Una qualche premessa impone di soffermarsi sulla “digitalizzazione”, intesa nel suo aspetto organizzativo e produttivo del processo di sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ad uso della Pubblica Amministrazione (P.A.), capace di aumentare l’integrazione dei servizi fra le diverse Amministrazioni e l’interazione degli utenti (facilitando l’accesso ai dati), con lo scopo dichiarato (secondo il Piano Triennale per l’informatica 2019 – 2021 che indica le linee di azione per promuovere la trasformazione digitale del settore pubblico e della P.A.) di puntare su qualità e standardizzazione dei dati, agevolando lo sviluppo e la diffusione degli open data e della API economy, non può prescindere dal bilanciamento delle relazioni tra “trasparenza” e “tutela dei dati personali”, ove la sicurezza (sul trattamento e la profilazione) assume una funzione di garanzia e tutela della persona e delle sue libertà.
Il Codice dell’Amministrazione Digitale (c.d. CAD, ex D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82), nel definire la cittadinanza digitale e il diritto all’uso delle connesse tecnologie, intende realizzare gli obiettivi di efficienza, efficacia, economicità, imparzialità, trasparenza, semplificazione e partecipazione, nel rispetto dei principi di uguaglianza e di non discriminazione, dei cittadini alla vita pubblica (alias procedimento amministrativo informatizzato), affermando all’art. 20, comma 1 bis che il documento informatico soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del Codice civile, quando vi è apposta una firma digitale (o altro tipo di firma elettronica rispettosa dei requisiti fissati dall’AgID), con l’evidente volontà di allargare e coprire – con la digitalizzazione procedimentale (anche processuale) e la connettività (tecnologia 5G, aumento di velocità download e upload) – i rapporti sociali/economici e giuridici.
Nell’ordinamento giuridico la traslazione dall’analogico al digitale segna le politiche pubbliche, rilevando che l’efficientamento della P.A. porta a promuovere forzatamente l’informatizzazione (senza un parallelo investimento in formazione e sicurezza), affidando anche alle impronte digitali e/o alla scannerizzazione dell’iride il controllo della presenza in servizio del dipendente pubblico, con una certa alterazione e insofferenza rispetto al principio di proporzionalità/necessità indicato nel Regolamento UE 679/2016 (GDPR), e che dovrebbe governare il bilanciamento tra diritti, libertà e altri beni giuridici primari.
Una prova evidente di tale discrasia si può rinvenire nella sentenza della Corte Costituzionale n. 20 del 21 febbraio 2019, che nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1 bis, del Decreto Legislativo 14 marzo 2013, n. 33 «Riordino della disciplina riguardante il diritto di accesso civico e gli obblighi di pubblicità, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni» (c.d. decreto Trasparenza) segnala che l’accesso alle informazioni e all’utilizzo delle risorse pubbliche da parte di chiunque non giustifica un totale controllo della vita privata del dipendente pubblico e delle sue relazioni familiari che esulano da qualsiasi collegamento con il lavoro svolto alle dipendenze della P.A.: piena legittimità per la conoscenza dei compensi collegati alla funzione estesa a tutti i dirigenti, «non così per gli altri dati relativi ai redditi e al patrimonio personali, la cui pubblicazione era imposta, senza alcuna distinzione, per tutti i titolari di incarichi dirigenziali».
Vi è un limite alla trasparenza/trattamento on line dei dati personali, riferiti ai redditi dei dirigenti pubblici, non potendo estendere l’accesso civico in modo sproporzionato e non pertinente se non compromettendo inesorabilmente la riservatezza del singolo (intesa come sfera inviolabile della vita privata).
Ciò posto, la prima sez. del T.A.R. Liguria, con la sentenza n. 11 del 3 gennaio 2019, interviene sulla validità o meno di una decisione provvedimentale espressa mediante un tweet.
Nel caso di specie, un Comune richiedeva il risarcimento dei danni patiti per un ritardo (605 giorni) nella realizzazione di un’opera pubblica (riqualificazione architettonica ed artistica di una piazza) a causa di provvedimenti (dichiarati poi illegittimi) del Ministero per i beni e le attività culturali.
Tali provvedimenti (sospensione lavori e annullamento d’ufficio dell’autorizzazione) erano stati preceduti con un preannuncio da un tweet da parte del Ministro.
Al di là della questione di merito, emerge dalla sentenza che il tweet non assume alcun valore istruttorio o d’impulso tale da paralizzare il procedimento amministrativo e indurre il responsabile del procedimento (RUP) ad agire in sede di autotutela, negando platealmente la natura provvedimentale, ovvero un qualche suo rilievo giuridico.
Ne è prova la valutazione operata dal Giudice di prime cure[1] che ha ritenuto ricorrente il vizio di eccesso di potere per sviamento, in quanto gli organi decentrati del MIBAC sembrano essersi determinati a sospendere i lavori – oltretutto in palese contrasto con le proprie recenti determinazioni – non già sulla base di una meditata valutazione di nuovi elementi istruttori, ma al fine di assecondare gli impegni, ormai pubblicamente assunti dal Ministro, di sospendere i lavori di realizzazione del progetto annunciati mediante il cit. tweet (annuncio digitale).
In effetti, il “tweet” o “cinguettio” del Ministro, potrebbe semmai intendersi quale manifestazione di volontà attizia di natura politica, rientrante tra gli “atti politici” (meglio si direbbe delle “opinioni politiche”) ma – in ogni caso – tali manifestazioni di indirizzo debbono pur sempre concretarsi nella dovuta forma tipica dell’attività della Pubblica Amministrazione, ovvero assumere i presupposti e i contenuti decisionali richiesti dalla fonte di riferimento «anche, e a maggior ragione, nell’attuale epoca di comunicazioni di massa, messaggi, cinguettii, seguiti ed altro, dovuti alle nuove tecnologie e alle nuove e dilaganti modalità di comunicare l’attività politica»[2].
La comunicazione digitale mediante “tweet” rientra pienamente nelle forme di comunicazione pubblica, con le quali si può conoscere in rete un orientamento politico (c.d. “twittare” brevi pensieri), avendo anche persone che seguono (c.d. follower), ma altra funzione sono gli “atti politici” (sempre ammesso che possano entrare nel procedimento quali fonti istruttorie) che devono rivestire la forma tipica richiesta dalla norma.
In altro contesto, la sez. I Catanzaro del T.A.R. Calabria, con la sentenza n. 302 del 18 febbraio 2019, interviene per delineare il potere di rappresentanza dei cit. follower in relazione alla loro legittimazione processuale per formulare una istanza di verifica amministrativa.
Un’associazione, costituita da un certo numero di follower, impugnava un provvedimento di aggiornamento A.I.A. (Autorizzazione Integrata Ambientale) di una Regione, relativo ad un impianto di trattamento rifiuti.
Rilevata l’assenza di un adeguato livello di rappresentanza della Comunità locale (pochi iscritti), annota il Giudice amministrativo senza indugio che è irrilevante «il dato dell’essere seguita l’associazione sul socianetwork facebook, essendo i followers meri osservatori che con ciò solo non mostrano aderenza alla associazione», confermando che la presenza in rete – l’avere digitalmente un seguito – non risulta sufficiente per legittimare un’azione giuridica a tutela degli interessi degli associati non potendo dimostrare da una parte, un’adesione dei follower all’associazione e ai suoi scopi, dall’altra, un like o essere un “seguace” non può rappresentare una manifestazione compiuta di volontà o di appartenenza.
L’attività on line del follower costituisce una forma di socializzazione e/o di adesione digitale a determinati soggetti presenti nel mondo virtuale ma non ancora in grado di formulare giuridicamente una propria soggettività e legittimazione giuridica, così come l’amicizia sul social network Facebook, non risulta immanentemente rilevante; tale cioè da dare prova concreta/reale di condivisione di vita e/o condotta e/o commensalità abituale, in assenza di ulteriori e solide prove.
Le considerazioni che precedono affrontano le diverse ormai acquisite forme di comunicazione “social” che premano ad entrare nel mondo del diritto, aprendo una strada nel dibattito giurisprudenziale, dove già presente il processo amministrativo telematico e l’informatizzazione delle procedure di gara, con piattaforme on line, può giungere e giunge all’individuazione del contraente con la P.A., ma resta ancora poco da attendere per far sì che tali comunicazioni digitali (ancora “deboli”) acquistino valore giuridico.
I traffici economici, le movimentazioni di merci e di persone, le operazioni finanziarie e del denaro sono sempre più invasive, l’esigenza di assicurare l’identità digitale con un semplice flag o clik si impone nei processi di totale globalizzazione delle operazioni digitali: si tratta – a ben vedere – di garantire da una parte, la sicurezza delle informazioni (tutela dei dati personali e identità digitale generalizzata), dall’altra, una corretta codificazione informatica delle procedure amministrative (la digitalizzazione con il Piano Triennale dell’informatica della P.A., questo vorrebbe).
In presenza di una digitalizzazione spinta, e della sua effettiva realizzazione in tutta sicurezza, anche queste forme di comunicazione virtuale acquisteranno cittadinanza nell’ordinamento giuridico (e in un non troppo lontano futuro), soprattutto ove si consideri che le maggiori corporate che governano il mercato mondiale – in termini di fatturato e investimenti – sono nell’ITC (Information Communication Technology).
(Estratto, Il valore giuridico delle comunicazioni digitali in rete, ictsecuritymagazine.com, 23 aprile 2019)
[1] T.A.R. Liguria, sez. I, sentenza n. 787/2014.
[2] Cons. Stato, sez. VI, 12 febbraio 2015, n. 769.