L’ordinamento giuridico spesso crea delle sovrastrutture normative per imporre delle regole di convivenza che, prima di essere disposizioni normative o precetti, sono “condizionamenti sociali”, correlati all’esigenza di avere persone che ubbidiscono, in forza del rispetto di superiori interessi di “unità e integrità” dello Stato (vedi, Della ragion di Stato, BOTERO); cittadini modello sempre pronti a servire il Paese, contribuendo al pagamento delle tasse a fronte di servizi erogati: no taxation without representation.
L’organizzazione dello Stato richiede un gran impegno e impiego di risorse, richiede la creazione di un apparato amministrativo efficiente e snello, in grado di raggiungere obiettivi di salvaguardia della popolazione e di giustizia sociale, in una proiezione di sana gestione contabile e di benessere generale, profili di legalità e qualità connessi al perseguimento dell’interesse pubblico prevalente (ex art. 97 Cost.).
La convivenza di più entità e autorità amministrative indipendenti (ma in grado di creare atti di regolamentazione, c.d. soft law), l’esigenza di formulare e attuare il policentrismo istituzionale (Regioni, Provincie, Città Metropolitane e Comuni), le versioni dei diversi livelli di governo dello Stato (centrale e periferico) delineano congiuntamente l’agire pubblico e l’esercizio di un public power che trova fondamento nei principi fondamentali delle fonti primarie dello Stato Comunità (Costituzione, leggi e atti aventi forza di legge) e dell’ordinamento comunitario, riversando competenze legislative ad organi non eletti dai cittadini.
La degenerazione delle regole, la commistione dei poteri, la mancata trasparenza dell’utilizzo delle risorse e dei beni pubblici contribuisce alla cattiva amministrazione (c.d. sprechi, e non solo), generando la sfiducia verso le istituzioni e la loro credibilità; condotte sanzionate con il c.d. danno d’immagine (e di disservizio) connesso alla lesione del bene giuridico consistente nel “buon andamento” della Pubblica Amministrazione (Corte Conti, sez. giur. Lombardia, 8 giugno 2017, n. 86).
Si scrisse che «c’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti» (CALVINO).
La questione non è solo di diritto ma prima ancora di natura etica, «gli uomini, per la loro natura sociale, costituiscono non un semplice aggregato di individui, ma una comunità di persone nella quale i bisogni e le aspirazioni di ciascuno, gli eguali diritti e i simmetrici doveri, si collegano e si coordinano in un vincolo solidale, ordinato a promuovere il pieno sviluppo della persona umana e la costruzione del bene comune… Se mancano chiare e legittime regole di convivenza, oppure se queste non sono applicate, la forza tende a prevalere sulla giustizia, l’arbitrio sul diritto, con la conseguenza che la libertà è messa a rischio fino a scomparire. La “legalità”, ossia il rispetto e la pratica delle leggi, costituisce perciò una condizione fondamentale perché vi siano libertà, giustizia e pace tra gli uomini» (COMMISSIONE ECCLESIALE GIUSTIZIA E PACE, Educare alla legalità, Roma, 4 ottobre 1991).
Il sistema democratico e la rappresentanza elettiva richiederebbe un leale legame diretto tra elettore ed eletto, creando un contatto ideale tra colui che vota e colui che con tale voto rappresenta il mandante elettore e ne cura gli interessi individuali, in una prospettiva valoriale di perseguimento del bene comune.
Anzi, il perseguimento del bene comune è strumentale al perseguimento del bene individuale del singolo elettore, differenziando gli eletti su schieramenti politici coerenti con un programma di mandato (contratto, anche se il termine non sarebbe coerente).
Votare un candidato rispetto ad un altro candidato di uno schieramento politico diverso, significherebbe perseguire un orientamento differente sul piano concreto, vorrebbe dire produrre leggi diverse, compito – affidato nelle moderne democrazie – al Parlamento.
Nelle ragioni di CREONTE (SOFOCLE, Antigone), il diritto promulgato dal governante deve essere razionale rispetto allo scopo che è quello essenziale alla polis, di salvaguardarla, anche onorando i buoni cittadini e non gli altri, i nemici; dovendo osservare che spesso si cede dal razionale all’opportunità politica, confondendo o senza più distinguere i buoni dai cattivi cittadini (o nemici dello Stato) per contrapporre le ragioni di chi governa agli interessi dei governati (tutti), in una logica di mediazione del consenso, dell’occupazione permanente del potere, senza limiti di durata del mandato parlamentare (vedi, i limiti del terzo mandato Sindaco, salvo per i comuni sotto i tremila abitanti, ex art. 1, comma 138, della legge n. 56/2014).
Il Governo, organo politico per eccellenza, dovrebbe portare ad esecuzione il programma di mandato con la fiducia del Parlamento, presidiando i diversi ministeri, che compendiano gli apparati dello “Stato Persona”.
Nel nostro ordinamento, il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri, e «il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile, mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri» (ex art. 95 Cost.).
Il bilanciamento dei poteri dello Stato, richiede un altro potere, autonomo e indipendente da ogni altro potere, con il compito di esercitare la funzione giudiziaria di verifica sull’applicazione delle leggi, risolvendo i conflitti: «la giustizia è amministrata in nome del popolo, i giudici sono soggetti soltanto alla legge» (ex art. 101 Cost.).
La separazione/divisione dei poteri e il loro bilanciamento definisce lo Stato di diritto (legislativo, esecutivo e giudiziario) teorizzato da Charles-Louis de Secondat barone di La Brède e di Montesquieu nel suo Esprit des lois, ma tale teorizzazione non ha più di duecento anni: è in crisi di identità, la rappresentanza diminuisce, la partecipazione al voto scende a meno del 50% dei votanti: altri, dicono che non servirebbe più votare, da una parte, perché il Parlamento non è più rappresentativo, dall’altra, perché “tanto non cambia niente”.
La sfiducia è alimentata dall’indifferenza, dalla lontananza tra chi governa e chi vota, dalla dissoluzione della politica: uno spread tra cittadini e istituzioni.
L’impero romano, quello bizantino, la Serenissima (solo per citarne alcuni sistemi di convivenza sociale) sono entrati in crisi molti anni dopo, e non esisteva tale divisione di poteri.
Si disertano le elezioni, si perde la fiducia verso questo sistema di rappresentanza e la loro capacità di percepire la realtà.
Invero, la forma di governo democratico si caratterizza dal complesso delle procedure giuridiche che disciplinano i meccanismi di assunzione delle decisioni pubbliche destinate ad influenzare la vita della collettività; la forma di Stato (assoluto, liberale, liberaldemocratico, socialista) è riferita al complesso delle istituzioni e delle regole che caratterizzano i rapporti fra i cittadini e il governo, fra i governanti e i governati: concetto di regime politico e ordinamento dove la forma di governo (parlamentare, presidenziale, direttoriale) è data dal modo di distribuzione del potere politico fra i supremi organi dello Stato (BARBERA – FUSARO).
L’interpretazione maggioritaria della definizione attribuisce al concetto di democrazia il significato di “governo della maggioranza del popolo”, questo fatto pretenderebbe che le maggioranze devono governare e le minoranze stare all’opposizione (ma non si esclude che la minoranza di oggi possa diventare la maggioranza di domani (LIJPHART).
Altri definiscono la democrazia come: «la negazione dell’uomo in quanto individuo e in quanto soggetto del proprio pensiero. È l’apoteosi dell’uomo elettorale: dell’“uomo massa” e del prepensato. È il governo dei numeri. Si agisce sui numeri per governare gli uomini, e si agisce sugli uomini per governare i numeri» (VASSALI).
Si invoca il superamento del Parlamento, si propone l’estrazione dei parlamentari, forse perché l’individuazione operata a mezzo di sorteggio costituisce un criterio di scelta, in termini assoluti, che garantisce il rispetto del principio di “imparzialità” (T.A.R. Sicilia, Catania, sez. III, 4 novembre 2015, n. 2544), o forse in relazione allo loro indifferenza nell’essere determinanti nelle decisioni, o forse perchè «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato» (ex art. 67 Cost.).
In effetti, la contrapposizione tra mandato imperativo (mandat conctractuel) e mandato libero si connette al concetto di rappresentanza, da una lato, interessi privati, dall’altro, unità politica.
Colui che venga privato del potere di decidere in via autonoma si allontana dall’essenza della rappresentanza, e, nell’evoluzione storica, la trasformazione da mandato imperativo, ante rivoluzione francese, (BOBBIO) a libero viene fatta coincidere tout court con l’evoluzione dello Stato medioevale a Stato moderno (ACCARINO): «non è necessario che i rappresentanti, che hanno ricevuto da chi li ha scelti delle istruzioni generali, ne ricevano anche di particolari su ciascuna questione» (MONTESQUIEU).
Ora, se le prerogative attribuite ai rappresentanti dei cittadini consentono una libertà di espressione e di decisione nei processi di formazione delle leggi, una libertà che – alla luce dei fatti – allontana sempre più l’eletto dall’elettore, una lontananza che non regge con la realtà dei fatti, nel dilagante fenomeno del c.d. populismo, espressione neoliberale di vicinanza al popolo e ai suoi valori, o forse un cortocircuito tra coloro che pretendono di rappresentare il popolo e rappresentano solo se stessi (JOHN BENSON).
Del resto, la questione assume un significato diverso in funzione dei diversi contesti di riferimento, volendo, comunque, descrivere una definizione di democrazia con il significato di “potere del popolo” o che “il potere appartiene al popolo”.
Da qui, si potrebbe ricordare che gli elementi che costituiscono uno Stato sono: un popolo, un territorio, la sovranità.
Quando si legge al secondo comma dell’art. 1 della Costituzione Italiana che «la sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione», si dimentica ancora l’effettività, l’essere e il dover essere (KANT).
Ecco, ancora che la nozione di Stato può considerarsi come punto di imputazione di diritti e obblighi «come società organizzata… come comunità di persone (popolo) stanziata su un territorio ed organizzata secondo un ordinamento giuridico, che ha il carattere della originarietà (sovranità)» (VIRGA).
Allora, in questa visione etica, com’è possibile che a pagare siano sempre gli stessi (?): i cittadini (!).
I cittadini senza auto blu, senza scorte, senza vigilanza esterna alle proprie abitazioni, senza tutela dei risparmi, senza lobby, senza immunità, senza vitalizi, senza titoli, senza santi, senza lavoro… costretti ad emigrare quando altri immigrano.
Cittadini finanziatori con la “ludopatia” (i c.d. gratta e vinci) o le sigarette il bilancio dello Stato, senza contare che lo Stato, con il denaro raccolto, finanzia la sanità per curare i cittadini finanziatori, in un concetto malsano di tutela della salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (ex art. 31, comma 1, Cost).
Contraddizioni della democrazia partecipata, dove il do ut des delle nomine pubbliche premia il merito della fedeltà all’eletto (il c.d. ricambio o mediazione del consenso) più che a privilegiare le capacità, le professionalità mediante un processo di selezione comparativa tra le migliori menti; cervelli autoctoni in fuga che sono premiati e riconosciuti all’estero, formati nei nostri migliori atenei e a spese dei contribuenti nativi.
Altri, meno capaci, con pochi titoli (il loro migliore imprinting), meno produttivi ma più introdotti e raccomandati, chiamati (mediante call pubblica o selezioni formali) a ricoprire posti di comando in simbiosi con i vertici elettivi, dove la fiducia supera la competenza, dove il singolo si sente più uguale degli altri, in uno scambio generazionale senza soluzione di continuità (di generazione in generazione, la c.d. cooptazione).
Le regole di questa democrazia partecipata sono effettive, permeano i meandri delle maggioranze ma anche delle minoranze, in un continuo scambio di ruoli, dove si fatica a collocare la destra dalla sinistra e tutto si confonde, «anche la luce sembra morire. Nell’ombra incerta di un divenire. Dove anche l’alba diventa sera, E i volti sembrano teschi di cera» (FABER).
Non mancano delle incisioni quando la democrazia e le sue regole operano nel concreto, con l’applicazione della norma, dura lex, sed lex; subito traslata nell’aforisma «per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano» (GIOLITTI): e la storia non mente.
Le sanzioni economiche alle aziende non in regola con le norme sulla sicurezza (vedi, la vicenda ILVA) e il bilanciamento tra salute e lavoro, le multe degli autovelox o delle mancate revisioni strumento di prevenzione o metodologia finanziaria contabile, la mancata capacità contributiva con l’evasione e i condoni erariali (le rottamazioni alla faccia di chi ha pagato), gli accordi segreti delle multinazionali con il fisco, la riduzione degli accertamenti con adesione o gli studi di settore, il pagamento delle tasse nei paradisi fiscali, le residenze di comodo (offshore) sono forme prerogative dei cittadini o di coloro che comandano il vapore ?.
Siamo forse sicuri che tutti i cittadini sono uguali quando, nelle emergenze, altri sono più uguali e hanno un “trattamento speciale” utilizzando l’ambulanza per portarli dentro l’air jet (?), o per ritornare dal lavoro usando (o comprando air force) impropriamente (dicono alcuni) gli aerei di Stato e condannano il pilota (Corte Conti, sez. giur. Lazio, sentenza n. 224/2015) (?), o quando riformulano le norme sul peculato se usano l’auto di servizio ?.
È questa la democrazia che ci meritiamo ?.
Di fronte a tali ipocrisie che fare ?.
È più facile sanzionare con una multa il cittadino, con un autovelox per il superamento di qualche chilometro di velocità, specie quando devi andare in orario al tuo primo appuntamento di lavoro pagato con i voucher («… quando parlate di qui dentro mi sembra che tutti si siano dimenticati una cosa: ma nelle campagne elettorali quei ragazzi e quei giovani che utilizzate con cosa li pagate?. Con cosa li pagate? Questo vuol dire che qui dentro siamo degli ipocriti, siamo i primi a fare leggi sbagliate anche ben sapendo quando c’è il problema» (CAON, Decreto dignità, resoconto stenografico alla seduta 36 della Camera dei Deputati, Roma 1 agosto 2018); è più semplice pignorare lo stipendio quando non puoi portare i tuoi beni all’estero (?), quando altri evadono e riciclano (?), quando possono fondersi soggetti pubblici e privati in pieno conflitto di interessi (?), quando la commistione tra politica e denari facili è in prima pagina ?.
Emerge, scrissero, solo una visione personalistica non fondata su sani ideali o valori ma sull’affermazione dell’“io”: «ogni epoca avrà i suoi Clodi, non tutte dei Catoni. Siamo portati al peggio, intanto perché è difficile che ci manchino una guida o un compagno e poi perché la corruzione procede da sola anche senza guida o compagni» (SENECA).
E i cittadini pagano sempre per primi: «E io pago» (TOTÒ).