La sez. II del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 4960 del 6 agosto 2020 (relatore Luttazzi), segna un punto in ambito urbanistico, dove le proposte dei privati sulla pianificazione urbana possono essere accolte e non rappresentare necessariamente un illegittimo esercizio della funzione pubblica, ove si persegua, anche d’impulso esterno, l’interesse generale se coincidente.
In termini diversi, le valutazioni della P.A. agente possono essere coerenti con una conformazione della strumentazione urbanistica pretesa dalle parti private (e presentata in sede di osservazioni agli strumenti urbanistici), senza per questo obliterare i diversi interessi che sono radicati nel territorio e che possono esprimere esigenze, in parte coincidenti, dei singoli privati pur assolvendo un interesse generale.
Nel caso di specie, si discute su una deliberazione consiliare di adozione definitiva di una variante al Piano regolatore generale comunale nella parte in cui accoglie delle osservazioni presentate da un privato, riferite alla richiesta di zonizzazione residenziale e una diminuzione della fascia di rispetto stradale, contestandone la legittimità sulla supposta carenza istruttoria – motivazionale e ulteriori vizi logici, non riscontrati in primo grado.
Va premesso che le scelte pianificatorie urbanistiche sono insindacabili se non nei limiti di vizi procedimentali, di errori di fatto, di manifesta illogicità, irrazionalità ed irragionevolezza visto che il disegno urbanistico espresso da uno strumento di pianificazione generale costituisce estrinsecazione di potere pianificatorio connotato da ampia discrezionalità che rispecchia non soltanto scelte strettamente inerenti all’organizzazione edilizia del territorio, bensì afferenti anche al più vasto e comprensivo quadro delle possibili opzioni inerenti al suo sviluppo socio-economico[1].
Il giudice, pertanto, non può sostituirsi all’esercizio della discrezionalità piena dell’Amministrazione civica, specie ove si consideri che la motivazione che deve sorreggere tali scelte, ovviamente, impingono il merito amministrativo.
In sede di adozione di uno strumento urbanistico, salvo i casi in cui le scelte incidano su zone territorialmente circoscritte ledendo legittime aspettative, sono di carattere generale e la motivazione risulta soddisfatta con l’indicazione dei profili generali e dei criteri che la sorreggono, senza necessità di una motivazione puntuale e “mirata”, valorizzando un parametro che non può che rientrare, appunto, nel merito (non coercibile)[2].
In questo senso, le scelte urbanistiche richiedono una motivazione più o meno puntuale a seconda che si tratti di previsioni interessanti la pianificazione in generale ovvero un’area determinata, ovvero qualora incidano su aree specifiche, ledendo legittime aspettative, d’altronde una destinazione di zona precedentemente impressa non determina l’acquisizione, una volta e per sempre, di una aspettativa di edificazione non più mutabile, essendo appunto questa modificabile (oltre che in variante) con un nuovo P.R.G., conseguenza di una nuova e complessiva valutazione del territorio, alla luce dei mutati contesti e delle esigenze medio tempore sopravvenute su basi motivazionali che non possono che appartenere all’Amministrazione[3].
È, quindi, pacifico in giurisprudenza che:
- le scelte effettuate dall’Amministrazione, in concomitanza con l’adozione di uno strumento urbanistico, costituiscono apprezzamenti di merito sottratti al sindacato di legittimità, salvo che siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità[4];
- in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, l’Amministrazione ha la più ampia discrezionalità nell’individuare le scelte ritenute idonee per disciplinare l’uso del proprio territorio (e anche nel rivedere le proprie, precedenti previsioni urbanistiche), valutando gli interessi in gioco e il fine pubblico e, tra l’altro, non deve fornire motivazione specifica delle singole scelte urbanistiche, ben potendo seguire anche le proposte acquisite in sede di osservazioni[5];
- la scelta compiuta in un piano generale (o in una variante ad esso) di imprimere una particolare destinazione urbanistica ad una zona non necessita di particolare motivazione, in quanto essa trova giustificazione nei criteri generali di ordine tecnico-discrezionale seguiti nella impostazione del piano, salvo che particolari situazioni non abbiano creato aspettative o affidamenti in favore di soggetti le cui posizioni appaiono meritevoli di specifiche considerazioni (il c.d. affidamento “qualificato”, riconosciuto nell’esistenza di convenzioni di lottizzazione, di accordi di diritto privato intercorsi tra Comune e proprietari, di giudicati di annullamento di dinieghi di concessioni edilizie o di silenzio-rifiuto su domanda di concessione)[6].
Deve sostenersi, per completezza espositiva e in relazione al caso trattato, che la valutazione della idoneità delle aree a soddisfare, con riferimento alle possibili destinazioni, specifici interessi urbanistici, costituisce esercizio di un potere di scelta, rispetto al quale non è ipotizzabile quella identità di situazioni soggettive ed oggettive che costituisce il presupposto indispensabile per poter configurare, tra i vari soggetti interessati, il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento[7], non essendo ipotizzabile in urbanistica una disparità di trattamento fra proprietari di fondi diversi, in quanto ciascun fondo è necessariamente differenziato dagli altri, quanto meno sotto il profilo della ubicazione, e, pertanto, costituisce oggetto di autonoma considerazione[8].
Fatto questo perimetro di ordine generale (esterno alla sentenza), il giudice di seconde cure osserva che la documentazione probatoria (riprese fotografiche e rilievi motivazionali) ben possono giustificare le scelte operate dal Comune, esplicitate nel contestato procedimento pianificatorio e dimostrate sotto il profilo dell’analisi del comparto e delle caratteristiche di urbanizzazione di zona.
La sentenza richiama i propri indirizzi, osservando che:
- il rigetto o l’accoglimento delle osservazioni dei privati in sede di procedimento pianificatorio urbanistico non richiedono motivazione analitica, essendo sufficiente che quelle osservazioni siano state esaminate e confrontate con gli interessi generali dello strumento pianificatorio[9];
- le osservazioni procedimentali dei privati agli strumenti urbanistici non sono rimedi giuridici ma apporti procedimentali di un interesse privato che, come tutti gli apporti “esterni” coinvolti nella pianificazione urbanistica, sono in essa inseriti e vanno con essa contemperati;
- le osservazioni possono definirsi lo strumento per perseguire – compatibilmente con il complesso delle scelte urbanistiche da effettuare – l’interesse pubblico con un minor sacrificio dell’interesse privato;
- l’accoglimento delle osservazioni dei privati da parte del Consiglio comunale non richiede alcuna specifica motivazione mirata, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e comparate con gli interessi e le considerazioni generali poste a base della formazione del piano[10].
L’insieme conferma che le scelte urbanistiche sono una prerogativa dell’organo politico chiamato a valutare gli interessi generali, l’apporto dei privati in sede procedimentale (ex art. 13 della legge n. 241/1990)[11] assiste l’Amministrazione in tali scelte seguendo le medesime regole procedimentali di comparazione/bilanciamento degli interessi che ben possono coincidere ed essere immuni da vizi logico – valutativi.
Dunque, la circostanza che alcune scelte urbanistiche avvantaggino singoli proprietari rispetto ad altri non «può costituire di per sé un profilo di illegittimità delle scelte effettuate, giacché è inevitabile che in relazione alle diverse parti del territorio sussistano diverse possibilità edificatorie, dosate peraltro non solo in relazione a situazioni di carattere obiettivo, ma anche in base a scelte latamente discrezionali»[12].
L’Amministrazione in ambito urbanistico gode, quindi, di ampia discrezionalità nel limiti espressi, assicurando la partecipazione procedimentale dei privati in sede di “osservazioni”, una fase collaborativa sottoposta alle medesime regole delle scelte di pianificazioni, con un onere motivazionale che non esige una «necessità di argomentare espressamente su ciascuna di esse da parte dell’Amministrazione comunale procedente, nell’esercizio della sua ampia discrezionalità»[13], salvo i casi di vizi di macroscopica evidenza (errori di fatto o abnormi illogicità)[14].
[1] Cons. Stato, sez. II, 20 gennaio 2020, n. 456.
[2] Cons. Stato, sez. IV, 3 novembre 2008, n. 5478.
[3] Cons. Stato, sez. II 4 febbraio 2020, n. 915.
[4] Cons. Stato, ad. plen., 22 dicembre 1999, n. 24; sez. IV, 20 giugno 2012, n. 3571.
[5] Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13 settembre 2012, n. 4867.
[6] Cons. Stato, sez. VI, 17 febbraio 2012, n. 854.
[7] Cons. Stato, Sez. IV, 17 febbraio 1981, n. 159.
[8] Cons. Stato, sez. IV, 17 novembre 2001, n. 5721.
[9] Cons. Stato, Sez. VI, 8 giugno 2020, n. 3632.
[10] Cons. Stato, sez. VI, 4 novembre 2013, n. 5292.
[11] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 3 febbraio 2020, n. 844.
[12] Cons. Stato, sez. II, 22 luglio 2019, n. 5157.
[13] Cons. Stato, sez. II, 24 giugno 2020, n. 4040.
[14] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1431; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 15 maggio 2014, n. 1281 e 27 maggio 2014, n. 1355.