La prima sez. del T.A.R. Toscana, con la sentenza 23 ottobre 2020 n. 1275, dichiara illegittima una norma del regolamento di Polizia Urbana che vieta la prostituzione su tutto il territorio comunale.
La disciplina del D.L. 20 febbraio 2017, n. 14, «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città» (c.d. Decreto Minniti), convertito con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48 dispone:
- all’art. 9. «Misure a tutela del decoro di particolari luoghi», comma 1, «fatto salvo quanto previsto dalla vigente normativa a tutela delle aree interne delle infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano, e delle relative pertinenze, chiunque ponga in essere condotte che impediscono l’accessibilità e la fruizione delle predette infrastrutture, in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria… Contestualmente all’accertamento della condotta illecita, al trasgressore viene ordinato, nelle forme e con le modalità di cui all’articolo 10, l’allontanamento dal luogo in cui è stato commesso il fatto», precisando al comma 2, «Ferma restando l’applicazione delle sanzioni amministrative… il provvedimento di allontanamento di cui al comma 1 del presente articolo è disposto altresì nei confronti di chi commette le violazioni previste dalle predette disposizioni nelle aree di cui al medesimo comma»
- il comma 3, del cit. art. 9, «Fermo il disposto dell’articolo 52, comma 1 ter, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e dell’articolo 1, comma 4, del decreto legislativo 25 novembre 2016, n. 222, i regolamenti di polizia urbana possono individuare aree urbane su cui insistono presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli, ovvero adibite a verde pubblico, alle quali si applicano le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 del presente articolo»;
- all’art. 10, «Divieto di accesso», comma 1, «l’ordine di allontanamento di cui all’articolo 9, comma 1, secondo periodo e comma 2, è rivolto per iscritto dall’organo accertatore… In esso sono riportate le motivazioni sulla base delle quali è stato adottato ed è specificato che ne cessa l’efficacia trascorse quarantotto ore dall’accertamento del fatto e che la sua violazione è soggetta alla sanzione amministrativa pecuniaria applicata ai sensi dell’articolo 9, comma 1, aumentata del doppio. Copia del provvedimento è trasmessa con immediatezza al questore competente per territorio con contestuale segnalazione ai competenti servizi socio-sanitari, ove ne ricorrano le condizioni»[1].
L’ordine di allontanamento, una sorta di mini “DASPO” o “foglio di via”, costituisce una misura di natura personale temporanea atipica (ante delictum) che si concretizza in un divieto di stazionamento (dal luogo della condotta illecita) nei confronti di chiunque, impedendo l’accesso a determinate aree individuate dalla norma, di fatto una limitazione della libertà di circolazione funzionale a garantire, forse più corretto, controllare il territorio in chiave di prevenzione dai fenomeni di pericolosità sociale[2]: il bene giuridico protetto dalle disposizioni può essere identificato nell’«ordine pubblico» inteso come moralità, decoro e pubblica quiete.
Nella Relazione illustrativa del decreto si evidenzia che i suddetti comportamenti, pur non integrando necessariamente violazioni di legge, compromettono la fruibilità di particolari luoghi, rendendone difficoltoso il libero utilizzo e la normale e sicura fruizione degli spazi pubblici, con profili di rischio anche per la sicurezza relativamente ad alcuni ambiti a vario titolo legati ad una rilevante mobilità: la normativa mira a tutelare non solo i luoghi definiti dalla norma ma anche quelle aree individuate dai «regolamenti di polizia urbana, di particolare pregio artistico, storico o architettonico o interessate da consistenti flussi turistici, nonché parchi ed aree adibite a verde pubblico, prevedendo divieti specifici correlati ad un sistema sanzionatorio amministrativo».
Fatte queste osservazioni introduttive e passando al caso, il Tribunale affronta il ricorso presentato da alcune associazioni per i diritti civili/utilità sociale (caratterizzate da previsioni statutarie prevedenti la tutela delle persone che pratichino la prostituzione) contro un Regolamento di Polizia Urbana con il quale viene fatto divieto – su tutto il territorio comunale – di «porre in essere comportamenti diretti in modo non equivoco ad offrire prestazioni sessuali a pagamento», secondo modalità consistenti «nell’assunzione di atteggiamenti di richiamo, di invito, di saluto allusivo ovvero nel mantenere abbigliamento indecoroso o indecente in relazione al luogo» (con ulteriori indicazione di condotte censurate, anche per coloro che, alla guida di veicoli, eseguono «manovre pericolose o di intralcio alla circolazione stradale»), con l’applicazione di una sanzione amministrativa «nonché l’ordine di allontanamento», di cui alla disciplina dell’art. 10 del D.L. n. 14/2017.
Nel ricorso si contesta la violazione dei principi generali dell’ordinamento in tema di uguaglianza (ex art. 3 Cost.), in tema di legalità delle fattispecie considerate, della determinatezza delle condotte vietate, e degli illeciti amministrativi, ricusando eccesso di potere per illogicità, proporzionalità, contraddittorietà ed arbitrarietà manifeste, violazione e falsa applicazione dell’art. 1 della legge n. 689/1981 e dell’art. 7 del d.lgs. n. 267/2000.
In via preliminare, viene riconosciuta la legittimazione alle associazioni ad impugnare la nuova previsione in materia di repressione della prostituzione prevista dal nuovo Regolamento di Polizia Urbana del Comune, in quanto soggetti portatori di “interessi diffusi” costituiti «i quali devono comunque risultare sufficientemente differenziati e qualificati, rispetto agli interessi dei singoli associati ovvero alla generalità dei consociati di un determinato territorio, perché ad essi, appunto, possa riconoscersi il potere di agire legittimamente in giudizio»[3].
Si annota che la legittimazione discende da una serie di requisiti presenti dai rispettivi statuti, che perseguono «specifiche finalità di promozione dei diritti e tutela delle persone e, in specie delle donne, coinvolte nel fenomeno della prostituzione, nonché di salvaguardia della sfera di autodeterminazione sessuale, attraverso iniziative, di sovente congiunte ed estese a tutto il territorio nazionale, che includono anche “l’assistenza legale e la presentazione in giudizio”»: evidenze che consolidano la sussistenza di un “interesse diffuso”, connotato da autonomo rilievo, di cui viene dedotta e allegata la lesione attraverso l’adozione del provvedimento impugnato, la cui protezione rientra tra le finalità statutarie delle ricorrenti, connotate da stabilità sul piano organizzativo e operativo ed operanti su tutto il territorio nazionale.
Sulla presenza della cura degli “interessi diffusi”, rectius legittimazione al ricorso o condizione dell’azione, viene richiamato un precedente giurisprudenziale[4] dove si manifesta la sussistenza delle condizioni dell’azione; in particolare, una diretta afferenza con le finalità di protezione e tutela perseguite dall’associazione e dal comitato, specie ove si consideri che l’atto impugnato produceva un divieto ampio e generico «per chiunque e su tutto il territorio comunale, di assumere “atteggiamenti” ovvero “modalità comportamentali” suscettibili non già di denotare l’esercizio bensì di manifestare “l’intenzione” di esercitare il sex work», con una sanzione, in caso di inosservanza, che poteva astrattamente colpire, anche nei confronti delle vittime dei fenomeni di tratta e di sfruttamento[5]: infondata risulta, pertanto, l’eccezione di inammissibilità per difetto di interesse (sollevata dall’Amministrazione civica resistente).
L’interesse collettivo è, dunque, per definizione, diverso e altro rispetto all’interesse legittimo “individuale”, quest’ultimo, proprio perché differenziato rispetto a quello del quisque de populo è collegato ad un bene della vita a godimento individuale, ed è suscettibile di autonoma protezione giuridica[6].
Si approda alla constatazione che la legittimazione al ricorso spetta anche a enti esponenziali di interessi collettivi e diffusi, ove corroborati dalla rappresentatività dell’associazione o ente esponenziale e dalla pertinenza dei fini statutari rispetto all’oggetto della tutela leso dal provvedimento: «deve rilevarsi l’indubbia ammissibilità del ricorso, in quanto le disposizioni con esso gravate, pur se contenute in un regolamento, sono immediatamente esecutive, non necessitano di atti applicativi per la loro operatività, imponendo obblighi immediatamente coercitivi, e sono, per tal ragione, in grado di arrecare una lesione concreta ed attuale all’interesse dei ricorrenti»[7].
È noto che i regolamenti, come quello impugnato (aggiunge il Giudice di prime cure), possono formare oggetto di autonoma ed immediata impugnazione solo qualora siano suscettibili di produrre – in via diretta ed immediata – una concreta ed attuale lesione dell’interesse di un dato soggetto[8]:
- l’interesse risulta diretto, concreto ed attuale;
- il regolamento comunale di Polizia Urbana possiede un contenuto ex se conformativo dei suoi comportamenti in relazione all’attività notturna (c.d. self-executing, suscettibili di applicazione immediata nella sfera giuridica del destinatario: immediatamente precettivo), impedendone l’esercizio;
- sussistono le condizioni giuridiche di immediata impugnazione delle disposizioni regolamentari gravate, trattandosi di disposizioni nuove[9], assolutamente cogenti per i destinatari[10].
Passando ad altra questione, con riferimento all’ordine di allontanamento previsto dall’applicazione al trasgressore dell’art. 9, comma 1, secondo periodo e comma 2 del decreto legge n. 14/2017, conseguenza automatica della violazione e che prescinde del tutto dal luogo di commissione dell’infrazione nella formulazione prevista dal regolamento di Polizia Urbana, trattandosi di una previsione innovativa che non era prevista nella previgente disciplina regolamentare, la norma risulta dall’evidenza illegittima atteso che l’applicazione si estende sull’intero territorio urbano.
La fonte di riferimento impone l’applicazione dell’ordine di allontanamento «solo sulle aree destinate alle infrastrutture di cui al primo comma della disposizione o alle aree espressamente individuate dai regolamenti di polizia urbana e su cui insistano “presidi sanitari, scuole, plessi scolastici e siti universitari, musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura o comunque interessati da consistenti flussi turistici, …(o alle) aree destinate allo svolgimento di fiere, mercati, pubblici spettacoli, ovvero adibite a verde pubblico», ex art. 9, comma 3 del d.l. 20 febbraio 2017, n. 14, convertito in legge 18 aprile 2017, n. 48.
In effetti, secondo il canone ermeneutico in claris non fit interpretatio la potestà regolamentare di estendere l’applicabilità della sanzione dell’allontanamento, opera solo nei limiti previsti dall’art. 9, comma 3 del d.l. cit.: «risulta pertanto assolutamente al di fuori del sistema la previsione di una sanzione, in teoria, indiscriminatamente applicabile sull’intero territorio comunale», la violazione relativa all’esercizio della prostituzione ed il tutto indipendentemente da una qualche valutazione in ordine al luogo di commissione della violazione.
Giova rammentare, a tal proposito, che l’imprescindibile necessità che in ogni conferimento di poteri amministrativi venga osservato il principio di legalità sostanziale, posto a base dello Stato di diritto, non essendo sufficiente che il potere sia finalizzato dalla legge alla tutela di un bene o di un valore e ciò, in specie, ove divieti ed obblighi imposti impongano, in maggiore o minore misura, restrizioni alla sfera dei diritti e delle libertà individuali[11].
Di converso, conclude il G.A., la sanzione può essere applicata nella parte riferita dell’allontanamento dal territorio comunale agli “atti che offendano la pubblica decenza” commessi nelle aree specificamente individuate (quelle sensibili, definite dal legislatore, e già presenti nel regolamento), senza poter legittimare un’estensione al di fuori degli ambiti di legge, ossia l’intero territorio comunale.
L’autonomia regolamentare dell’Ente locale, con riferimento alla Polizia Urbana, non può coprire ambiti normativi che appartengono allo Stato (ex art. 117, comma 2, lettera h), Cost.), in una materia – l’ordine pubblico e sicurezza[12] – che caratterizza storicamente i c.d. “poteri sovrani”, capaci di assicurare l’integrità e l’inviolabilità (territoriale) di una Nazione, affidata alla cura delle Autorità e delle Forze di polizia[13].
La “sicurezza urbana”, nella sua dimensione innovativa, di collaborazione e integrazione, in questo settore primario per la convivenza sociale e civile, fra gli apparati policentristi dello Stato Comunità, includendo a pieno titolo gli Enti locali[14], con il passaggio della “sicurezza urbana” in “sicurezza delle città”, esige – in ogni caso – un corretto processo di recepimento regolamentare non potendo spingersi oltre i limiti stabiliti ex ante dal Legislatore.
[1] Il divieto d’accesso/allontanamento va motivato, T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 11 novembre 2019, n. 2360.
[2] L’ordine di allontanamento si distingue dal foglio di via obbligatorio che il questore può irrogare, ai sensi del d.lgs. n. 159/2011, per la diversità di durata, degli ambiti interdetti, dei destinatari; dal DASPO, di cui all’art. 6 della legge n. 401/1989, in quanto non presuppone alcuna condanna penale né la presentazione di una denuncia, CARNABUCI, Analisi e commento del comma 2, 3, 4 e 5. Il divieto di accesso, in La sicurezza delle città, a cura ITALIA, Milano, 2017, pag. 35.
[3] Cfr. Adunanza Plenaria del Cons. Stato, 20 febbraio 2020, n. 6, in tema di legittimazione delle associazioni per la presenza dell’interesse tutelato comune a tutti gli associati, che non vengano tutelate le posizioni soggettive solo di una parte degli stessi e che non siano, in definitiva, configurabili conflitti interni all’associazione. La titolarità di un interesse “collettivo”, geneticamente derivante da un processo di impersonificazione di interessi, appunto, “diffusi”, quelli interessi omogeneamente distribuiti nella collettività o nella categoria di riferimento, sebbene giuridicamente latenti, in quanto non dotati, a livello individuale, di rilievo giuridico immediato in ragione dell’insussistenza del requisito della differenziazione che tradizionalmente qualifica la situazione giuridica dell’interesse legittimo, Cons. Stato, sez. III, 2 marzo 2020, n. 1467.
[4] T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 28 marzo 2019, n. 4175.
[5] La prostituzione su strada di giovani donne, sprovviste di diverse forme alternative di guadagno, può risultare il terminale di una catena criminale di sfruttamento illecito della persona e, dunque, attività contraria all’ordine pubblico, in quanto lesiva dei valori primari di rispetto della persona sui quali si regge lo Stato italiano, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I ter, ord. 6 agosto 2020, n. 5202.
[6] L’interesse collettivo è una “derivazione” dell’interesse diffuso per sua natura adespota, non già una “superfetazione” o una “posizione parallela” di un interesse legittimo comunque ascrivibile anche in capo ai singoli componenti della collettività, Cons. Stato, sez. V, 12 marzo 2019, n. 1640.
[7] T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 17 giugno 2009, n. 4056.
[8] T.A.R. Piemonte, Sez. II, 19 luglio 2006, n. 2971.
[9] In termini diversi, l’elemento di novità consente l’impugnazione; diversamente le modifiche non sostanziali che semmai migliorano la descrizione delle condotte sanzionatorie ma che anzi ne aumentano, se possibile, il grado di tassatività non sono impugnabili, T.A.R. Toscana, sez. II, 19 marzo 2010, n. 702; T.A.R. Veneto, sez. I, 8 marzo 2017, n. 237.
[10] Cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, 19 ottobre 2009, n. 1629.
[11] Cfr. Corte Cost., sentenza n. 115 del 2011.
[12] Non è da confondere la Polizia amministrativa con la Pubblica sicurezza, quest’ultima secondo un prevalente profilo attiene all’esercizio del potere da parte degli Organi statali: le esigenze di tutela dell’ordine pubblico sono competenze attribuite al Ministero dell’Interno, ed in particolare al Prefetto, Corte Cost, 27 marzo 1987, n. 77.
[13] Sulla nozione di “ordine pubblico”, si rinvia all’art. 1 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773.
[14] La politica di sicurezza in ambito locale, per effetto delle recenti riforme (id est d.l. n. 14/2017), ha assunto un’accezione più ampia, risultando declinata, quale forma di benessere delle comunità territoriali, in funzione di una stretta sinergia tra gli obiettivi della tutela dell’incolumità pubblica e della sicurezza in senso stretto e quello del miglioramento della qualità del tessuto sociale ed urbano sub specie di “vivibilità” e del “decoro delle città” che diventano complementari, Cons. Stato, sez. III, 6 luglio 2020, n. 4309. Sui poteri del sindaco, ex art. 54, coma 4 bis, del d.lgs. n. 267/2000, vedi, T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 28 marzo 2019, n. 4175.