Nell’ambito del pubblico impiego, la prestazione di lavoro straordinario soggiace ai profili costituzionali dell’articolo 36 e alla manifestazione espressa dal datore di lavoro pubblico di avvalersi della prestazione oltre i limiti ordinari.
L’erogazione del compenso presuppone, in via generale, una concreta verifica della sussistenza di ragioni di pubblico interesse in primis, così da giustificare tale forma di prestazione eccedente il normale orario di servizio, in secundis una preventiva autorizzazione a copertura, da una parte, dei citati presupposti, dall’altra, della verifica del rispetto anche dei limiti di spesa fissati dal bilancio di previsione (Cons. Stato, sez. V, 26 agosto 2013, n. 4268).
La verifica in sè della prestazione è una dichiarazione di scienza, una verifica accertativa basata sulla prova oggettiva del servizio prestato extra orario d’ufficio, generalmente fornita mediante sistema di timbratura.
La terza sezione del Consiglio di Stato, con la sentenza 25 settembre 2013, n. 4745, interviene per consolidare un orientamento costante che nega ogni forma di pagamento avanzata dal dipendente pubblico nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza, tendente ad ottenere il pagamento delle ore di straordinario effettuate in assenza di una preventiva autorizzazione; l’autorizzazione non può essere prodotta nemmeno a sanatoria e/o in presenza (a fini giustificativi) di una situazione di fatto che abbia reso imprescindibile lo svolgimento delle medesime prestazioni straordinarie: l’autorizzazione preventiva assorbe ogni valutazione e accertamento sull’an e sul quantum.
Tuttavia, il principio della indispensabilità dell’autorizzazione allo svolgimento del lavoro straordinario subisce eccezione quando l’attività sia svolta per obbligo d’ufficio (e al riguardo si parla di autorizzazione implicita), ma, nel rispetto dei principi costituzionali, deve pur sempre trattarsi di esigenze indifferibili ed urgenti da dimostrare nello specifico (caso per caso, Cons. Stato, sez. V, 26 ottobre 2010, n. 7625).
Pare giusto ricordare, annotano i giudici di Palazzo Spada, che la circostanza fattuale (e dimostrabile) che il pubblico dipendente abbia effettuato lavoro straordinario non è da sola sufficiente a radicare il suo diritto alla retribuzione: una simile posizione legittimerebbe l’equiparazione del lavoro straordinario autorizzato con quello per il quale non è intervenuto alcun provvedimento autorizzativo, compensando attività lavorative svolte in via di fatto, ma non rispondenti ad alcuna riconosciuta necessità.
L’autorizzazione è il titolo proveniente dal datore di lavoro che abilita il dipendente a prestare un servizio orario oltre il limite ordinario ed inoltre è requisito formale che svolge una pluralità di funzioni, tutte riferibili alla concreta attuazione dei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, cui, secondo l’art. 97 Cost., deve essere improntata l’azione della Pubblica Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. III, 24 aprile 2013, n. 2312; sez. V, 17 febbraio 2004, n. 587).
In particolare, il lavoro straordinario non può essere utilizzato come fattore ordinario di programmazione del lavoro, le relative prestazioni (oltre il limite) hanno carattere eccezionale, devono rispondere ad effettive esigenze di servizio ed essere preventivamente autorizzate (cfr. Cons. Stato, III, 3 aprile 2013, n. 1864). Cosicché, è legittimo il diniego di compenso del lavoro straordinario che il pubblico dipendente afferma di aver svolto ma che non furono autorizzate dall’Amministrazione né in via preventiva né in via successiva e neppure in sanatoria, né l’autorizzazione può ritenersi implicitamente rilasciata per ragioni di necessità ed urgenza, solo allegate ma non documentate (cfr. Cons. Stato, sez. III, 25 marzo 2013, n. 1650).