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Articolo Pubblicato il 20 Giugno, 2024

L’acquiescenza del consigliere comunale dissenziente

L’acquiescenza del consigliere comunale dissenziente

La sez. I Napoli del TAR Campania, con la sentenza 13 giugno 2024 n. 3734, interviene su un argomento consolidato ove il consigliere comunale non può eccepire la violazione dei suoi diritti, quando concorre nella determinazione (dibattito) del contenuto deliberativo, eccependo poi (in seguito) la presenza di vizi sulle modalità di convocazione del Consiglio comunale (che avrebbero consentito al consigliere stesso di porre una questione pregiudiziale, con il rinvio della seduta), impeditivi all’esercizio della funzione in modo consapevole e nei termini (tempo a disposizione) necessari per esprimere il proprio voto[1].

La lesione dell’interesse diretto e la legittimazione

È noto che la legittimazione processuale dei consiglieri comunali, in relazione alle attività inerenti alla funzione pubblica esercitata, con riferimento specifico agli atti adottati dal Consiglio comunale sussiste solo per la violazione delle prerogative inerenti al proprio status (un diritto spettante alla persona investita della carica di consigliere)[2]: si tratta di un’azione a carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è di regola aperto alle controversie tra organi o componenti di organi di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive, per cui essa rimane circoscritta alle sole ipotesi di lesione della loro sfera giuridica[3].

Allo stesso modo, deve ritenersi privo di legittimazione a ricorrere il consigliere comunale che impugni una deliberazione della giunta adottata su argomento ritenuto di competenza del consiglio, in quanto il contrasto non riguarderebbe in modo diretto il singolo consigliere, bensì – al più – il consesso del quale lo stesso faccia parte[4].

Il fatto

Nella sua essenzialità, un consigliere comunale impugna la deliberazione di approvazione del rendiconto di gestione e di approvazione del bilancio di previsione, ritenendo di aver subito un torto: «in quanto lesivo dei diritti e degli interessi» del consigliere dissenziente (ricorrente)[5].

Nello specifico, sono mancati i termini per visionare e analizzare gli atti istruttori di accompagnamento (relazione del revisore dei conti), violando le prescrizioni attinenti alla messa a disposizione della documentazione in tempo utile, precedente alla seduta del Consiglio, impedendo al consigliere a esprimere il proprio voto utile (informato).

La civica amministrazione eccepiva l’avvenuta acquiescenza alla presunta irregolarità sanata con la partecipazione alla seduta, e conseguente decadenza dall’interesse legittimo e dalla legittimazione a fare valere, in via giudiziaria, la violazione del munus.

Nelle more il TAR respingeva la richiesta di sospensione provvisoria dell’esecuzione dei provvedimenti impugnati, mentre il Consiglio di Stato, con ordinanza, respingeva l’appello prevalendo, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, l’adozione degli atti deliberativi.

L’acquiescenza.

Il giudice di prime cure accoglie l’eccezione di inammissibilità proposta dall’Amministrazione comunale resistente per la condotta assunta dal consigliere con la partecipazione alla seduta, precisando che l’acquiescenza indica la rinuncia alla tutela giurisdizionale a seguito dell’accettazione di un provvedimento amministrativo da parte del soggetto che abbia subito, per effetto di quest’ultimo, la lesione di un proprio interesse sostanziale, diritto soggettivo o interesse legittimo[6].

In termini diversi, la partecipazione alla seduta dimostra un comportamento concludente, incompatibile con la richiesta successiva di tutela, diversamente il consigliere doveva dissociarsi dalle modalità con le quali la seduta veniva convocata, eccependo la mancanza del tempo, previsto dal regolamento, per il deposito degli atti/giorni (liberi) dalla seduta, e dunque, richiedere il rinvio (una questione pregiudiziale da porre dopo la costituzione del quorum ad appello terminato).

L’approdo porta a ritenere che in mancanza di ogni rimostranza al momento di apertura della seduta (ovvero, in altra forma comunicato al presidente del consiglio sull’eventuale assenza motivata) si forma un’implicita rinuncia ad avvalersi dei rimedi amministrativi messi a disposizione dall’ordinamento legislativo o regolamentare e, di riflesso, anche dei mezzi d’impugnazione previsti per legge: prendere parte alla discussione della seduta consiliare dedicata al rendiconto ed al bilancio ed esprimere un voto contrario non può che significare rinunciare alla tutela inerente all’esercizio della funzione (ossia, sanare il vizio di convocazione).

Estensioni

In effetti (estendendo il riferimento), il codice civile, all’art. 2379 bis, Sanatoria della nullità, esprime il medesimo risultato: «L’impugnazione della deliberazione invalida per mancata convocazione non può essere esercitata da chi anche successivamente abbia dichiarato il suo assenso allo svolgimento dell’assemblea», rilevando che la partecipazione totalitaria del capitale sociale sana il vizio di mancata convocazione[7]: una volta che colui che impugna la delibera abbia dimostrato la sua mancata partecipazione all’assemblea cui essa si riferisce, è sufficiente che il medesimo alleghi di non aver ricevuto alcuna convocazione, spostandosi sulla società convenuta l’onere di provare di aver ottemperato a tale obbligo[8].

In ambito societario, così come in quello consiliare, l’indicazione, nell’avviso di convocazione, dell’elenco delle materie da trattare ha la duplice funzione di rendere edotti i soci circa gli argomenti sui quali essi dovranno deliberare con lo scopo di assicurare una partecipazione consapevole, frutto della consultazione degli atti messi a disposizione in preparazione della seduta nelle modalità e nei tempi regolamentari, evitando da una parte che sia frustata la buona fede degli assenti a seguito di deliberazione su materie non incluse nell’ordine del giorno, dall’altra parte, consentire ai partecipanti di essere validamente informati prima di prendere una decisione con il proprio voto.

La presenza in assemblea e la leale collaborazione

La sentenza conferma che la rinuncia di avvalersi dei meccanismi procedurali previsti dal Regolamento comunale (avendo questi rinunciato a farli valere), a tutela delle prerogative dei consiglieri, partecipando alla seduta e al voto dimostra in modo inequivocabile la rinuncia all’azione a tutela dei propri diritti, quelli attinenti alla carica, integrando i presupposti per un comportamento qualificabile in termini di deliberata acquiescenza o di dismissione del diritto a fare valere vizi propri della convocazione della seduta.

In termini generali, annota il giudice, l’acquiescenza al provvedimento amministrativo è ravvisabile in presenza di atti o comportamenti univoci (facta concludentia), posti liberamente in essere dal destinatario dello stesso, tali da dimostrare la chiara e inconfutabile sua volontà di accettarne gli effetti e l’operatività: una rinuncia preventiva alla tutela giurisdizionale con conseguente carenza di legittimazione attiva, prima ancora che di interesse, ad agire in giudizio[9].

Di contro, costituisce precetto condiviso da dottrina e giurisprudenza[10] che l’acquiescenza ad un provvedimento amministrativo sfavorevole postula l’incondizionata accettazione del contenuto precettivo dell’atto da parte dell’interessato, sicché la volontà di prestare l’acquiescenza deve escludersi ogni qualvolta l’assetto di interessi venga accettato dal destinatario solo subordinatamente alla realizzazione in futuro di determinate condizioni o specifici presupposti[11].

A rafforzare il contenuto della condotta, nel senso di non aver fatto esercizio del diritto di richiedere il rinvio della seduta per un difetto di convocazione, vengono richiamati i principi generali di leale collaborazione alla luce dei canoni di correttezza e buona fede oggettiva i quali, nei rapporti tra privato e PA, sono applicabili in direzione biunivoca, non solo da parte dell’Amministrazione nei confronti del cittadino ma anche in senso contrario, ex art. 1, comma 2 bis, della legge 241/1990): «l’ordinamento pretende infatti che tutti i soggetti coinvolti ispirino le loro condotte ai canoni di reciproca lealtà e collaborazione».

In definitiva, il consigliere dissenziente (che vota contrario) non può impugnare un atto a lui sgradito invocando un vizio procedurale (irregolarità della convocazione) quando non si sia attivato con modalità previste nel regolamento, e poi pretendere dal giudice di avere giustizia, rinviando – in sede giurisdizionale – la verificazione di circostanze che aveva l’onere di palesare e contestare tempestivamente in sede amministrativa[12].

La legittimazione e l’acquiescenza

La sentenza termina nel richiamare l’orientamento giurisprudenziale, secondo il quale la legittimazione dei consiglieri comunali dissenzienti ad impugnare le delibere dell’organo di cui fanno parte ha carattere eccezionale, dato che il giudizio amministrativo non è, di regola, aperto alle controversie tra organi (o addirittura componenti di organi) di uno stesso ente, ma è diretto a risolvere controversie intersoggettive[13].

Sussiste la legittimazione in presenza della lesione delle prerogative inerenti al munus esercitato, compendiate nella formula del c.d. jus ad officium, non assimilabili alle violazioni formali o procedimentali, ma solamente a quelle che incidono direttamente nella lesione dei diritti attinenti al cit. status.

Su questo ultimo punto, la giurisprudenza[14] ha, altresì, precisato che il vizio meramente procedurale è rilevante allorquando, senza farvi sostanziale acquiescenza:

  1. a) il consigliere prenda, in concreto, parte attiva – sempreché beninteso vi sia stato messo nelle rituali condizioni – alle sedute consiliari ed alla discussione nel merito delle questioni, senza optare per la mera astensione in sede di votazione finale;
  2. b) senza limitarsi alla mera denunzia della violazione delle proprie prerogative, attivi i meccanismi procedurali previsti, a tutela, dalla disciplina di settore, proponendo all’uopo mozioni d’ordine, richieste di sospensione o di rinvio della seduta.

Ne discende che, quando un componente di un organo collegiale sia presente nella seduta del medesimo organo e non segnali la ritenuta illegittimità o irregolarità procedurale, né si attivi con i meccanismi apprestati dall’ordinamento (rectius regolamento del consiglio comunale), diventano del tutto irrilevanti i presunti vizi, avendo abdicato ai propri diritti (alias una sostanziale acquiescenza, aspetto rinvenibile sul piano fattuale dal verbale di seduta).

Si può dedurre dall’inquadramento esegetico che solo la lesione diretta ed immediata del diritto all’ufficio del consigliere comunale può fare sorgere, quindi, la legitimatio ad agendum, ovvero l’interesse personale al ricorso al fine del ripristino della situazione sostanziale lesa, attraverso la rimozione della situazione antigiuridica affidata all’organo giurisdizionale[15]: i componenti del consiglio comunale possono impugnare in sede giurisdizionale le sole deliberazioni dell’organo collegiale di cui fanno parte solo per i vizi del procedimento allorché tali vizi incidano sulla loro posizione giuridica di consigliere, salvo l’acquiescenza con la partecipazione alla seduta.

[1] Il ritardo con cui è stata messa a disposizione dei consiglieri la documentazione posta all’odg (caso di specie, relazione dell’organo di revisione, solo due giorni prima della seduta consiliare invece dei venti previsti) arreca un vulnus alle prerogative consigliari, impedendo una deliberazione consapevole, Cons. Stato, sez. V, 21 giugno 2018, n. 3814.

[2] Cons. Stato, sez. V, 4 maggio 2004, n. 2699.

[3] Si rinvia, LUCCA, Legittimazione attiva dei consiglieri comunali sugli atti del Consiglio comunale, www.segretaricomunalivighenzi.it, 1° febbraio 2019, ove si evidenzia che la legittimazione sussiste quando si riscontra una lesione ad un suo interesse personale diretto, giacché il consigliere non può impugnare le deliberazioni con le quali è semplicemente in disaccordo, perché ciò significherebbe trasporre e continuare nelle sedi di giustizia la competizione che lo ha visto in minoranza, gravando le sedi medesime di decisioni che competono all’organo collegiale elettivo.

[4] TAR Campania, Salerno, sez. III, 19 giugno 2023, n. 1444.

[5] È stato chiarito, in una fattispecie diversa, che il componente dell’organo collegiale decade dalla possibilità di impugnazione solo se partecipa attivamente alla seduta e alla votazione favorevole senza manifestare e far verbalizzare il proprio dissenso alla delibera; ciò in quanto la partecipazione attiva alla seduta e la votazione favorevole alla approvazione della delibera, comporta la imputabilità del deliberato anche al componente presente non dissenziente, con conseguente acquiescenza al provvedimento, cfr. Cons. Stato, sez. V, 7 novembre 2007, n. 5759.

[6] L’acquiescenza ad un provvedimento amministrativo sussiste solo nel caso in cui ci si trovi in presenza di atti, comportamenti o dichiarazioni univoci, posti liberamente in essere dal destinatario dell’atto, che dimostrino la chiara ed incondizionata volontà dello stesso di accettarne gli effetti e l’operatività, Cons. Stato, sez. VI, 4 luglio 2014, n. 3407.

[7] Tribunale Roma, sez. V civ., 12 maggio 2023, n. 7545, dove si rigettava l’impugnazione di una delibera assembleare ove il contestato vizio formale della convocazione veniva sanato dalla presenza e partecipazione in assemblea.

[8] Tribunale Roma, sez. III, 15 giugno 2015, n. 13061.

[9] Cfr., Cons. Stato, sez. V, 29 aprile 2024, n. 3853 e 5 dicembre 2022, n. 10635; sez. IV, 12 giugno 2014, n. 2998.

[10] Cons. Stato, sez. IV, 20 dicembre 2000, n. 6848.

[11] TAR Liguria, sez. II, 2 ottobre 2015, n. 756.

[12] Cfr. TAR Sicilia, Catania, sez. V, 23 ottobre 2023, n. 3134.

[13] Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 13 aprile 2021, n. 3034; Cons. Stato, sez. V, 13 febbraio 2019, n. 1046.

[14] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 2 dicembre 2015, n. 5549.

[15] Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13 aprile 2021, n. 3034.