La prima sez. del T.A.R. Molise, con la sentenza n. 38 del 28 gennaio 2019, interviene per richiamare i principi dell’evidenza pubblica nella concessione di un bene pubblico in uso o in comodato: l’assegnazione diretta della gestione non è coerente con i principi dell’ordinamento giuridico, anche quando non siano presenti richieste di utilizzo del bene.
L’evidenza pubblica è lo strumento giuridico per l’assegnazione dei beni, e la pubblicità costituisce l’offerta al pubblico per la presentazione di proposte, avendo lo scopo di sollecitare il privato eventualmente silente.
I beni pubblici vanno concessi attraverso una procedura aperta, comparativa, trasparente mediante un interpello del mercato (c.d. call pubblica), trattandosi sempre di una risorsa che appartiene alla Comunità e che la Pubblica Amministrazione è chiamata, appunto, ad amministrare nell’interesse pubblico, di tutti.
Già nell’immediatezza, l’art. 12, comma 1 della Legge n. 241/1990 indica la via: «…l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a persone ed enti pubblici e privati sono subordinate alla predeterminazione da parte delle amministrazioni procedenti, nelle forme previste dai rispettivi ordinamenti, dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni stesse devono attenersi».
Nella sua essenzialità, la norma intende rendere in chiaro il processo di individuazione dei beneficiari, senza possibilità di interferenze e condotte arbitrarie, con l’esercizio di una discrezionalità tecnica fondata su regole certe e predefinite, a garanzia dell’imparzialità dell’azione amministrativa e dei principi di eguaglianza sostanziale di tutti i cittadini e le forme sociali di fronte alla legge (ex art. 97 e 3 Cost.).
La violazione delle regole procedimentali, l’assenza di pubblicità di sorta dell’iniziativa, il difetto di previa attività istruttoria di verifica della legittimazione del singolo richiedente, l’omessa valutazione della rilevanza sociale dell’intervento, la mancata disamina di altre analoghe richieste di compartecipazione pervenute all’Amministrazione costituiscono profili di violazione delle regole di condotta, che rientrano comunemente nella disciplina regolamentare attinente all’erogazione dei contributi, disposta dall’art. 12 della legge sul procedimento amministrativo, strumentale ad ogni assegnazione di un’utilità, alias bene pubblico.
La sentenza n. 38/2019, della prima sez. del T.A.R. Molise, traccia – nella sua chiarezza espositiva – i pilastri posti alla base dell’ordinamento giuridico nazionale e comunitario: la trasparenza, l’imparzialità e il buon andamento, in una dimensione che può parametrarsi a riferimento per tutte le procedure pubbliche o di rilievo pubblico.
I ricorrenti, titolari del tesserino d’idoneità per la raccolta del tartufo, riunitisi in un’associazione contestavano il rinnovo dell’affidamento diretto della conduzione di una tartufaia (e relativa porzione di terreni pubblici) controllata del Comune ad altra associazione privata, che già gestiva il bene da oltre vent’anni: assegnazione senza alcuna procedura concorsuale, competitiva o di evidenza pubblica.
Inoltre, alcuni dei ricorrenti, proprietari di terreni nell’area della tartufaia controllata, manifestavano il proprio dissenso al rinnovo dell’inclusione dei propri terreni nel perimetro della tartufaia, avendo già diffidato l’associazione privata (controinteressato) a rimuovere le relative tabellazioni e le Amministrazioni intimate a prenderne atto, disponendo la revoca del riconoscimento della tartufaia e dell’affidamento.
Alcune violazioni segnalate:
- rinnovo dell’affidamento della conduzione della tartufaia in assenza di gara;
- affidamento o concessione o comodato di terreni di proprietà pubblica, ovvero di concessione in comodato gratuito e a tempo indeterminato di terreni comunali, senza evidenza pubblica;
- violazione ed errata applicazione dell’art. 3 comma 1, R.D. 18 novembre 1923, n. 2440;
- violazione ed errata applicazione degli artt. 3 e 12 della Legge n. 241/1990;
- omessa predeterminazione di criteri di assegnazione;
- violazione dei principi di parità di trattamento, non discriminazione e trasparenza tra gli operatori economici, nonché dei principi comunitari di concorrenza e libertà di stabilimento (T.F.U.E.);
- violazione ed errata applicazione dell’art. 97 Cost.;
- declaratoria di inefficacia o nullità del contratto di comodato, ove stipulato, avente a oggetto i terreni di proprietà pubblica costituenti la tartufaia controllata.
Il Tribunale afferma in primis la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sia in materia di concessione di beni pubblici, ex art. 133, comma 1, lett. b), del cod. proc. amm., che sul procedimento di scelta del contraente della P.A., ex art. 133, comma 1, lett. d), punto 1), del cod. proc. amm.; mentre viene sottratta la giurisdizione del G.A. sulla domanda di declaratoria di inefficacia o nullità del contratto di comodato, eventualmente stipulato, avente a oggetto i terreni di proprietà pubblica costituenti la tartufaia controllata, ex artt. 121 e 122 c.p.a., così come per la questione della contestata inclusione dei terreni privati nel perimetro della tartufaia, nonché la questione dei diritti di proprietà sui prodotti della tartufaia discendenti dagli atti di concessione del godimento.
Inoltre, il Tribunale tiene a precisare che anche se l’assenza di usi civici, sulle menzionate aree pubbliche date in uso all’associazione privata, non consente di qualificare le medesime come «demanio comunale» né come «patrimonio indisponibile», nondimeno si tratta di un bene pubblico destinato all’uso collettivo del quale l’Amministrazione concede a privati l’uso esclusivo o la gestione; osservazione per ribadire (poi) che i beni pubblici, indipendentemente dalla qualificazione giuridica, vanno concessi mediante gara.
Appare utile, altresì, ricordare la distinzione tra bene demaniale (ex art. 822 c.c.), bene del patrimonio indisponibile e disponibile con riferimento alla gestione e al ricorso allo strumento della concessione amministrativa o del contratto di locazione, secondo distinte regole del diritto pubblico o comune.
I beni demaniali e quelli appartenenti al patrimonio indisponibile sono caratterizzati da un nesso inscindibile con la finalità pubblica, non potendo essere sottratti alla loro destinazione pubblica che ne caratterizza la regolamentazione a matrice pubblicistica (ex artt. 823 e 828 c.c.); mentre i beni appartenenti al patrimonio disponibile (non finalizzati ad un’utilità pubblica) sono strumentali ad assolvere il fine pubblico in modo indiretto, attraverso la loro utilizzabilità a scopi economici (c.d. reddittività), secondo le regole del diritto privato.
La gestione, in relazione alla natura giuridica del bene, si distingue per lo strumento giuridico pubblicistico della concessione (per i beni demaniali o del patrimonio indisponibile) o privatistico della locazione (per i beni del patrimonio disponibile, fattispecie tipica di negozio di godimento di un bene per un dato periodo di tempo), ferma restando la procedura ad «evidenza pubblica» per l’assegnazione.
Significativamente, l’ANAC (ex AVCP) con la Deliberazione n. 75 del 1° agosto 2012 (e Delibera n. 48 del 17 giugno 2015, ha osservato che «la scelta di un concessionario o di un soggetto cui attribuire un diritto reale su un bene di proprietà comunale deve (…) avvenire nel rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento comunitario (articoli 43 e 49 trattato CE) e dei principi generali in materia di contratti pubblici che richiedono lo svolgimento di procedure di selezione del contraente»[1].
La delibera ANAC n. 32/2016 è ancor più selettiva: «l’attribuzione di vantaggi economici, sebbene non regolata dal Codice dei contratti, è sottoposta comunque a regole di trasparenza e imparzialità; pertanto deve essere preceduta da adeguate forme di pubblicità e avvenire in esito a procedure competitive».
Con riferimento agli usi civici sovviene rammentare che le controversie rientrano comunque nell’accertamento di un diritto di promiscuo godimento (a norma degli artt. 1 e 29, comma 2 della Legge n. 1766 del 1927, sul riordino degli usi civici), in quanto il suo oggetto essenzialmente concerne un rapporto pubblicistico tra le parti che ha ad oggetto l’esercizio del potere amministrativo, al quale naturalmente consegue l’attribuzione della giurisdizione al G.A.[2].
Dunque, in applicazione del criterio della causa petendi si verte in materia di interessi legittimi al corretto esercizio del potere esercitato dell’Amministrazione nella mancata selezione del contraente[3].
Ciò posto, viene analizzata dal T.A.R. Molise la disciplina regionale di riferimento che, in effetti, «prevede il rinnovo pressoché automatico e senza procedure di evidenza pubblica – su semplice richiesta degli aventi titolo – delle attestazioni di riconoscimento della tartufaia controllata o coltivata…, ma ciò non equivale a dire che la concessione d’uso o di gestione del bene pubblico possa pacificamente avvenire mediante un affidamento diretto».
La lettura della norma se da una parte, fa riferimento a “coloro che ne hanno titolo”, tuttavia non opera alcuna identificazione tra questi e i possessori o detentori di fatto della tartufaia, lasciando, pertanto, impregiudicata la questione della legittimità dell’affidamento a privati dell’uso o della gestione della tartufaia ricadente sulla proprietà pubblica.
Invero, si comprende che la legge regionale non opera alcun regime derogatorio o di favore o di proroga dell’uso o della gestione privata in concessione del bene pubblico, quanto semmai dispone che l’affidamento in uso o gestione del bene deve avvenire con le modalità previste per tale affidamento dalla vigente normativa che non può prescindere dai parametri nazionali e comunitari della pubblicità, della trasparenza, dell’evidenza pubblica: della concorrenza.
È noto che qualora le Autorità pubbliche intendano assegnare una concessione che non rientra nell’ambito di applicazione delle direttive relative alle diverse categorie di appalti pubblici, sono tenute a rispettare le regole fondamentali del Trattato FUE, in generale, e il principio di non discriminazione, in particolare, specie quando il bene sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili[4].
A sostegno dell’evidenza pubblica, viene richiamato l’orientamento dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 25 febbraio 2013, n. 5, dove si chiarisce che la procedura competitiva è quella che meglio garantisce, in caso di assegnazione di concessioni di beni pubblici – in considerazione della scarsità della risorsa o quando risulti di fatto contingentata – tutti i contrapposti interessi in gioco, fra cui la libertà di iniziativa economica e l’effettiva concorrenza fra gli operatori economici.
L’approdo inevitabile porta ad affermare che la mancanza di una procedura competitiva circa l’assegnazione di un bene pubblico suscettibile di sfruttamento economico, introduce una barriera di ingresso al mercato, determinando una lesione alla parità di trattamento, al principio di non discriminazione e alla trasparenza tra gli operatori economici, in violazione dei principi euro-unitari di concorrenza e libertà di stabilimento.
Di per ciò, è del tutto inconferente che il rapporto giuridico sia definito come comodato d’uso o con altro nomen juris, allorché si tratti della concessione d’uso o di gestione di un bene pubblico a privati.
La tesi descritta acclara che la concessione di beni pubblici, in quanto caratterizzata da un rapporto bilaterale consensuale avente natura contrattuale, integra una fattispecie complessa, la cui costruzione riposa sulla constatazione che all’atto amministrativo di natura concessoria accede una convenzione (o un contratto) in cui sono contenute le clausole disciplinanti il rapporto paritario di diritti e obblighi delle parti.
L’istruttoria, antecedente alla concessione, segna inesorabilmente il bilanciamento dell’interesse pubblico mediante un procedura concorsuale aperta, senza limiti territoriali.
In altro contesto, ma pur coerente con il pronunciamento, porta alla dichiarata illegittimità di una procedura selettiva, in violazione dei principi informatori dell’azione amministrativa pubblica, in particolare:
- del dovere di comportarsi secondo buona fede (ex 1337 cod. civ.);
- del dovere di garantire l’uguaglianza tra i concorrenti nella procedura concorsuale (ex 3 Cost.) e di assicurare la parità di accesso ai pubblici uffici (ex art. 51 Cost.);
- della generale regola di cui all’art. 97 Cost., che impone la più ampia partecipazione nelle selezioni comparative della P.A. per l’assunzione di personale dipendente.
La mancata garanzia dei principi di trasparenza, l’impedimento alla selezione di un posto pubblico, le limitazioni alla partecipazione su base territoriale portano alla perdita di chance, un danno che dispiega diversi effetti, ma sempre collegati alla violazione di una regola attinente al corretto esercizio dell’azione amministrativa, ad un uso limitato/distorto dell’evidenza pubblica.
È noto che il danno da perdita di chance si verifica tutte le volte in cui il venir meno di un’occasione favorevole, cioè la perdita della possibilità di conseguire un risultato utile, è determinato e causato dall’adozione di un atto illegittimo da parte della P.A.
Ne deriva che «l’elemento soggettivo della responsabilità civile è insito nel comportamento colpevole, derivato dalla scelta inopinata di violare, nella procedura, i fondamentali parametri della Costituzione e della legge (art. 1 legge n. 241/1990), vale a dire i principi di uguaglianza, imparzialità, trasparenza, pari opportunità, proporzionalità, ragionevolezza, adeguatezza, non discriminazione, nonché il principio di legalità di cui all’art. 51, comma primo, della Costituzione, a tenore del quale tutti i cittadini italiani possono accedere agli uffici pubblici, secondo i requisiti stabiliti dalla legge»[5].
Riprendendo il caso analizzato dalla prima sez. del T.A.R. Molise, con la sentenza n. 38 del 28 gennaio 2019, trova allora naturale cittadinanza il rapporto tra concedente pubblico e concessionario privato in un rapporto di natura contrattuale al quale si accede mediante selezione pubblica.
In definitiva, la normativa da applicare in concreto nella concessione della tartufaia è rinvenibile nei citati principi euro-unitari, i quali vanno a incidere, in via interpretativa, sulle specifiche norme interne, che esigono la massima partecipazione dei potenziali concorrenti, soprattutto quando il bene da concessionare risulta limitato: a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (TFUE), l’indifferenza alla qualificazione nominale delle fattispecie consente di sottoporre ai principi sull’evidenza pubblica l’affidamento di concessioni su beni pubblici[6].
A bene vedere, in un altro precedente richiamato in sentenza (proprio per il caso di una tartufaia molisana)[7], è stato annotato che l’associazione privata esercita sui suoli comunali dati in uso diretto, un’attività di lucro, considerato che il commercio dei tartufi è un settore usualmente remunerativo, e va considerato dirimente non è dato figurare una dazione economica senza causa, quale una concessione di beni a titolo gratuito, in sostanziale carico finanziario dei consociati che compongono la popolazione comunale, come finirebbe per essere, all’evidenza, una concessione gratuita di terreni remunerativi come quella cui aspira l’associazione.
Giungendo, il cit. precedente, ad affermare che un bene dato in uso diretto gratuito è da far rientrare comunque in una necessaria procedura di gara o quantomeno di evidenza pubblica, anche a garantire parità di trattamento di quanti potenzialmente interessati ad ottenere la medesima concessione di beni, ed evitare parzialità e preferenze indebite nella attribuzione.
Infatti, occorre una gara pubblica per l’affidamento in gestione a terzi di beni pubblici comunque suscettibili di produrre utilità economiche, come nel caso di specie: i terreni comunali oggetto del contratto di comodato d’uso sono suscettibili di sfruttamento economico per la ricerca e la vendita del tartufo a beneficio esclusivo dei membri dell’associazione, concludendo che su tutte le Amministrazioni pubbliche in generale grava invero l’obbligo di ricorrere a procedure competitive ogni qualvolta si vadano ad assegnare beni pubblici suscettibili di sfruttamento economico, richiamando e condividendo i principi espressi dalla Corte di Giustizia (non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza), riconoscendo agli stessi «una portata generale che può adattarsi a ogni fattispecie che sia estranea all’immediato ambito applicativo delle direttive sugli appalti».
Viene richiamato l’art. 12 della Legge n. 241/1990, dove l’attribuzione di vantaggi economici di qualunque genere a privati o a enti pubblici va subordinata alla predeterminazione di criteri e modalità, cui le amministrazioni si debbono attenere, ad evitare ingiustificati privilegi o discriminazioni e per garantire la trasparenza dell’azione amministrativa e la parità di trattamento[8].
Il quadro e le coordinate normative delle regole dettate dal Trattato (TFUE) e dalla giurisprudenza eurounitaria per le concessioni di beni pubblici si allineano alla massima di diritto secondo la quale le concessioni di beni pubblici di rilevanza economica, tali cioè da suscitare l’interesse concorrenziale delle imprese e dei privati, fungendo da parametro di interpretazione e, al contempo, di limitazione della vigente normativa in materia di concessione a privati di beni pubblici, esige l’evidenza pubblica, rectius la concorrenza tra più offerenti: onere cogente di trasparenza e pubblicità.
Le concessioni di beni pubblici, possono essere assentite solo in esito a una procedura comparativa caratterizzata da idonea pubblicità preventiva, ricadendo nel campo di applicazione dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza, mutuo riconoscimento e proporzionalità con l’obbligo di espletare una procedura concorsuale anche nei casi in cui non siano state formulate preventivamente istanze per il conseguimento del bene pubblico, atteso che l’interesse all’utilità economica del rapporto concessorio potrebbe manifestarsi solo in seguito all’avvio di una procedura di evidenza pubblica.
Occorre, in breve, richiamare per ciò che interessa che per i contratti attivi della Pubblica Amministrazione è applicabile la regola, prevista dall’art. 3, comma 1, del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, del pubblico incanto, secondo cui «i contratti dai quali derivi un’entrata per lo Stato debbono essere preceduti da pubblici incanti, salvo che per particolari ragioni, delle quali dovrà farsi menzione nel decreto di approvazione del contratto, e limitatamente ai casi da determinare con il regolamento, l’amministrazione non intenda far ricorso alla licitazione ovvero nei casi di necessità alla trattativa privata».
È, pertanto, illegittima l’alienazione (o concessione di beni) che non sia stata preceduta dall’asta, né dalla licitazione e comunque senza essere stata mediata da alcuna procedura comparativa fra i potenziali acquirenti, in violazione della regola di parità di trattamento fra i contraenti e senza alcuna forma di pubblicità della procedura (nella specie l’alienazione era avvenuta direttamente a trattativa privata)[9].
L’obbligo di trasparenza ha come scopo quello di eliminare i rischi di favoritismo e arbitrarietà da parte dell’Amministrazione aggiudicatrice.
Tale obbligo implica che tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel capitolato d’oneri, così da permettere:
- da un lato, a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l’esatta portata e d’interpretarle allo stesso modo;
- dall’altro, all’Autorità aggiudicatrice di essere in grado di verificare effettivamente se le offerte degli offerenti rispondano ai criteri che disciplinano l’appalto in questione[10].
In origine, il corpus normativo dell’evidenza pubblica era costituito dalla Legge di contabilità di Stato, R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, e dal suo Regolamento di attuazione, R.D. 23 maggio 1924, n. 827, ed era finalizzato alla individuazione del “giusto” contraente dell’Amministrazione, quel contraente in grado di offrire le migliori prestazioni e garanzie alle condizioni più vantaggiose, la volontà primaria risiedeva esclusivamente nel controllo della spesa pubblica per il miglior utilizzo del denaro della collettività (c.d. concezione contabilistica).
Tale visione, per opera della disciplina comunitaria, è stata rivista con lo scopo di assicurare la concorrenza, la libertà di apertura al mercato, la non discriminazione tra le imprese, imponendo l’adozione di procedure competitive e aperte.
Più specificamente, la normativa vigente deve essere correttamente intesa come espressione della volontà del legislatore di perseguire non più soltanto l’esigenza del controllo della spesa pubblica per il migliore utilizzo del danaro della collettività, bensì anche l’apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile per la salvaguardia dell’interesse comunitario alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, nell’interesse stesso dell’Amministrazione ad acquisire, in virtù di una consistente partecipazione delle imprese alle procedure ad evidenza pubblica, l’offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della collettività pubblica, anche quando il bene viene concesso gratuitamente[11].
In mancanza di trasparenza e pubblicità, nella gestione dei beni pubblici, si può incorrere nel rischio potenziale di favorire alcuni ai danni di altri.
Indicativamente il principio di “rotazione” del gestore uscente imporrebbe, secondo le Linee Guida ANAC n. 4, di non invitare l’affidatario immediatamente precedente per evitare il consolidamento di rendite di posizione[12]; donde il rilievo che tutte le politiche di prevenzione della corruzione, e del conflitto di interessi, mirano a garantire l’imparzialità e l’esercizio neutro dell’azione amministrativa, senza turbamento e posizioni dominanti.
I risvolti di tutto il quadro normativo e interpretativo giungono a confermare che l’evidenza pubblica si abbatte anche sulle tartufaie che soggiacciono a tale incombenza procedimentale nell’assegnazione, specie quando la gestione “fu affidata” da tempo.
[1] Vedi, anche, Cons. Stato, sez. V, 11 giugno 2018, n. 3588 e 14 giugno 2017, n. 2914; Cass. Civ., sez. Unite, 8 luglio 2015, n. 14185.
[2] T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I, 5 novembre 2018, n. 339. Cfr. il quarto comma dell’art. 2 della Legge 20 novembre 2017, n. 168, «Norme in materia di domini collettivi».
[3] Cons. Stato, sez. V, 9 luglio 2015, n. 3460.
[4] Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. V, 14 luglio 2016, n. C-458/14.
[5] T.A.R. Molise, sez. I, 31 gennaio 2019, n. 46.
[6] Cons. Stato, sez. V, 31 maggio 2011, n. 3250 e 31 maggio 2011, n. 3250; T.A.R. Molise, sez. I, 26 settembre 2016, n. 365.
[7] Cons. Stato, sez. V, 14 giugno 2017, n. 2914.
[8] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 23 marzo 2015, n. 1552.
[9] Cons. Stato, sez. V, 23 giugno 2016, n. 2816.
[10] Corte Giustizia U.E., sez. I, 7 aprile 2016 (causa n. C-324/14).
[11] Cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II bis, 7 novembre 2017, n. 11064.
[12] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 17 gennaio 2019, n. 435.