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Articolo Pubblicato il 11 Luglio, 2024

I limiti della libertà di espressione dell’influencer pubblico

I limiti della libertà di espressione dell’influencer pubblico

La sez. I del Consiglio di Stato, con parere n. 827 del 27 giugno 2024, interviene sulla legittimità di una sanzione disciplinare (sospensione per la durata di dodici mesi) relativa ad una condotta di un militare influencer che ha esorbitato i limiti di continenza e pertinenza nell’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero (ex art. 21 Cost.), pubblicando on line video diffamatori[1].

Il dovere di lealtà

La vicenda presenta un interesse generale (pur nella specificità dell’ordinamento militare), affrontando i canoni di liceità con i quali si può esprimere un giudizio, quando chi lo esprime appartiene (è alle dipendenze) di un’organizzazione pubblica, nel senso che risulta dipendente di una PA, in relazione anche alle regole generali del DPR n. 62 del 2013, dove al secondo comma dell’art. 11 ter, Utilizzo dei mezzi di informazione e dei social media, si postula che «in ogni caso il dipendente è tenuto ad astenersi da qualsiasi intervento o commento che possa nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale»[2].

Una norma che descrive un vincolo di condotta, applicabile a tutte le organizzazioni e che rientra nei rapporti di lealtà/fedeltà con il proprio datore di lavoro, dove le critiche sono ammesse purché non si trasformino in mero insulto alla sua reputazione: uno sconfinamento di natura denigratorio, avulso da una rappresentazione veritiera del tema sul quale si intenda manifestare il proprio giudizio.

In dipendenza di ciò, l’esercizio del diritto di critica, costituzionalmente tutelato, incontra, all’interno del rapporto di lavoro, limiti non dissimili da quelli previsti in generale per la manifestazione del pensiero, e cioè quello della continenza formale, attinente il modo di esposizione del pensiero critico, e della continenza sostanziale, attinente la veridicità, pur valutata secondo il parametro soggettivo della verità percepita dall’autore, dei fatti denunciati[3].

Fatto

L’oggetto della controversia è riferito all’applicazione di una sanzione per aver pubblicato sui social media (sito di un’associazione, di cui era presidente, e sulla piattaforma youtube) alcune affermazioni nei confronti dei superiori, e dopo una prima “archiviazione” (riferita a primi tre video, nei quali appariva con voce contraffatta e maschera “anonymus”), in concomitanza degli eventi, seguiva ulteriore apparizione video (in divisa), con il quale si segnalava la presentazione di una proposta di legge (era il periodo pandemico) per garantire uno scudo di immunità dei vertici militari «“rei di aver causato il contagio al loro personale” come conseguenza “di ordini coscientemente errati”, i quali avrebbero così potuto “liberamente e seriamente emanare ordini in violazione delle norme di prevenzione dei contagi e provocare con tale razionale comportamento il contagio al proprio personale dipendente senza pagarne le conseguenze”», aggiungendo altre affermazioni di soprusi e ingiustizia in un contesto di estesa omertà.

Il procedimento avviato e concluso con l’applicazione della sanzione era riconducibile alla gravità dei fatti: la divulgazione di messaggi contenenti affermazioni screditanti i superiori gerarchici (la catena di comando, tipica dei vertici militari, dove la gerarchia segna le funzioni e le competenze) attraverso l’uso dello strumento informatico.

L’interessato evidenziava, a propria difesa, il legittimo diritto di critica, satira e libertà di espressione[4], rappresentando situazioni realmente esistenti nell’ambito delle forze armate (dunque, notorie), con l’intento di migliorare l’ambiente, senza alcuna intenzione diffamatoria pur in presenza di espressioni “vive”.

Merito

La sezione esprime il parere che il ricorso debba essere respinto, fornendo una serie di elementi utili a comprendere il bilanciamento della libertà di espressione e quando questa va oltre i canoni del diritto di critica, trasmodando in deliberate offese.

Nello scrutinare i messaggi (rectius condotta) si è appurato che gli addebiti, ossia le presunte colpe, non erano assolutamente generici/che, quanto puntuali attribuzioni di responsabilità in capo ai vertici militari, rilevando che le modalità di veicolare il messaggio (camuffamento del viso, voce contraffatta, uso dell’uniforme, utilizzo delle caricature animate) confermava l’intento (coscientemente) denigratorio.

In termini diversi, le esternazioni dell’influencer in rete non potevano essere in alcun modo ricondotte al corretto esercizio del diritto di critica, in applicazione dell’art. 21 Cost.:

  • il diritto di critica, riconosciuto anche agli appartenenti delle Forze Armate (militari), trova un proprio limite intrinseco, presente per tutte le categorie di personale pubblico, «nella necessità che le espressioni usate, in relazione al costume sociale ed alle modalità comunicative normalmente usate, non solo non integrino una lesione penalmente rilevante di altre posizioni giuridiche, ma – nei contesti sociali per i quali vige una disciplina comportamentale più rigorosa… siano continenti, ovvero esternate con modalità tali da non travalicare i principi di correttezza stabiliti dalla normativa in materia disciplinare»[5];
  • la finalità di critica non può costituire una causa di giustificazione quando esorbita il principio di continenza particolarmente rigorosa del linguaggio e dei toni, soprattutto nei confronti di chi è tenuto alla disciplina militare, ex comma 3 dell’art. 98 Cost.[6], dove – in ogni caso – l’eccesso può essere censurato;
  • deve essere esclusa una commistione fra il pensiero espresso ed il ruolo ricoperto, dovendo manifestarsi sia direttamente che indirettamente in modo neutro (l’aver usato la divisa, ad esempio, risulta ex se elemento di addebito);
  • la legittimità dell’esercizio del diritto di critica deve sempre porsi entro i consueti canoni costituzionali sostanzialmente riconducibili al rispetto della continenza[7], ossia del linguaggio appropriato, corretto e sereno, della pertinenza, ovvero dell’esistenza di un pubblico interesse alla conoscenza del fatto, della veridicità, cioè della corrispondenza tra fatti avvenuti e riferiti, non potendo attribuire condotte riprovevoli in assenza di prove (c.d. precisi riscontri) o alterando la realtà, con espressioni lesive dell’altrui reputazione, cagionando inesorabilmente una lesione al clima di fiducia risposto nelle Istituzioni (c.d. lesione all’immagine)[8].

Libertà di critica e principio di continenza

Si comprende, dalla lettura dell’articolato parere, che l’inevitabilità del collegamento alla critica scrimina l’offesa, che sarebbe illecita, ma solo nei limiti in cui essa è indispensabile per l’esercizio del diritto costituzionalmente garantito, sicché rimangono sempre punibili quelle espressioni che la giurisprudenza definisce “gratuite”, nel senso di non necessarie all’esercizio del diritto, in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti: quello che rileva, quindi, non è la maggiore o minore aggressività dell’espressione o l’asprezza dei toni (c.d. forti), ciò che determina l’abuso del diritto è la gratuità delle aggressioni non pertinenti ai temi apparentemente in discussione, trasformandosi in aperte offese per creare scandalo o disapprovazione pubblica[9].

L’approdo porta a ritenere che l’esimente del diritto di critica esige una forma espositiva corretta, strettamente funzionale alla finalità di disapprovazione, e che non trasmodi nella gratuita ed immotivata aggressione dell’altrui reputazione, sebbene essa non vieti l’utilizzo di termini che, pur se oggettivamente offensivi ed aspri, hanno anche il significato di mero giudizio critico negativo di cui si deve tenere conto alla luce del complessivo contesto in cui il termine viene utilizzato.

Descritto con parole diverse, va valutata la sussistenza del requisito della continenza e, ai fini della verifica della sussistenza del reato di diffamazione, nella valutazione di detto presupposto necessario ai fini del legittimo esercizio del diritto di critica, si deve tenere conto del complessivo contesto dialettico in cui si realizza la condotta e verificare se i toni utilizzati dall’agente, pur se aspri, forti e sferzanti, non siano meramente gratuiti, ma siano, invece, pertinenti al tema in discussione e proporzionati al fatto narrato ed al concetto da esprimere[10].

Medesime considerazioni possono mutuarsi per il legittimo esercizio del diritto di critica politica dove la diffusione di giudizi negativi circa condotte biasimevoli poste in essere da amministratori pubblici, sono esenti da censure purché la critica prenda spunto da una notizia vera, si connoti di pubblico interesse e non trascenda in un attacco personale, addebitando gravi fatti, senza indicare alcun elemento specifico dal quale si possa assumere che gli stessi fossero veri, almeno sul piano putativo, e trascendendo, comunque, ogni limite di continenza espressiva[11].

La valutazione della sanzione

Il parere termina, osservando che la valutazione della sanzione in ordine alla gravità dei fatti addebitati costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità, salvo che in ipotesi di eccesso di potere, nelle sue varie forme sintomatiche, quali la manifesta illogicità, la manifesta irragionevolezza, l’evidente sproporzionalità e il travisamento: spetta all’Amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l’infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità[12].

Osservazioni

Il parere affronta un tema sulla libertà di espressione estensibile a tutti coloro che prestano un’attività lavorativa, specie se pubblica, dove formulare critiche non è vietato, quello che risulta vietato (anche usando il buon senso, o l’ordinaria media diligenza) sono l’utilizzo di modalità e termini che contraddicono la volontà di migliorare il benessere generale (con espressioni iconiche del tipo “per il tuo bene” o “lo dice la scienza”), quell’ostinata volontà di confondere il giusto con l’ingiusto, con la tendenza ad apparire i liberatori o benefattori (senza cachet).

Un costume usato (a volte, rare volte) dagli influencer che nell’intento di tutelare determinate categorie (da ricomprendere popoli e nazioni), seminano l’odio, classificando alcuni con espressioni infamanti, invocando la libertà di pensiero e la libertà della rete, per poi formulare difese accusando (di essere fraintesi), perpetrando il venticello, nell’allegoria, a tempera su tavola, di BOTTICELLI.

I canoni della continenza, insiti nel diritto di critica, possono essere assimilati ai criteri di temperanza, evitando modi e linguaggi aggressivi, dove più si offende il prossimo più si ritiene di avere ragione, di essere dalla parte del giusto (quella schiera di maestri del costume, del c.d. politically correct), in non apparente antitesi con l’etica della virtù, già descritta in ARISTOTELE.

(pubblicato, lentepubblica.it, 10 luglio 2024)

[1] Un commento offensivo nei confronti della parte datrice di lavoro diffuso su Facebook, pubblicazione di post sul profilo personale, è idoneo a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone, potendo integrare gli estremi della diffamazione e costituire giusta causa di recesso, siccome idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, Cass. civ., sez. lavoro, 13 ottobre 2021, n. 27939.

[2] Vedi, LUCCA, Sanzione disciplinare per la pubblicazione di un video in WhatsApp, lentepubblica.it, 15 dicembre 2023, ove si rilevava che le attività social esigono un giusto bilanciamento tra espressione del proprio pensiero, sempre da garantire, e identità personale (modo di vivere), dove gli eccessi o le condotte prestazionali (quelle che si distinguono nell’ansia c.d. prestazionale di numero di visioni/accessi al profilo) seguono delle regole (negoziali) determinate per non entrare in conflitto di interessi con l’Amministrazione di appartenenza: pensare di violare le regole nella vita privata e pretendere in quella pubblica di farle rispettare dimostra tutti i limiti di quella insensibilità di giudizio che coincide con la violazione del c.d. minimo etico.

[3] Cass. civ., sez. lavoro, 10 luglio 2018, n. 18176.

[4] La satira – estrinsecazione del diritto di critica attraverso l’enfatizzazione e la deformazione della realtà – è sottratta al requisito di verità, in quanto esprime un giudizio ironico su un fatto con l’inverosimiglianza e l’iperbole e anche attraverso l’uso di espressioni o immagini lesive dell’altrui reputazione, pur rimanendo assoggettata al limite della continenza e della funzionalità al perseguito scopo di denuncia sociale o politica, da valutare in relazione alla rilevanza dell’interesse del pubblico all’esposizione del fatto con tale forma, ovvero alla dimensione pubblica della vicenda o alla notorietà delle persone colpite, Cass. civ., sez. III, Ordinanza, 14 marzo 2024, n. 6960.

[5] Le clausole generali finalizzate alla salvaguardia del prestigio delle Forze Armate e al rispetto delle norme che regolano la civile convivenza si traducono, in concreto, in un vincolo di condotta a carico del militare, Cons. Stato, sez. IV, 3 dicembre 2020, n.7658. Le forze armate sono regolate da un complesso di norme e principi (che gli appartenenti si obbligano ad osservare) i quali, in virtù di pubblici interessi ed in quanto rivolti a soggetti cui si chiede una disciplina “speciale”, possono trovare del tutto legittimamente un’applicazione in senso compressivo di alcuni profili di libertà comportamentale, Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2014, n. 1609.

[6] Le Forze Armate sono regolate da un complesso di norme e principi (che gli appartenenti si obbligano ad osservare) i quali, in virtù di pubblici interessi ed in quanto rivolti a soggetti cui si chiede una disciplina “speciale”, possono trovare del tutto legittimamente un’applicazione in senso compressivo di alcuni profili di libertà comportamentale, Cons. Stato, sez. IV, 7 aprile 2014, n. 1609.

[7] L’esposto inviato all’ordine di appartenenza, per segnalare comportamenti deontologicamente scorretti da parte di un collega, non integra il reato di diffamazione se le dichiarazioni contenute nell’esposto sono circostanziate e documentate, e vengono espresse con continenza espositiva, Cass. pen., sez. V, 2 febbraio 2024, n. 23566.

[8] Cass. civ., sez. VI, 3 dicembre 2021, n. 38215.

[9] Cass. pen., sez. V, sentenza n. 4853/2017.

[10] Cass. pen., sez. V, 27 settembre 2023, n. 788.

[11] Cass. pen., sez. V, 28 marzo 2024, n. 17326.

[12] Con. Stato, sez. IV, 26 febbraio 2019, n. 1344 e sez. VI, 20 aprile 2017, n. 1858.