L’Amministrazione a fronte di condotte negligenti o imprudenti, può essere chiamata al risarcimento del danno, ovvero a rifondere le spese legali (di condanna) in un procedimento giudiziario, qualora risultasse soccombente, donde la ripetizione a carico del responsabile, attraverso l’azione della procura erariale.
Il fatto
La sez. giurisdizionale Umbria della Corte dei conti, con sentenza n. 81 del 23 novembre 2023, condanna un dipendente pubblico per gli esborsi economici a carico del Comune in relazione alle spese legali sostenute dall’Amministrazione dovuti al rilascio di titoli edilizi (sempre con il medesimo fine) poi annullati (in più casi) e del conseguente “danno da disservizio” (una percentuale pari al cinque per cento dello stipendio), attinente all’attività istruttoria e alle risorse amministrative impiegate nel confezionare provvedimenti dichiarati illegittimi (colpa grave nell’invito a dedurre, poi dolo in via principale nella citazione).
La condotta
Il giudice erariale, dopo un’analisi degli atti annullati – in serie consequenziale – in tutte le sedi (prime e seconde cure), non può che dedurre una condotta illecita nella continuazione (reiterazione) della medesima scelta amministrativa, nonostante le statuizioni del giudice amministrativo e nonostante la consapevolezza che si sarebbe potuto generare un sensibile incremento dei costi e ad un inutile spreco di risorse.
La gravità di questa condotta va ben oltre la mera colpa (si configura come gravemente colposa ed oltre), in quanto pur in presenza di sentenze sfavorevoli verso l’Amministrazione, il convenuto ha ripetutamente e deliberatamente perseverato nella stessa scelta, ponendo scientemente in essere (vanamente) diverse iniziative preordinate a ripetere quanto censurato dal giudice (fatto incontestabile), dimostrando, così facendo, di non comprendere le irregolarità emerse, quasi a qualificarsi come una elusione di giudicato[1].
Questa manifesta consapevolezza nel continuare a proporre atti amministrativi annullati, dimostra la componente soggettiva del dolo, ossia la piena consapevolezza degli incrementi dei costi e dello spreco assolutamente evitabile di risorse pubbliche, quando l’apporto procedimentale (delle sentenze) conduca a ritenere che le soluzioni legittime non siano quelle perseguite nel caso concreto.
Danno da disservizio o da lesione del nesso sinallagmatico
È noto che il danno da disservizio (o danno da mancata resa del servizio) deriva dalla rottura del sinallagma che correla il corrispettivo alla prestazione, poiché il dipendente, con la propria condotta agisce in modo contrario rispetto a quelli che sono i compiti di diligenza (ex art. 2104 c.c.) e fedeltà (ex art. 2105 c.c.) per i quali viene prevista la retribuzione, che, pertanto, finisce per essere stata indebitamente percepita, dovendosi ritenere inadempiente per tutto il tempo di mantenimento della condotta censurata, contraria al buon andamento dell’azione amministrativa[2].
Invero, sia il contratto di lavoro che il codice di comportamento (ex art. 3, Principi generali, del DPR n. 62/2013) impone il rispetto di determinati obblighi la cui violazione comporta una serie di responsabilità: «la violazione degli obblighi previsti dal Codice integra comportamenti contrari ai doveri d’ufficio… dà luogo anche a responsabilità penale, civile, amministrativa o contabile del pubblico dipendente, essa è fonte di responsabilità» (art. 16 del cit. DPR).
Va aggiunto che il dovere di fedeltà, letto in rapporto ai più generali canoni di correttezza e buona fede, ex artt. 1175 e 1375 c.c., coniugati dal comma 2 bis dell’art. 1 della legge n. 241/1990, a fronte del quale il comportamento del lavoratore pubblico in violazione di detti obblighi di protezione e contrario ai doveri derivanti dal suo inserimento nell’organizzazione imprenditoriale, quella della PA, è idoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario in quanto sussumibile nell’ambito della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo di licenziamento (a margine, si potrebbe anche vedere dei riflessi disciplinari).
In altri termini, può sussistere il danno da disservizio allorché l’azione non raggiunge, sotto il profilo qualitativo, quelle utilità ordinariamente ritraibili dall’impiego di determinate risorse, così da determinare uno spreco delle stesse: si tratta, quindi, di un pregiudizio effettivo, concreto ed attuale, che coincide con il maggiore costo del servizio, nella misura in cui questo si riveli inutile per l’utenza o per lo stesso datore pubblico.
Il caso, nella sua essenzialità, risulta afferente alla consapevolezza di perpetrare (reiterare sistematicamente) una condotta illegittima pur in presenza di più pronunciamenti giudiziali, acclara nella sua vividezza un danno da alterazione del nesso sinallagmatico: una rottura dall’obbligo di diligenza (ex art. 97 Cost.) consistente nell’effetto dannoso causato all’organizzazione e allo svolgimento dell’attività amministrativa dal comportamento illecito mantenuto, impedendo il conseguimento della attesa legalità dell’azione pubblica, con effetti diretti sull’inefficienza dell’azione amministrativa, quanto nel momento procedimentale che quello del risultato finale (sono i canoni di efficienza, economicità, produttività ed efficacia da considerarsi un vero e proprio bene del patrimonio della Pubblica Amministrazione)[3].
Tale figura di danno, di origine pretoria, deriva dalla distrazione delle energie lavorative del dipendente dai suoi compiti istituzionali, verso attività di carattere illecito, con la conseguente disutilità della relativa spesa sostenuta dalla PA, si associ, dunque, ad una condotta dolosa o gravemente colposa, commissiva o omissiva, in grado di determinare nei suoi effetti pratici un mancato raggiungimento delle utilità che erano state previste nella misura e qualità ordinariamente ritraibile dalla quantità delle risorse investite, oppure in maggiori costi dovuti a spreco di risorse economiche o nella mancata utilità percepibile dalle somme spese, a ragione della disorganizzazione del servizio o di un’azione del tutto contraria alle regole procedimentali, da includere tutti gli apporti istruttori, specie se qualificati (come quelli del giudice).
L’approdo valoriale induce a ritenere che quando il dipendente pubblico agisca non in favore ma in pregiudizio del datore di lavoro pubblico deteriora il nesso sinallagmatico tra le prestazioni lavorative e la retribuzione, che diventa in tutto o in parte priva di causa[4].
Più propriamente, il giudice erariale intende discostarsi dalla figura del “danno da disservizio”, allorquando l’azione non raggiunta, sotto il profilo qualitativo, quelle utilità ordinariamente esigibili dall’impiego di determinate risorse, così da determinare uno spreco delle stesse[5], quanto più aderente (in situazioni similari) al danno “da lesione del nesso sinallagmatico”.
Infatti, il danno da disservizio viene inteso, invece, quale costo aggiuntivo sostenuto dall’Amministrazione danneggiata per il ripristino della legalità, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio, necessario qualora l’illecito si rilevi idoneo a distogliere per il perseguimento dei fini istituzionali, rendendo necessaria la loro concentrazione per sanzionare i dipendenti e ripristinare la regolarità del funzionamento dell’ufficio[6].
Il quadro fattuale del caso trattato si presenta diverso atteso che gli effetti correlati alla condotta appartengono alla violazione delle regole procedimentali, riproponendo atti viziati, senza una voluta (la c.d. negligenza) consapevolezza di ostinarsi ad errare, affrontando il ricorso (ripetuto) al GA con l’inevitabile condanna (certa, anche come rappresentazione, intenzionalità).
Si perviene alla conclusione che la condotta taglia il nesso sinallagmatico, sotto l’aspetto del disservizio di cui una componente di danno si presenta pari alle spese legali sostenute (in quota parte rispetto alle altre persone che hanno concorso al danno, non evocate in giudizio), nonché il cinque per cento degli emolumenti percepiti per il periodo considerato (ultimo quinquennio).
In altra circostanza[7], un responsabile dell’Ufficio tecnico comunale veniva condannato alle spese sostenute dall’Ente in sede di soccombenza, avendo rilasciato titoli edilizi senza effettuare i dovuti controlli necessari per accertare la titolarità dei diritti sui beni oggetto di procedimento, limitandosi solo alle indicazioni informali fornite da abitanti siti nelle vicinanze, senza procedere ad ulteriori riscontri documentali al fine di verificare la fondatezza di tali informazioni: una negligente inerzia[8].
Indicazioni operative
Per quanto esposto, si può argomentare che il danno da disservizio va inquadrato come una figura di sintesi di una serie di condotte colpevolmente disfunzionali che incidono sulla qualità del servizio, oltre che sulla sua materiale esecuzione, dove quello che appare subito in chiaro è la consapevole negligenza nel rendere la prestazione, senza seguire le ordinarie regole comportamentali.
In tale dimensione prospettica, la giurisprudenza ha individuato una serie di figure sintomatiche tipiche di danno da disservizio[9]:
- il danno da mancata resa del servizio;
- il danno da disservizio in senso stretto, che si verifica quando il servizio non è conforme alle sue qualità essenziali;
- il danno per ulteriori costi sostenuti per il recupero e ripristino della legalità, del servizio o della funzione, per esempio legati allo svolgimento di verifiche e controlli straordinari volti all’accertamento dell’illecito erariale[10].
A fronte di questo genere articolato di responsabilità, onde evitare di essere “chiamati” a rispondere, senza ancorarsi alla c.d. paura della firma, si dovrà effettuare un’attività istruttoria che tenga in considerazione tutti gli aspetti, partendo dalle memorie (i c.d. apporti collaborativi, ex art. 10 della legge 241/1990)[11] ai pareri esterni, ed inevitabilmente ai pronunciamenti del giudice, soprattutto quando riferiti alla stessa istruttoria, ossia al contenuto dispositivo dell’atto controverso, diversamente non si può affidarsi all’errore interpretativo (a tacer d’altro).
Ulteriore profilo
La sentenza induce un ulteriore profilo di esplorazione quando il RUP non tiene in considerazione gli apporti partecipativi che hanno una funzione elettiva (nel senso più intimo e nobile del termine, di elevare in alto il ragionamento amministrativo), quale quella di far conoscere al responsabile del procedimento le ragioni fattuali e giuridiche dell’interessato (il soggetto destinatario dell’atto, anche il controinteressato) che potrebbero contribuire a far assumere una diversa determinazione finale, derivante dalla ponderazione di tutti gli interessi in gioco[12]: una fase endoprocedimentale nella quale sono ancora potenzialmente aperte tutte le possibili opzioni, con lo scopo di evitare che l’intervento assunto assolva un ruolo pressoché esclusivamente formale senza alcuna reale incidenza, sia sull’eventuale istruttoria da espletare sia sull’individuazione degli interessi pubblici e privati coinvolti[13].
La lesione dell’aspettativa (da includere la vulnerazione delle garanzie partecipative)[14] può configurarsi non solo in caso di atto legittimo, ma anche nel caso di atto illegittimo, poi annullato in sede giurisdizionale, dove il beneficiario confidava in un esito positivo, maturando un’aspettativa ragionevole alla sua stabilità, che può essere ingiustamente lesa per effetto dell’annullamento in sede giurisdizionale, donde la sua violazione può costituire fonte di responsabilità della PA, non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica surrichiamati ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi (da cui il pagamento delle spese legali, quanto meno).
Questo, tuttavia, non esclude o vanifica l’interesse dell’Amministrazione a sostenere (con un processo ponderato di valutazioni giuridiche di affrontare la lite, purché non appaia temeraria)[15] i propri atti di fronte al giudice, osservando che in mancanza dei presupposti dell’autotutela, la reiterazione delle condotte illegittime a fronte di un giudicato elide (censura, nei termini indicati) ogni forzatura nel decidere di (ri)esercitare un potere già dichiarato infondato.
Detto in parole più semplici, le plurime condanne conseguite dall’Amministrazione per la questione in commento dimostrano, qualora ve ne fosse bisogno, la condotta negligente (dolosa) del responsabile che ha disatteso le disposizioni del giudice amministrativo, causando il danno contestato.
(Pubblicato, dirittodeiservizipubblici.it, 6 dicembre 2023)
[1] Questo si presenta nel caso in cui dal giudicato scaturisca un obbligo così puntuale da non lasciare margini di discrezionalità in sede di rinnovazione del potere amministrativo, TAR Sicilia, Palermo, sez. I, 17 luglio 2023, n. 2341.
[2] Corte conti, sez. giur. Veneto, 8 luglio 2021, n. 173.
[3] Corte conti, sez. giur. Marche, 15 febbraio 2018, n. 11.
[4] Corte conti, sez. III App., 26 settembre 2017, n. 4791.
[5] Corte conti, sez. III App., 16 gennaio 2017, n. 21 e 15 giugno 2017, n. 301.
[6] Corte conti, sez. giur. II, 24 febbraio 2020, n. 43.
[7] Cfr. Corte conti, sez. giur. Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 200/2021, riferita al danno patrimoniale subito dall’Ente locale di soccombenza per un procedimento di diniego del diritto di accesso.
[8] Corte conti, sez. giur. Sardegna, 17 ottobre 2014, n. 205.
[9] Corte conti, sez. I App., 13 gennaio 2023, n. 9.
[10] Corte conti, sez. III, giur. App., 30 dicembre 2020, n. 239.
[11] Una norma di ordine generale, quella dell’art. 10, comma 1, lett. b), della legge n. 241 del 1990, a mente del quale gli interessati hanno diritto di presentare memorie scritte e documenti che l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento, TAR Lazio, Roma, sez. I, 20 settembre 2017, n. 9864.
[12] Cons. Stato, sez. II, 14 marzo 2022, n. 1790.
[13] Cons. Stato, sez. V, 5 giugno 1997, n. 603 e 2 febbraio 1996, n. 132.
[14] Cfr. TAR Campania, Salerno, sez. II, 23 novembre 2023, n. 2704.
[15] La decisione di resistere a un contenzioso promosso dal destinatario di un provvedimento amministrativo, rilevatosi palesemente illegittimo nel giudizio innanzi al GA, è fonte di responsabilità erariale, Corte conti, sez. giur. Lombardia, 20 settembre 2016, n. 154.