità, anche in via astratta, di acquisire privilegi dalla politica, esprimendo la preminenza e giuridicità della doverosa realizzazione del fine pubblico[2].
Il processo valoriale postula che il dipendente pubblico, ovvero che assolve una funzione pubblica, non possa prescindere ad un comportamento diligente ed operoso, indipendentemente da una specifica previsione impositiva, ben potendosi rendersi conto, anche al di là di una analitica predeterminazione dei comportamenti vietati e delle relative sanzioni (come nella fattispecie), della illiceità della propria condotta quando viola quelle regole del c.d. “minimo etico”[3].
In effetti, il danno d’immagine è costruito proprio sulla perdita di credibilità della Pubblica Amministrazione per come percepita dal cittadino o dell’operatore economico, quale pregiudizio diretto da cui deriva la violazione dei doveri funzionali di probità, correttezza e fedeltà, gravanti sui pubblici ufficiali e, conseguentemente, dalla lesione inferta al bene giuridico costituito dal “buon andamento” e “imparzialità” della Pubblica Amministrazione, oggetto di tutela costituzionale: quei valori e diritti fondamentali che definiscono l’identità stessa della Repubblica Italiana e dell’Unione Europea[4].
Il proprio ufficio del pubblico dipendente, la sede di lavoro aperta al pubblico, deve essere rispettosa di tutti i valori che gemmano dall’ordinamento giuridico, non potendo esprimere quei pensieri, che seppure leciti, possano alterare la sensibilità del singolo, soprattutto ove si alimenti o si esponga platealmente segni distintivi (o calendari) che si pongono in contrasto con i valori costituzionali e fondamenta dello Stato democratico, ovvero con il regolamento fondamentale (una sorta di Grundnorm) che stabilisce il modo in cui l’Autorità pubblica deve essere esercitata (escludendo, anche dalla costituzione materiale, ogni forma di dittatura, autoritarismo o violenza).
A ben vedere, un’esigenza pratica che non ricorre nei casi in cui la gravità assoluta derivi dal contrasto con il predetto “minimo etico”: non serve pretendere una norma regolamentare o comportamentale specifica ed espressa proprio perché il lavoratore pubblico, in tali evenienze (nelle condotte palesemente ingiustificabili), non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere, sia in servizio che fuori servizio[5].
[1] PATRONI GRIFFI, Etica pubblica come impegno nella comunità, giustizia-amministrativa.it, 2019.
[2] BARTOLE – BIN, Commentario breve alla Costituzione, Padova, 2008.
[3] Cass. civ., sez. lavoro, Sent., 7 novembre 2019, n. 28741.
[4] Cfr. Corte Conti, Appello sez. I, 4 febbraio 2016, n. 63 e Corte Conti, sez. giur. Siciliana, 22 maggio 2019, n. 375.
[5] Cass. civ., 3 ottobre 2013, n. 13906 e 3 ottobre 2003, n. 22626.