Il T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, con la sentenza 24 giugno 2019 n. 1450, stabilisce un principio di diritto essenziale per le libertà individuali, non potendo essere sanzionati per una condotta non consapevole: un addebito, per essere legittimo, deve fondarsi su fatti provati, su un’istruttoria completa, e sul principio della responsabilità.
Il fatto, che segna un prisma giuridico che va oltre al singolo caso, vede coinvolto un militare (di un nucleo investigativo) rimproverato (suo malgrado) per una relazione, breve e superficiale, con una cittadina straniera; relazione consistente in qualche messaggio e telefonata senza frequentazione de visu, senza svelare la propria qualifica.
La comminata sanzione disciplinare, recava come motivazione un dimostrato (che però non risulterà dimostrato) «minore senso di responsabilità per avere instaurato, trascurando la prudenza che il delicato incarico porrebbe e sottacendo la propria reale identità, un rapporto confidenziale con donna di nazionalità …, risultata successivamente gravata da pregiudizi di polizia e tratta in arresto per reati in materia di sostanze stupefacenti».
Risulta, dalle allegazioni probatorie, che i cosiddetti pregiudizi penali siano emersi successivamente alla cessazione del rapporto confidenziale telefonico e che il militare non abbia mai rivelato la propria qualifica: ergo come sia possibile addebitare una condotta riprovevole in assenza di un specifico e dimostrato addebito, è stata una circostanza fattuale riconosciuta a fondamento dell’illegittimità della sanzione e, quindi, fondato il ricorso: «i fatti contestati non evidenziano alcuna mancanza disciplinare».
Il Tribunale entra nel merito della condotta extra lavorativa del militare, visto che la relazione confidenziale “via cell.” non rientra tra le mansioni attribuibili con lo svolgimento dei compiti di istituto o con il comportamento prudente che un militare deve tenere anche al di fuori dell’orario di servizio (specie se appartenente a reparti investigativi).
Nulla è stato contestato sia sulla prestazione lavorativa, e sia dal rapporto extra lavorativo sotto il profilo squisitamente disciplinare, anche in considerazione che il militare ignorava la condotta di vita della cittadina straniera il cui comportamento, in violazione della normativa in materia di sostanze stupefacenti, è emerso solo successivamente; dunque, nel momento delle conversazioni/messaggi telefonici nulla poteva addebitarsi da una relazione virtuale senza contatto fisico.
Nella vita privata il militare è rimasto “sotto copertura” senza disvelare l’identità e senza interferire in alcuna attività investigativa; peraltro, in relazione alla brevità del rapporto, risultata di difficile identificazioni una condotta penalmente rilevante, accertata successivamente a tali “incontri”.
Il quadro probatorio evidenzia la piena buona fede del militare che ignorava le attività illecite, palesatesi successivamente e rispetto alle quali non era emerso alcun elemento che potesse indurre, in quel momento, a qualche sospetto nei suoi confronti, considerato che l’utilizzo dei “social” (facebook, twitter, istagram, linkedin, snapchat, telegram, twoo) sono ormai forme ordinarie di comunicazione che prescindono da un’effettiva e reale condivisione di conoscenza e/o rapporti personali: tale “amicizie” sono del tutto irrilevanti dal mondo reale, poiché «lo stesso funzionamento del social network consente di entrare in contatto con persone che nella vita quotidiana sono del tutto sconosciute»[1].
L’indifferenza del “contatto virtuale”, rappresentato da conversazioni e messaggi telefonici, prescindono da un “reale contatto fisico” (c.d. one to one), essendo – in questa forma – una modalità di socializzazione (caso di specie) che non è sfociata concretamente in alcuna misura di conoscenza personale[2], tale da rilevare, si potrebbe affermare, almeno una qualche presunzione di conoscenza effettiva(del mero vissuto), di conseguenza non è di per sé indice di effettiva conoscenza da sostenere l’onere motivazionale e la relativa prova (ex art. 3 della Legge n. 241/1990) sotto il profilo disciplinare.
Una sanzione disciplinare deve allegare i fatti probatori (anche testimoniali) e non le presunzioni, specie se fondate su elementi successivi al fatto: è indispensabile un elemento di prova che però non trova obiettivo riscontro in alcun atto istruttorio o documento processuale rendendo, pertanto, infondato il fatto contestato nella sanzione.
Si potrebbe anche sostenere, come in altro precedente[3], per quanto possa apparire suggestivo che un appartenente alle forze investigative (ed in incognito) dialoghi e ciatti (da chattare), seppure per un tempo limitato, con uno sconosciuto/a.
Tale circostanza descritta non è però sufficiente per sostenere la responsabilità disciplinare, dovendosi, a tal fine, dimostrare sempre i fatti contestati: per principio generale nell’ordinamento giuridico l’onere della prova, sia sul piano sostanziale sia su quello processuale, spetta a colui che avanza una pretesa o una domanda, per cui in un procedimento disciplinare è ineludibile la necessità di un adeguato riscontro probatorio della addebitabilità dei fatti di cui l’incolpato è responsabile sotto il profilo disciplinare[4].
Va aggiunto che nel procedimento disciplinare (compreso il suo iter processuale), rileva – in via primaria – l’elemento probatorio, dovendo sempre superare l’incertezza dei fatti costitutivi di contestazione, allegandone le prove (anche nell’atto introduttivo, seppure implicitamente, e sempre che sussistano significative “piste probatorie” emergenti dai mezzi istruttori, intese come complessivo materiale probatorio, anche documentale, correttamente acquisito agli atti del giudizio)[5].
Nello sfondo, significativamente in presenza della prova tale condotta extralavorativa risulterebbe censurabile.
[1] T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. I, 3 maggio 2017, n. 281.
[2] Cfr. T.A.R. Liguria, Genova, sez. II, 3 settembre 2014, n. 1330.
[3] T.A.R. Marche, sez. I, 18 ottobre 2012, n. 650, riferito ad una sanzione disciplinare inflitta ad un militare ritenuta illegittima mancando le prove testimoniali che il militare, in abiti civili e libero dal servizio, ha tenuto un comportamento consistente nel palpeggiamento di una donna sua conoscente, pur essendo da questa schiaffeggiato in pubblico.
[4] Cons. Stato, sez. III, 12 settembre 2016, n. 3843, idem T.A.R. Molise, sez. I, sentenza n. 529/2017.
[5] Cass. Civ., sez. lavoro, 19 marzo 2019, n. 7657.