Il diritto di accesso del consigliere comunale
Ancora una volta assistiamo al dibattito sul diritto di accesso del consigliere comunale che non può incontrare limiti nell’ottenere dall’Ente le informazioni utili all’espletamento delle sue funzioni, neppure le limitazioni derivanti dalla loro eventuale natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato al segreto d’ufficio, riversato sulle modalità “agevolative” anteposte al diritto stesso, quale evidente forma pervasiva del suo abuso.
In termini diversi, se l’art. 43, comma 2 del d.lgs. n. 267/2000 prevede che «I consiglieri comunali e provinciali hanno diritto di ottenere dagli uffici, rispettivamente, del comune e della provincia, nonché dalle loro aziende ed enti dipendenti, tutte le notizie e le informazioni in loro possesso, utili all’espletamento del proprio mandato. Essi sono tenuti al segreto nei casi specificamente determinati dalla legge» (con una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi riconosciuto alla generalità dei cittadini, ex art. 22 e ss., della legge 7 agosto 1990, n. 241), questo non significa che una qualche forma di collaborazione (alias limitazione) non possa essere pretesa nel caso concreto, specie quando l’aggravio e l’intento emulativo si appalesa nella sua interezza.
Un accesso totalizzante o totalitario
Invero, all’Amministrazione è imposto di agevolare l’accesso, consentendo al consigliere di poter acquisire tutte quelle informazioni/atti/documenti “utili” per l’esercizio del mandato, da ricomprendere l’utilizzo (in piena sicurezza da Data Breach, ovvero tale da escludere in radice il rischio di una divulgazione involontaria dei dati) dei sistemi informatici per l’estrazione di copia degli atti, anche mediante l’utilizzo di chiavetta personale USB[1], rilevando – in ogni caso – che il tempo e il lavoro istruttorio degli uffici per dare seguito alla richiesta non costituiscono ragioni sufficienti per impedirlo, posto che l’Amministrazione non può opporre al richiedente circostanze inerenti alla propria organizzazione interna, ma può semmai dilazionare l’accesso e, comunque, sempre nel rispetto di termini ragionevoli meglio codificati, nei principi di cui all’art. 2 della legge n. 241/1990[2], non certamente un accesso totale.
Il pronunciamento del G.A.
Ciò posto, la prima sez. del TAR Veneto, con la sentenza 5 maggio 2021, n. 604, interviene sul diniego di accesso informatico ai documenti, ove l’Amministrazione abbia apprestato la cura di una serie di strumenti per consentire l’accesso digitale del consigliere comunale, rilevando che la modalità (strumentale al diritto) non può estendersi alla costruzione (nel senso puro del termine) di un “Big Brother”, sistematicamente connesso on line (pure pretesa da remoto, in una visione smart) senza soluzione di continuità al flusso documentale, attività evidentemente non correlata alle prerogative né del consigliere comunale e neppure di altro soggetto pubblico, pena l’evidente invasione dei diritti minimi di libertà[3].
Un accesso continuo, assiduo e immediato di tutte le informazioni e operazioni informatiche del mondo digitale pubblico (riferito all’intera attività della P.A.), magari anche ai dati personali del prossimo riconoscimento facciale e delle precedenti impronte digitali, si presenta contrario alle regole del diritto di accesso del consigliere, trasformandosi in un abnorme controllo generalizzato privo di una base giuridica di riferimento e di un’effettiva utilità per l’espletamento del mandato.
L’accesso al protocollo
In effetti, la sez. I del TAR Veneto affronta il ricorso promosso da un consigliere comunale di minoranza che si è visto opporre un diniego ad un’istanza di accesso al protocollo comunale, ritenendosi perciò stesso leso nei suoi diritti.
L’Amministrazione resistente, nulla eccepisce quanto al diritto primario di conoscenza, quanto piuttosto la sua pretesa trasformazione in un controllo totale sull’attività in entrata (il c.d. diritto d’impulso che è correlato alle “registrazioni” a protocollo), e sui connessi pericoli alla sicurezza informatica in presenza di un accesso alla rete al di fuori delle regole sul “registro dei trattamenti” (oltre ovviamente, aggiungiamo dalla voce narrante, alla tutela apprestata dal Regolamento UE 679/2016).
A fronte di una tale prospettazione, il consigliere istante si “adeguava” ai limiti della civica Amministrazione, al fine di superare le ragioni di un possibile diniego, «chiedendo di accedere ai dati di sintesi del protocollo informatico specificando che il -OMISSIS- aveva la necessità di acquisire tali dati giornalmente in copia cartacea, al fine di poterli leggere con la dotazione informatica a sua disposizione presso la propria abitazione. La ricorrente ha invece chiesto l’invio della medesima documentazione in formato digitale al proprio indirizzo di posta elettronica».
La pretesa, dunque, di un accesso sistematico al protocollo con l’invio giornaliero al proprio indirizzo digitale dei dati di sintesi, ossia di tutte le registrazioni in entrata e uscita del flusso documentale, senza distinzioni di sorta: un catalogo di dati e trattamenti indifferenziato.
La postazione informatica per l’accesso al protocollo
Seguiva una nota del Sindaco, più correttamente forse sarebbe stato indicato del Responsabile del procedimento (un organo tecnico), con la quale si indicavano difficoltà organizzative (ovvero, un aggravio) per “carenza di personale”; tuttavia, assolvendo la richiesta con la messa a disposizione, in completa autonomia e in forma riservata, nel senso «in ragione dell’impossibilità che altre persone possano consultare senza averne diritto gli atti comunali» di una postazione (c.d. p.c.) dedicato presso la sede comunale per «l’accesso ai dati di sintesi del protocollo informatico».
Il bilanciamento del diritto di accesso del consigliere comunale
Ciò nonostante la questione è stata risolta dal Giudice amministrativo con le seguenti argomentazioni sull’infondatezza della pretesa e, di conseguenza, sulla corretta modalità di accesso predisposta dall’Amministrazione:
- il diritto di accesso del consigliere comunale è sottoposto alla regola del ragionevole bilanciamento propria dei rapporti tra diritti fondamentali, impedendone un’estensione che possa collidere con pregiudizio di altri interessi riconosciuti dall’ordinamento meritevoli di tutela (la c.d. riservatezza della sfera privata), e dunque possa sottrarsi al necessario bilanciamento con questi ultimi;
- la presenza di diritti egualmente tutelati dall’ordinamento costituisce un limite funzionale intrinseco, cui il diritto d’accesso è sottoposto, espresso dall’art. 43, comma 2, del d.lgs. n. 267 del 2000 con il richiamo alla “utilità” delle notizie e delle informazioni possedute dall’Ente locale rispetto alla funzione di rappresentanza politica[4];
- le modalità dell’accesso devono essere definite in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali nel rispetto del diritto del consigliere;
- l’organizzazione dell’accesso (una prerogativa che rientra nella disponibilità dell’Ente), mediante la messa a disposizione di una postazione informatica presso la sede comunale, mira a contemperare le esigenze del consigliere con quelle organizzative dell’Ente, nel rispetto della riservatezza dei dati personali dei cittadini, visto che la conoscenza dei dati del protocollo comunale può comportare la diffusione di notizie riservate anche personalissime di terze persone, e ciò giustifica la previsione di particolari cautele o limitazioni alla consultabilità di tali dati, finalizzate ad assicurare che la stessa avvenga in condizioni di sicurezza, escludendo il rischio di una illecita diffusione «dell’accidentale smarrimento delle copie cartacee o della conoscenza fortuita da parte di terzi del contenuto della email richieste»[5].
L’incompetenza del sindaco
A margine sull’incompetenza del sindaco, il Collegio non entra nel merito poiché il giudizio in materia di accesso, pur seguendo lo schema impugnatorio, sostanzialmente è rivolto all’accertamento della sussistenza o meno del diritto dell’istante all’accesso medesimo, a prescindere dal soggetto che manifesta il diniego, potendosi ricorrere anche contro il silenzio, e, in tal senso, è un “giudizio sul rapporto”, ai sensi dell’art. 116, commi 1 e 4, cod. proc. amm., ed il G.A., sussistendone i presupposti, «ordina l’esibizione dei documenti richiesti»[6], con la conseguenza che il ricorrente non potrebbe trarre alcuna utilità dall’esame della censura[7].
Nuove prospettive del diritto di accesso del consigliere comunale
La sentenza n. 604 del 5 maggio 2021, della sez. I del TAR Veneto, si allinea con una serie di precedenti giurisprudenziali, e, come si ebbe a rilevare[8], esige la necessità di rivedere il diritto di accesso del consigliere comunale che non può infrangere le norme a tutela dei dati personali imposte dal Regolamento UE 679/2016, nonché assurgere al ruolo di “grande fratello” delle Comunità locali.
Da una parte si sanzionano le Amministrazioni e i privati sull’illecito trattamento dei dati personali, dall’altro si vorrebbe consentire un diffuso accesso agli stessi dati, giustificato dal dovere del consigliere di attenersi al segreto, quando manca la base giuridica di tale (lecito) trattamento, mancano le misure adeguate per verificare se tali dati acquisiti siano o meno posti in sicurezza, ovvero se la loro diffusione sia effettivamente strumentale all’esercizio del mandato elettivo.
La questione dovrà essere posta all’attenzione del legislatore, quanto meno di quello comunitario, o agli organi di giustizia, per l’evidente alterazione di una abnorme acquisizione di dati personali in mancanza di una base giuridica di riferimento, tralasciando di soffermarsi sulle loro reali esigenze (che a volte, quelle rare volte, possono giustificarne l’uso).
Il tramonto dell’epoca dei diritti
In questa pretesa trasparenza, in nome di uno status che contraddistingue il consigliere comunale dal cittadino in materia di accesso agli atti, non possiamo esimersi dal constatare che – nel regime del COVID-19 – la tutela dei dati personali si è persa (e non sa tornare)[9] con la perdita delle libertà (il c.d. confinamento), dove in nome di un diritto alla salute pubblica si sottopone il cittadino (il Paese) ad ogni intrusione nella propria sfera personale, dove i dati personali (un patrimonio intellegibile) vengono diffusi, trattati, ceduti senza limitazioni, in evidente violazione delle più elementari regole del diritto naturale, e questa sentenza rispecchia quell’interesse alieno di governare il “tutto” al di sopra della legge e dei diritti dei singoli alla dignità, quella dignità che non può coesistere in assenza di riservatezza (the right to be left alone).
[1] TAR Lombardia, Brescia, sez. I, 29 marzo 2021, n. 298.
[2] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 marzo 2015, n. 1545.
[3] Vedi, Limiti (abuso) del diritto di accesso del consigliere (regionale, provinciale e comunale) alle credenziali del sistema informatico, mauriziolucca.com, 7 settembre 2019, ove si riferiva che «una dimensione, così pensata, del diritto di accesso on line se da una parte, collide con le misure di sicurezza (che potrebbero essere, comunque, assunte), dall’altra, costituirebbe un’alterazione all’esercizio della funzione e della formazione del diritto di accesso del consigliere comunale, per costituire una figura mostruosa e mitica (Leviathan) già descritta dall’inglese HOBBES, in una visione assoluta del potere privo di riscontri nella sua modernità (forse)».
[4] Cons. Stato, sez. V, 11 marzo 2021, n. 2089.
[5] Viene rinviato, sul punto, al pronunciamento del TAR Friuli Venezia Giulia, 9 luglio 2020, n. 253, ove si annota che gli atti “veicolati” dal protocollo comunale «anche se resi disponibili in forma di mera sintesi, possono rendere immediatamente consultabili ‘dati’, anche personalissimi, che non possono considerarsi in alcun modo attratti nella sfera di necessaria conoscenza e/o conoscibilità che deve essere assicurata ai -OMISSIS- comunali, sì da rendere, conseguentemente, ingiustificato il ‘trattamento’ che in tal modo verrebbe effettuato .. peraltro in assenza delle necessarie garanzie, essendo palese che il ‘segreto’ cui sono tenuti i-OMISSIS-ai sensi dell’art. 43, comma 2, ultimo periodo, d.lgs. cit. nulla ha a che vedere con le garanzie che devono, per l’appunto, presidiare il trattamento dei dati personali» Ritenuto, invero, in via meramente esemplificativa e non esaustiva, di richiamare l’attenzione su tutti gli atti riferibili ai compiti svolti dal Comune per servizi di competenza statale (si pensi ad es. alle comunicazioni riguardanti annotazioni sugli atti di anagrafe), sulle richieste e/o comunicazioni riguardanti la cessione del quinto dello stipendio, sugli atti provenienti da altre PP.AA. relativi a indagini in corso, sulle istanze e/o gli atti relativi alla fruizione degli istituti previsti e disciplinati dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) e/o dal decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 (Testo unico delle disposizioni in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53), sugli atti relativi ai TSO, sugli interventi assistenziali su disposizione del Tribunale per i minorenni, etc. etc.)».
[6] Cons. Stato, sez. V, 19 giugno 2018, n. 3956 e sez. VI, 9 maggio 2002, n. 2542.
[7] TAR Veneto, sez. I, 29 aprile 2020, n. 393.
[8] Vedi, Osservazioni sull’accesso dei consiglieri comunali ai procedimenti di erogazione contributi COVID-19 (c.d. buoni alimentari), LexItalia.it, 26 giugno 2020, n. 6, ove riferivo che manca «l’utilità ai fini dell’art. 43 TUEL (viceversa, si paleserebbe come una richiesta massiva); non sussistendo un collegamento diretto fra il ruolo istituzionale del consigliere comunale e le informazioni richieste in ragione delle attività di sindacato e di proposta dei consiglieri comunali in ordine all’allocazione delle risorse; la spesa (ergo l’utilizzo delle risorse, anche se transitano nel bilancio comunale) non è imputabile all’Amministrazione locale, avente per sua natura il carattere emergenziale che travalica le competenze della stessa (la cui rendicontazione e controllo appartiene agli organi/apparati dello Stato, non escludendo che ogni singola Amministrazione possa verificare in piena autonomia la veridicità delle richieste/autocertificazioni); il preteso esercizio di controllo generalizzato sull’operato dell’Amministrazione e dei suoi uffici sarebbe nel concreto inconciliabile con l’esercizio del mandato politico finalizzato ad un organico progetto conoscitivo in relazione a singole problematiche, involgendo l’intero numero dei richiedenti, e per ciò stesso inammissibile; latita un’adeguata base giuridica di riferimento».
[9] Tributo a Fabrizio De Andrè, Andrea.