Quando la fiducia viene meno, questa si riflesse anche sul rapporto tra singolo gruppo politico (presente in consiglio) e assessore di riferimento (presente in giunta), incidendo de relato sulle relazioni (transitive e/o intransitive) tra sindaco e assessore (nomina di esclusiva competenza dell’organo monocratico).
La prima sezione del T.A.R. Lombardia – Brescia, con la sentenza 29 marzo 2013 n. 299, ha ritenuto legittimo il provvedimento sindacale di revoca di un assessore motivata “col richiamo ad una comunicazione del movimento politico” di appartenenza dell’assessore “che si ritiene da lei non più rappresentato” (fatto non contestato dall’interessato).
Il Tribunale, dopo una breve analisi fattuale, conclude con un richiamo alla giurisprudenza (per tutte: cita C.d.S. sez. V 5 dicembre 2012, n.6228) dove si chiarisce che “la revoca dell'incarico di assessore comunale non richiede comunicazione dell'avvio del procedimento poiché è provvedimento rimesso all’autonomo apprezzamento del solo Sindaco, che è responsabile dell’indirizzo politico amministrativo della sua Giunta e ne deve se mai rispondere al Consiglio comunale, restando escluso che sulle sue decisioni possa influire l’apporto partecipativo di altri soggetti”.
È di rilievo constatare che anche le posizioni del gruppo politico di riferimento dell’assessore possono incidere sulla sua permanenza in Giunta; infatti si annota in sentenza che il fatto storico dei contrasti intervenuti fra l’assessore e la forza politica di appartenenza, documentati anche dalla stampa locale, possono influire sulla stabilità della carica di assessore: “in tal senso, appartiene allora alla fisiologia del dibattito politico che un Sindaco, il quale conti sull’appoggio di un dato gruppo politico, che ha espresso un membro della Giunta, provveda a revocarlo ove il suo rapporto con tale gruppo venga meno, poiché ragionevolmente in tal modo vien meno il rapporto fiduciario che fra Sindaco e Assessore necessariamente sussiste”.
Breve commento: Pare giusto rilevare che la revoca di un provvedimento di nomina ad una carica politica, com’è quella di assessore comunale, costituisce l’esercizio di un potere che determina il cessare anticipato di una funzione pubblica.
Si tratta di un incarico a termine (incerto), il cui contenuto è – essenzialmente -collaborativo con il sindaco e il venir meno di questo legame partecipativo (e non necessariamente politico) autorizza il Capo dell’amministrazione a interrompere tali relazioni all’interno della giunta, sostituendo ipso iure un proprio membro.
Si tratta, certamente, di una facoltà concessa al sindaco, che identifica un forte potere decisionale in relazione alla diretta investitura da parte del corpo elettorale, il cui fine è quello di consentire il governo del territorio con soggetti in grado di rispondere alle esigenze amministrative più corrispondenti alle aspettative di successo del programma di mandato, sottoscritto dal sindaco in sede di presentazione della lista per la candidatura a primo cittadino.
Se, quindi, l’obiettivo primario è l’interesse al buon governo della città, è ammissibile ritenere che sussista un modo per rimuovere un assessore che non risponda più al percorso politico – amministrativo delineato dal sindaco, e questi, lecitamente, può revocare l’incarico con ampi margini di autorità, rectius autoritarismo (?).
Una recente sentenza della quinta sezione del Consiglio di Stato, la numero 209 del 23 gennaio 2007, ha stabilito il principio secondo il quale l’atto di revoca assume le connotazioni dell’ampia discrezionalità che rasenta, senza mai intaccarne, i margini della piena libertà; nel senso che tale scelta è – difficilmente – sindacabile, in sede di legittimità, se non sotto i profili formali e l’aspetto dell’evidente arbitrarietà (una pur minima motivazione è sempre possibile).
È noto che la discrezionalità amministrativa, che si differenzia dalla discrezionalità tecnica basata soltanto su aspetti di rigorosa valutazione fattuale, coinvolge scelte di opportunità amministrativa, e il concetto di opportunità attiene alla cura degli interessi pubblici coinvolti dall’azione amministrativa complessivamente intesa, con una primaria valenza sulla fase della scelta dell’interesse da perseguire, legato a canoni di mera opportunità politico amministrativa.
Ne consegue che in questo tipo di scelta discrezionale, attraverso l’acquisizione e la valutazione degli interessi coinvolti nel processo decisionale, si perviene ad una fase di giudizio positivo con il quale si giunge ad una scelta comparativa degli stessi (interessi), che presenta evidenti profili di volontà decidente, che si sostanziano, per queste ragioni, in scelte riservate all’Amministrazione e non sindacabili dal giudice amministrativo, attenendo al merito dell’azione amministrativa.
Viceversa, si tratterebbe di una discrezionalità tecnica che risulta priva di quest’ultimo elemento volitivo, dato che si risolve in un’attività di giudizio, condotta attraverso la sola acquisizione e valutazione di dati della realtà (vincolati a valutazioni tecniche) da contrapporsi alla manifestazione di volontà che, invece, contraddistingue la discrezionalità amministrativa che impinge, quindi, scelte di convenienza e opportunità.
In base a tali argomentazioni si potrebbe definire, in prima analisi, che l’atto di revoca rientra tra la discrezionalità pura caratterizzata dall’affidamento al suo titolare di un potere finalizzato al perseguimento del fine pubblico prefissato – la gestione del bene collettivo per la durata della legislatura -, attraverso la ponderazione degli interessi coinvolti alla realizzazione: pubblici e privati.
La sentenza in esame persegue tale prospettiva ermeneutica, e riforma la sentenza di primo grado, che censurava il vizio di mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di revoca dell’incarico di assessore comunale, oltre che di assenza di motivazione.
Il sindaco nella giunta trova il suo riferimento operativo, il suo nucleo decisionale per dar corso al programma di mandato, e gli assessori devono incentrare il proprio lavoro nel perseguire un progetto la cui regia e copione appartiene al Capo dell’amministrazione, la mancata produzione dei risultati, lo scostamento dalle linee programmatiche denotano lo scollamento dell’unitarietà d’intenti e autorizzano il sindaco a riequilibrare i pesi, estromettendo coloro che non si attengono a tali obiettivi politici, fonte diretta del consenso ricevuto e patto elettorale con le forze di coalizione (la maggioranza).
In relazione alla questione di merito, il Collegio giudicante si richiama integralmente al proprio precedente orientamento evidenziando i seguenti aspetti essenziali:
a. il sindaco nell’evoluzione normativa, avvenuta con l’elezione diretta (ex lege n. 81/1993), trova la sua legittimazione nel mandato elettorale, è organo responsabile dell’amministrazione del comune, propone gli indirizzi generali di governo al consiglio, e a questi riferisce sulla nomina motivata degli assessori: “il sindaco e il presidente della provincia nominano i componenti della giunta (…). Il sindaco e il presidente della provincia possono revocare uno o più assessori, dandone motivata comunicazione”;
b. la lettura del T.U.E.L. in merito al potere di nomina, e il coordinamento in termini motivazionali del provvedimento con l’articolo 3 della legge sul procedimento amministrativo (la legge n.241 del 1990) ha evidenziato la distinzione tra il provvedimento di incarico e la sua comunicazione o notificazione, precisando l’irrilevanza, ai fini della validità del provvedimento stesso, della mancanza di motivazione nella comunicazione o notificazione, oppure della presenza di eventuali irregolarità intervenute in essa.
Ciò posto, la regola generale prevede una comunicazione motivata al Consiglio, nel senso di evidenziare le ragioni di una scelta di fronte all’organo di indirizzo e direzione, mentre nulla viene in rilievo formale, in termini motivazionali, da rendere al soggetto inciso nell’atto di revoca, né può essere compatibile con il sistema delineato dal T.U.E.L. uno specifico voto consigliare di ratifica dell’operato del sindaco da parte dell’assise consiliare.
Questa prospettazione enunciativa acclara che l’obiettivo del legislatore è quello di favorire la concreta gestione dell’amministrazione locale da parte del sindaco (o del presidente della provincia) in relazione all’investitura diretta, senza dare sufficiente importanza, anche a livello di sequenza procedimentale, dell’eventuale cessazione di singoli assessori nello svolgimento quinquennale del mandato, dovendo privilegiare (per motivi contingenti) il meccanismo della stabilità e il rapporto che lega il sindaco al consiglio comunale, in relazione ai compiti tassativamente affidati, purché ciò sia sostanzialmente condiviso dal consiglio, anche implicitamente, potendo, quest’ultimo, eventualmente dissociarsi con l’estremo rimedio della mozione di sfiducia motivata (art. 37 della legge n.142/1990, come sostituito dall’art.18 della legge n.81/1993 ed art.52 Dec. Lgs. n.267/2000), che però comporta, in caso di approvazione, lo scioglimento del consiglio stesso, e la cessazione di ogni controversia sul punto e sui rapporti.
La disposizione, dunque, mette in luce diretta che la revoca dell’incarico di assessore è posta essenzialmente nella disponibilità del sindaco e che la comunicazione motivata è tendenzialmente diretta al mantenimento di un corretto rapporto collaborativo tra sindaco – giunta e giunta – consiglio, il venir meno del quale autorizza il sindaco all’adozione di misure tese alla stabilizzazione del rapporto fiduciario ricompresso nella giunta, allorché sia venuto meno.
(Estratto: La natura dell’atto di revoca dell’assessore comunale (note a margine della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. V, 23 gennaio 2007, n. 209), in LexItalia, 2007, n.2)