Il contratto di transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra loro (ex art. 1965 c.c.).
Le parti per transigere legittimamente devono avere la capacità di disporre dei diritti che formano oggetto della lite atteso che se tali diritti, per loro natura o per espressa disposizione di legge, sono sottratti alla disponibilità delle parti la transazione è nulla[1].
La struttura del contratto (tipico) è di scambio e a carattere oneroso richiedendo, in ogni caso ex lege, la forma scritta ad substantiam [2], questo al fine di permettere l’identificazione esatta del contratto e l’attività di controllo da parte degli organi a tanto preposti[3].
La natura giuridica della transazione presuppone che le parti si trovino in posizioni contrapposte ponendo in essere reciproche concessioni che possono creare, modificare o estinguere anche rapporti diversi da quello che ha formato oggetto della pretesa e della contestazione delle parti (transazione mista) ed è pertanto un negozio dispositivo e non di accertamento.
La res litigiosa può sfociare in una lite giudiziale e in mancanza di una situazione attuale o potenziale di conflitto viene meno la funzione tipica del negozio, pretendendo che la res non sia solo litigiosa ma anche dubia: non è necessario che le rispettive tesi delle parti abbiano assunto la determinatezza propria della pretesa, essendo sufficiente l’esistenza di un dissenso potenziale, anche se ancora da definire nei più precisi termini di una lite e non di esteriorizzata in una rigorosa formulazione[4].
L’oggetto della transazione se in un primo momento, la giurisprudenza[5] considerava non il rapporto o la situazione giuridica cui si riferisce le discordanti valutazione delle parti, ma la lite cui questa ha dato luogo o può dar luogo, e che le parti intendono eliminare mediante reciproche concessioni; successivamente si è assestata nel ritenere che l’oggetto sia la situazione giuridica controversa, cioè la cosa o il comportamento su cui vertono la pretesa e la contestazione delle parti con la precisazione che, poiché la transazione non importa una violazione retrospettiva, come invece nel contratto di accertamento, esso va considerato essenzialmente sul piano della situazione che alla transazione medesima consegue[6].
In questa dinamica, l’accertamento ex post dell’assoluta infondatezza di una delle due contrapposte pretese non incide sul presupposto della res dubia quale elemento integratore della transazione, essendo sufficiente per l’esistenza di tale presupposto, che sorga un conflitto tra discordanti e incompatibili valutazioni di interessi e pretese.
La transazione è valida, quindi, in presenza di una situazione di incertezza e solo se ha ad oggetto diritti disponibili (ex art 1966, co 2 cc) e cioè quando le parti hanno il potere di estinguere il diritto in forma negoziale, essendo dotati non solo di capacità giuridica ma anche di legittimazione, intesa come potere di agire in ordine ai rapporti sui quali incide la transazione[7]: “nell’esercizio di un potere pubblicistico che non può sottrarsi al quadro delle regole proprie della spendita di detto potere e perciò oggetto di negoziazione e di formalizzazione nel successivo provvedimento non può essere una illimitata gamma di scelte discrezionali da parte dell’amministrazione, ma solo l’individuazione di una fra più soluzioni comunque idonee ad azionare il soddisfacimento dell’interesse pubblico”[8].
(Estratto, Il contratto di transazione con schema negoziale, I contratti dello Stato e degli Enti pubblici, 2013, n.4)
[1] Si è ritenuto esattamente che è nulla di pieno diritto la transazione avente ad oggetto la determinazione dell’orario di servizio e del trattamento economico spettanti al dipendente, entrambi definiti e correlati per legge alla qualifica e alle funzioni formalmente a quello attribuite, T.A.R. Veneto, 28 novembre 1998, n. 2334.
[2] Il contratto va trascritto quando ha per oggetto una controversia sui diritti individuati dall’articolo 2643 c.c. (numero 13).
[3] La forma scritta costituisce requisito ad substantiam del contratto concluso con la P.A.
[4] Cass. Civ., sez. III. 16 luglio 2003, n. 11142.
[5] Cass. Civ., sez. I. 6 ottobre 1999, n. 11117.
[6] Cass. Civ., sez. III. 36 aprile 2003, n. 5139.
[7] È ovvio che l’amministrazione, nell’usare del diritto privato, ad es. nel concludere transazioni, non si trova nella stessa posizione del privato che può disporre liberamente del suo patrimonio, ma deve rispettare le regole del diritto pubblico (art. 11 cod. civ. secondo cui le province ed i comuni nonché gli enti pubblici riconosciuti come persone giuridiche pubbliche godono dei diritti secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico), cfr. Cons. Stato, sez. VI, sentenza n.5365/2004.
[8] Corte Conti, sez. reg. controllo Lombardia, Deliberazione n. 26/2008.