Il principio
La sez. Lavoro della Cassazione civile, con la sentenza del 15 ottobre 2021, n. 28353 interviene per chiarire l’ambito applicativo dei controlli del datore di lavoro e i diritti dei lavoratori a fronte dell’inadempienza del primo in materia di sicurezza: un lavoratore può legittimamente rifiutare la prestazione in assenza di tutele antinfortunistiche, obbligo non ascrivibile al lavoratore ma unicamente al datore di lavoro, cogente con l’esigenza di effettività di tutela e con la stessa natura primaria degli interessi coinvolti.
Giova rammentare che il primo comma dell’art. 1 della Cost. recita «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (principio lavoristico), esprimendo un valore costituente fondativo quale strumento qualificato per la realizzazione della personalità e di adempimento del dovere di solidarietà in un ambiente lavorativo sicuro (ex d.lgs. n. 81/2008).
Il lavoro come fine costituzionale di un Paese democratico, in una società che assicuri rapporti economici stabili nella realizzazione di uomini liberi ed uguali (ex art. 3 Cost.): lavoro da rendere effettivo promuovendone le condizioni, e di un dovere, quello di «svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (ex art. 4 Cost.), dove il ruolo del datore di lavoro è proprio quello di apprestare ogni azione con il fine di garantire la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro[1].
La questione affrontata
Nella sua essenzialità alcuni lavoratori venivano sospesi dal lavoro e dalla retribuzione per essersi rifiutati, pur dopo averne ricevuto ordine scritto, di «condurre un treno adibito al trasporto merci con il modulo di “equipaggio misto” … e, pertanto, nell’assenza di altro macchinista o agente abilitato alla guida».
Gli stessi trovano ristoro in sede giudiziaria (annullamento della sospensione): le motivazioni della condotta mantenuta attenevano all’assenza di sicurezza nella prestazione lavorativa, causa di giustificazione putativa, atteso che la modalità di servizio poteva costituire (un giudizio prognostico ex ante) «un pericolo per sé e per gli altri», inducendo gli stessi al loro dovere di rifiutarne lo svolgimento, a tutela della loro integrità fisica.
Il datore di lavoro ricorre alla Corte ritenendo che una giustificazione in un dato oggettivo doveva essere rigettata, avendo dovuto i lavoratori dimostrare la effettiva (e non soltanto percepita) pericolosità di un servizio così congegnato (peraltro, assecondato dall’organizzazione sindacale di appartenenza, senza che alcuna modifica o ulteriore misura di sicurezza).
Ordine scritto
Viene chiarito che quando è stato rinnovato per iscritto un ordine attinente alla esplicazione delle proprie funzioni o mansioni, quando la previsione negoziale della contrattazione collettiva dispone di non eseguire l’ordine «quando la sua esecuzione possa comportare la violazione di norme penalmente sanzionate», assegna al lavoratore la titolarità di una posizione di garanzia, la quale può derivare anche da una fonte di natura privatistica e pure da una mera situazione di fatto[2]: la titolarità di una posizione rilevante ai sensi dell’art. 40, Rapporto di causalità, secondo comma, cod. pen., per il quale «non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo».
Gli obblighi a carico del datore di lavoro
In primis la Cass. premette che il datore di lavoro è obbligato ad assicurare condizioni di lavoro idonee a garantire la sicurezza delle lavorazioni e, in particolare, è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro (ex art. 2087 cod. civ.) e che deve essere interpretato in conformità con l’art. 32 Cost. (sulla tutela del diritto alla salute) e con l’art. 41 Cost. (secondo cui l’iniziativa economica privata non può svolgersi in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana)[3].
In effetti, in tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni da ultimo citata postula che la parte che subisce l’inadempimento non deve dimostrare la colpa dell’altra parte, dato che, ai sensi dell’art. 1218 cod. civ., è il debitore – datore di lavoro che deve provare che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la controparte derivano da causa a lui non imputabile, con un onere cogente di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state violate: il datore di lavoro deve provare che l’asserito debitore (il lavoratore) ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell’esercizio dell’impresa, debbono essere adottate per tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro[4].
Si comprende che il c.d. obbligo di sicurezza che incombe sul datore di lavoro comporta necessariamente che il prestatore di lavoro deve essere posto al riparo da ogni stato di pericolo nascente dall’attività lavorativa e dell’ambiente in cui opera, posta la particolare configurazione del rapporto di lavoro, il quale non si risolve in un mero scambio di prestazione lavorativa contro retribuzione, ma determina una situazione più complessa la quale implica necessariamente l’esigenza di tutela della personalità fisica e morale del lavoratore[5].
La violazione degli obblighi di sicurezza
Nei contratti a prestazioni corrispettive, quando una delle parti giustifica il proprio comportamento inadempiente con l’inadempimento dell’altra, occorre procedere ad una valutazione comparativa del comportamento dei contraenti anche con riguardo ai rapporti di causalità e di proporzionalità delle rispettive inadempienze in relazione alla funzione economico-sociale del contratto (la causa) ed ai diversi obblighi su ciascuna delle parti gravanti (il rapporto sinallagmatico), il tutto per stabilire se effettivamente il comportamento di una parte giustifichi il rifiuto dell’altra di eseguire la prestazione dovuta.
Una giustificazione del comportamento inadempiente del lavoratore trova fondamento dall’inosservanza delle misure di sicurezza predisposte dal datore di lavoro: tale valutazione deve passare attraverso una comparazione tra il comportamento datoriale, cronologicamente anteriore, ed il successivo “adempimento” della prestazione, in funzione anche del requisito della buona fede, previsto dal comma 2, dall’art. 1460, cod. civ.: la proposizione dell’eccezione inadimplenti non est adimplendum sussiste quando tale rifiuto sia stato determinato non solo da un inadempimento grave, ma anche da motivi corrispondenti agli obblighi di correttezza che l’art. 1175 cod. civ. impone alle parti in relazione alla natura del contratto e alle finalità da questo perseguite.
Ne deriva la violazione del datore dell’obbligo di sicurezza e legittima i lavoratori a non eseguire la prestazione, eccependo, ai sensi dell’art. 1460 cod. civ., l’altrui inadempimento[6].
Appare corretto rilevare che tali misure vengono in considerazione con riguardo all’omissione di misure di sicurezza cosiddette “innominate”, e non in riferimento a misure di sicurezza espressamente e specificamente definite dalla legge o da altra fonte ugualmente vincolante, osservando che rispetto a tali misure “innominate” la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati oppure trovino riferimento in altre fonti analoghe[7].
L’approdo cristalizza che in tema di responsabilità (ex art. 2087 cod. civ.) grava sul datore di lavoro, ai fini del superamento della presunzione di cui all’art. 1218 cod. civ., l’onere di dimostrare di aver rispettato le norme specificamente stabilite in relazione all’attività svolta e di avere adottato tutte le misure che, in considerazione della peculiarità dell’attività e tenuto conto dello stato della tecnica, siano necessarie per tutelare l’integrità del lavoratore, e di vigilare sulla loro osservanza[8].
Il rifiuto della prestazione
Il precipitato di questo orientamento consolidato comporta che in caso di violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza è legittimo, a fronte dell’inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, conservando, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore[9].
Il pronunciamento conclude nel richiamare i profili di rilievo costituzionale degli obblighi protezione, presidiati dall’art. 2087 cod. civ., dove vengono riconosciute – in tutte le forme – la tutela dei beni a fronte di situazioni soggettive potenzialmente lese: l’effettività concreta di tale tutela, in ambito civile, viene assicurata legittimamente non solo con azioni volte all’adempimento dell’obbligo di sicurezza o alla cessazione del comportamento lesivo, ovvero a riparare il danno subito, ma anche con l’esercizio del potere di autotutela contrattuale rappresentato dall’eccezione di inadempimento, con il rifiuto dell’esecuzione di una prestazione in ambiente nocivo soggetto al dominio dell’imprenditore[10].
Al termine, viene esclusa la configurabilità di un illecito disciplinare, confermando che in caso di violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di sicurezza, di cui all’art. 2087 cod. civ., non solo è legittimo, a fronte dell’inadempimento altrui, il rifiuto del lavoratore di eseguire la propria prestazione, ma costui conserva, al contempo, il diritto alla retribuzione in quanto non possono derivargli conseguenze sfavorevoli in ragione della condotta inadempiente del datore.
Riflessioni a margine
La sentenza presenta una sua salvifica attualità in relazione alle misure di contenimento della COVID-19 e al suo strumento principe il green pass (GP): nelle sue diverse modalità di acquisizione, con una vaccinazione sperimentale o con i tamponi (test antigenico/molecolare).
Alcuni ritengono di affermare che si tratti di due sistemi alternativi che, oltre a dividere il popolo, e quella sovranità riposta nel lavoro come fine democratico, presentano sicurezze diverse alla verifica/trasmissione del contagio: una a lunga scadenza, l’altra nell’arco di quarantotto ore.
Da una parte, una scelta individuale volontaria di sottoporsi al trattamento sanitario, un dovere di mutua solidarietà sociale, dall’altra, un obbligo a fronte di un’esitazione a “fidarsi della scienza”, anzi si tratterebbero di “spinte gentili” (c.d. nudge) alla vaccinazione, mediante un sistema di incentivi o disincentivi, in mancanza del quale (del GP) la prestazione lavorativa non può essere resa: due alternanze dall’intervento autoritativo del c.d. biopotere, a tutela della salute pubblica (ex art. 32 Cost.), quale interesse della collettività e nei luoghi di lavoro, tra un bilanciamento di lecita imposizione (il vaccino)[11] e rele(ne)gata libertà (il lasciapassare verde)[12].
[1] MEZZETTI, Manuale breve di diritto costituzionale, Milano, 2009, pag. 81.
[2] Cass. pen., sez. IV, 9 aprile 2019, n. 24372.
[3] Cass., sez. lav. 26 giugno 2019, n. 17129.
[4] Cass. civ., sez. lav., 25 ottobre 2021, n. 29909.
[5] Cass. civ., sez. III, 21 settembre 2021, n. 25512.
[6] Cass., sez. lav. 7 maggio 2013, n. 10553.
[7] Cass., sez. lav., 5 gennaio 2016, n. 34 e 2 luglio 2014, n. 15082.
[8] Cass., sez. lav., 9 giugno 2021, n. 14468/2017, ove di converso si aggiunge che non può esigersi dal datore di lavoro la predisposizione di accorgimenti idonei a fronteggiare cause d’infortunio del tutto imprevedibili.
[9] Cass., sez. lav., 1° aprile 2015, n. 6631.
[10] Cass., sez. lav., 19 gennaio 2016, n. 836.
[11] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7054.
[12] Cfr. LUCCA, Gli obblighi abnormi di mascheramento e confinamento vaccinale: dal green pass all’uomo nuovo digitale, comedonchisciotte.org, 25 agosto 2021.