La sez. VI del Consiglio di Stato, con la sentenza 30 ottobre 2020 n. 6685, conferma un orientamento consolidato secondo il quale la prestazione di lavoro (gratuito) presso la Pubblica Amministrazione, non consolida alcuna aspettativa qualificata all’assunzione né può consolidare un valido rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, anche se l’incarico a termine è stato affidato con selezione ed ha superato il limite legale di 36 mesi.
La questione viene affrontata a seguito del ricorso di alcuni soggetti che avevano svolto attività gratuita di docenza presso una P.A. (Università degli Studi), corrispondente a quella dei professori strutturati, in forza dei reiterati incarichi a tempo determinato (protrattosi per oltre 36 mesi) loro affidati a seguito di apposita procedura selettiva: si postula nessun riconoscimento della costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato come professore (associato o ordinario)[1].
La sentenza assume una rilevanza generale nel senso dell’impossibilità di convertire un rapporto a termine con uno a tempo indeterminato, andando salvaguardati i principi di buon andamento, imparzialità ed efficienza dell’amministrazione che sottendono la regola del pubblico concorso (ex art. 36, comma 5 del d.lgs. n. 165/2001)[2].
Inoltre, la disciplina interna che nel pubblico impiego vieta la conversione dei contratti temporanei in un rapporto a tempo indeterminato, è stata ritenuta non in contrasto con la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato allegato alla direttiva 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE[3].
Invero, nell’ipotesi di illegittima reiterazione di contratti a tempo determinato nel pubblico impiego privatizzato (non quelli a titolo gratuito), la successiva immissione in ruolo del lavoratore costituisce misura sanzionatoria idonea a reintegrare le conseguenze pregiudizievoli dell’abuso solo se ricollegabile alla successione dei contratti a termine con rapporto di causa-effetto, il che si verifica quando l’assunzione a tempo indeterminato avvenga o in forza di specifiche previsioni legislative di stabilizzazione del personale precario vittima dell’abuso o attraverso percorsi espressamente riservati a detto personale[4].
Le questioni affrontate:
- il conferimento di incarichi di insegnamento a tempo determinato erroneamente si possono qualificare giuridicamente come rapporti di lavoro a tempo determinato, in relazione alla disposizione di cui all’art. 2094 del cod. civ., dove uno degli elementi essenziali del rapporto di lavoro subordinato è la retribuzione, cosicché, laddove non sia previsto alcun compenso per remunerare le prestazioni svolte, non è configurabile un rapporto di lavoro;
- il servizio di insegnamento prestato a favore della P.A. è stato svolto a titolo gratuito, in coerenza con quanto espressamente previsto, sia nei bandi con i quali sono state indette le selezioni preordinate all’individuazione dei soggetti cui affidare l’incarico di docenza, sia dai contratti all’uopo sottoscritti;
- l’attività prestata, disciplinata dall’art. 1, comma 10, della legge n. 230 del 3 novembre 2005, «Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari» e dall’art. 23 della legge 30 dicembre 2010, n. 240, «Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario», oltre che dallo specifico regolamento di ateneo, va ricondotta nell’ambito di un rapporto caratterizzato dai connotati del servizio onorario, ovvero del servizio reso “affectionis vel benevolentiae causa”;
- la possibilità di incarichi gratuiti presso le Università comporta dei vantaggi, professionali e di formazione scientifica, connessi all’attività di insegnamento universitario, senza che possano sollevarsi al riguardo questioni di costituzionalità, con riferimento agli articoli 3 e 36 della Costituzione[5];
- non trova alcun riscontro la pretesa di una retribuzione per l’esecuzione di una prestazione didattica costituente oggetto di contratto a titolo gratuito, rilevando in tal senso solo la volontà (coerente con la normativa di riferimento) manifestata dalle parti all’atto del conferimento dell’incarico (una sorta di acquiescenza)[6].
Il quadro normativo di riferimento e i negozi sottoscritti inducono a ritenere che perdono di rilevanza tutti i riferimenti alle norme e ai principi concernenti l’abuso del ricorso a reiterati contratti di lavoro a tempo determinato, mancando un elemento essenziale attinente il lavoro subordinato: la retribuzione, parte intangibile del sinallagma contrattuale.
La plurima reiterazione degli incarichi conferiti non potrebbe dar luogo a un rapporto impiegatizio a tempo indeterminato (ex art. 36, comma 5 del TUPI), nemmeno laddove l’attività di insegnamento da costoro svolta potesse inquadrarsi nell’ambito dei rapporti di lavoro a tempo determinato: nel settore del pubblico impiego, contrattualizzato o meno, l’accesso ad un posto di ruolo può avvenire, ex art. 97 Cost., solo tramite pubblico concorso a ciò espressamente destinato[7].
In coerenza con l’indicato parametro costituzionale l’art. 23, comma 4, della legge n. 240/2010 stabilisce, del resto, che «la stipulazione di contratti per attività di insegnamento ai sensi del presente articolo non dà luogo a diritti in ordine all’accesso ai ruoli universitari», e analogamente dispone l’art. 2, comma 3, del D.M. 21 maggio 1998, n. 242, il cui successivo art. 3, comma 1, lett. a), ha reso inapplicabili gli articoli 25 e 100, lettera d), del D.P.R. 11 luglio 1980, n. 382 dall’entrata in vigore dei regolamenti di ateneo per l’assunzione dei professori a contratto.
Dunque, risultando l’incarico del tutto gratuito viene meno qualsiasi pretesa risarcitoria o di ricostruzione di una carriera universitaria.
Si conferma la tematica che rende insuscettibile la conversione del rapporto di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego in rapporto a tempo indeterminato, stante il divieto posto dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, questione in verità non risolta giacché la prestazione nemmeno (nel caso di specie) è inquadrabile in un rapporto di lavoro subordinato essendo a titolo del tutto gratuito[8].
La conseguenza rafforza il principio secondo cui nel pubblico impiego è esclusa – in ogni caso – la stabilizzazione dei rapporti in ipotesi di violazione di qualsiasi diposizione imperativa in tema di assunzione o impiego presso le Pubbliche Amministrazioni per violazione di norme imperativa poste a tutela di un interesse superiore: interesse riconosciuto dal valore assoluto della regola costituzionalmente rilevante dell’accesso agli impieghi attraverso concorso (ex art. 97 Cost.)[9], oltre che la finalità del rispetto delle esigenze finanziarie e dei limiti di spesa[10] e metodo che offre le migliori garanzie di selezione dei più capaci[11].
[1] Gli incarichi sarebbero regolati dall’art. 1, comma 10, della legge 4 novembre 2005, n. 230, «Nuove disposizioni concernenti i professori e i ricercatori universitari e delega al Governo per il riordino del reclutamento dei professori universitari» e dalle disposizioni contenute nei regolamenti di ateneo “per la disciplina dei professori a contratto” e “per l’assunzione dei ricercatori con contratto a tempo determinato”: sulla base dei principi enunciati dalla Corte Costituzionale (sent. n. 121/1993) e dalla Corte di Cassazione (sent. 11609/1993, 4643/1992 e 176/1992), la definizione della natura di un rapporto di lavoro non potrebbe essere demandata ad astratte previsioni legislative, ma discenderebbe dalle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa.
[2] Cass. civ., sez. lavoro, Ord., 15 giugno 2020, n. 11537.
[3] Cfr. Corte Giustizia UE, sez. II, 26 gennaio 2012, n. 586, sentenza 14 settembre 2016, in cause C-184/15 e C-197/15, Martínez Andrés e Castrejana López; sentenza 7 marzo 2018, in causa C-494/16, Santoro. Vedi, anche, Corte Cost., 27 dicembre 2018, n. 248.
[4] Cass. civ., sez. lavoro, Ord., 17 luglio 2020, n. 15353.
[5] Cfr. Corte Cost., 18 gennaio 1977, n. 41; Cons. Stato, sez. VI, 30 settembre 1980, n. 796.
[6] Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2010, n. 277.
[7] Cass. civ., sez. lavoro, 25 giugno 2020, n. 12718; 29 aprile 2014, n. 9385; Cons Stato, sez. VI, 13 maggio 2011, n. 2927; 25 giugno 2008, n. 3209; 20 ottobre 1999, n. 1508.
[8] Cass. civ., sez. lavoro, 6 ottobre 2016, n. 20060.
[9] Vedi, LUCCA, Accesso ai ruoli della P.A. mediante concorso, mauriziolucca.com, marzo 2020, a commento della sentenza della Corte Costituzionale, 27 febbraio 2020, n. 36.
[10] Tribunale di Trieste, sentenza 28 maggio 2011.
[11] Vedi, NIGLIO – TEODORI, Il concorso pubblico nelle amministrazioni locali, Maggioli, 2020, pag. 18, ove si analizza l’intera procedura segnalando che già nel r.d. 22 novembre 1908, all’art. 6 si «disponeva che l’ammissione nei ruoli del personale civile avesse luogo mediante “esame concorso”, fissandosi le caratteristiche del procedimento stesso: la gara fra più aspiranti ed il superamento di prove d’esame».