La sez. giurisdizionale per l’Umbria della Corte dei Conti, con la sentenza n. 84 del 27 ottobre 2022 (Referendario relatore Scognamiglio), inquadra le responsabilità attribuibili a coloro che portano il Comune al dissesto finanziario, arricchendo di contenuti, anche di natura pratica, una serie di questioni che risultano correlate alle condotte assunte (e rilevanti) sotto il profilo non dell’individuazione di un danno da ristorare, ma quello dell’accertamento dell’illiceità dei comportamenti dei soggetti coinvolti, al quale consegue l’irrogazione della sanzione prevista[1].
Il dissesto
È noto che «si ha stato di dissesto finanziario se l’ente non può garantire l’assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero esistono nei confronti dell’ente locale crediti liquidi ed esigibili di terzi cui non si possa fare validamente fronte» con la salvaguardia degli equilibri di bilancio (mezzo ordinario del ripristino del riequilibrio del bilancio), nonché con il riconoscimento (mezzo straordinario) di legittimità dei debiti fuori bilancio, ai sensi dell’art. 244 del d.lgs. n. 267/2000 (TUEL)[2].
Le norme sul dissesto sono espressive di un bilanciamento non irragionevole tra l’esigenza, che è alla base della sicurezza dei traffici commerciali, che si correla all’art. 41 Cost., di tutelare i creditori e l’esigenza di ripristinare sia la continuità di esercizio dell’Ente locale incapace di assolvere alle funzioni, sia i servizi indispensabili per la comunità locale[3].
Il dissesto, dunque, benché con la separazione tra le attività finalizzate al risanamento e quelle di liquidazione della massa passiva, abbia assunto una fisionomia che lo avvicina al fallimento dell’impresa, la normativa, complessivamente considerata, include anche dei correttivi, a tutela sia del Comune – che deve continuare a esistere – sia dei creditori, che possono contare sul contributo a carico dello Stato[4], rilevando, da subito, che in presenza di una “crisi”, o di indici di predissesto, le scelte amministrative dell’Ente, anche in pendenza della procedura di dissesto, devono essere apprestate all’adozione di misure, anche contabili, idonee a garantire il più rapido ripristino dell’equilibrio finanziario.
Il fatto e il quadro normativo di riferimento
La vicenda affrontata (nella sua essenzialità) riguarda il ricorso da parte dei componenti della Giunta comunale (all’epoca dei fatti) avverso gli effetti della dichiarazione (ultimo periodo) di cui del comma 5, dell’art. 248, Conseguenze della dichiarazione di dissesto, del TUEL: in primis, la «sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione», quando viene riconosciuta la responsabilità (la dosimetria della misura la cui entità non è stabilita ex lege in modo fisso, bensì entro un limite massimo).
Pare giusto precisare che il dies a quo della prescrizione va individuato nella data della dichiarazione del dissesto finanziario, ex art. 246, Delibera di dissesto, del d.lgs. n, 267/2000, che costituisce “evento”, in ragione della sua intraneità rispetto al bene tutelato, conseguenza della condotta tipizzata dell’aver contribuito alla sua determinazione, in assenza del quale la Procura regionale non potrebbe esercitare l’azione, aspetto ben chiarito nella sentenza, come si avrà modo di vedere[5].
Il comma 5 elenca poi gli altri aspetti di natura sanzionatoria legati all’accertamento della responsabilità:
- una responsabilità erariale qualora i fatti e le omissioni siano state commesse con dolo o con colpa grave, ferma restando l’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 20/1994, per questo aspetto i ricorrenti hanno ritenuto un’invasione del giudice in relazione alla congruenza dei singoli atti rispetto ai fini imposti, in via generale o, in modo specifico, dal legislatore (un’intrusione indebita sull’opportunità e convenienza, ossia sulla c.d. riserva di amministrazione)[6];
- (accertata le responsabilità, anche in primo grado) l’incapacità di poter ricoprire, «per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati»;
- in aggiunta per i sindaci e i presidenti di provincia l’incandidabilità «per un periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo»;
- i responsabili «non possono altresì ricoprire per un periodo di tempo di dieci anni la carica di assessore comunale, provinciale o regionale nè alcuna carica in enti vigilati o partecipati da enti pubblici».
Inoltre, il decreto sanzionatorio:
- non ha tenuto in debito conto (secondo i ricorrenti) della cosiddetta esimente politica, non potendo alla stessa dare un effetto automatico (esimente non riconosciuta proprio in ragione del dato concreto del non avere adottato adeguati interventi correttivi, preordinati ad impedire il verificarsi della situazione di dissesto, e non esclusa dal tentativo di ricorso alla procedura di riequilibrio finanziario);
- nemmeno è stato valutato correttamente la ricusazione del collegio chiamato a decidere dell’opposizione al decreto sanzionatorio;
- mancherebbe, altresì, la motivazione in mancanza di contestazione specifica in ordine alla condotta causativa del dissesto, ritenuto imputabile alle precedenti gestioni, con risvolti anche sulla prescrizione dell’azione.
Ne deriva che la disciplina del comma 5, dell’art. 248, del TUEL, segna una fattispecie astratta tipizzata di responsabilità sanzionatoria (c.d. pura) da dissesto, connotata quale autonoma non solo sul terreno sostanziale, ma anche sotto il profilo procedurale, non essendo più previsto, diversamente dal testo originario della disposizione, un rapporto di necessaria pregiudizialità tra una previa sentenza di condanna per ordinaria responsabilità amministrativa da danno all’erario e un successivo giudizio per responsabilità sanzionatoria da dissesto («Fermo restando quanto previsto dall’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20», periodo iniziale del comma 5), ritenendo necessario il solo riconoscimento della responsabilità per aver contribuito al dissesto dell’Ente[7].
Viene, altresì, invocata l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui determina una misura interdittiva fissa senza possibilità di mediazione (graduazione) da parte del giudice, aspetto non affrontato nel decreto sanzionatorio e non manifestamente infondato per la sua manifesta sproporzione, anche con riferimento ad un eccesso di delega legislativa sul codice di rito, e l’incompetenza di irrogare sanzioni personali affidata ad altra giurisdizione.
Appare evidente la complessità del giudizio e la sentenza offre un quadro esaustivo della norma, con indicazione in parte inedite.
Questione procedurale e giurisdizione erariale
Viene subito chiarito che l’opposizione al decreto sanzionatorio non attiva un nuovo procedimento ma introduce una fase eventuale di cognizione piena sulla pretesa fatta valere dalla Procura erariale, ai sensi dell’art. 136 c.g.c.: sull’opposizione «il collegio, sentite le parti presenti, e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede ad eventuale ulteriore attività istruttoria, e definisce il giudizio con sentenza»[8].
Sulla giurisdizione della Corte dei Conti si annota la piena facoltà della stessa sia nell’accertare l’illegittimità degli atti discrezionali che l’illeceità della condotta, ben potendo scrutinare se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati, oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire, e la verifica della legittimità dell’attività amministrativa non può prescindere dalla valutazione di ragionevole proporzionalità del rapporto tra obiettivi (benefici) conseguiti e costi sostenuti[9].
In termini più espliciti, il giudice contabile è tenuto a verificare la compatibilità delle scelte amministrative[10], ai sensi dell’art. 1 della legge n. 241/1990, con i fini promossi dall’Amministrazione, che devono essere ispirati a criteri di economicità e di efficacia secondo il canone indicato nell’art. 97 Cost., accertando il contributo causale dei chiamati (opponenti al decreto sanzionatorio) alla determinazione del dissesto.
Si tratta di verificare se la condotta complessivamente assunta nella vicenda risulta caratterizzata da dolo o colpa grave, che nella fattispecie consiste nel non aver adottato e attuato misure di contenimento della spesa o suoi correttivi per impedire il verificarsi del dissesto, ovvero, un esercizio della discrezionalità riconosciuta agli amministratori pubblici nell’individuazione della soluzione più idonea nel singolo caso concreto a realizzare l’interesse pubblico perseguito alla stabilità finanziaria dell’Ente (rectius dell’agere dei suoi amministratori e della loro non inadeguatezza): avuto riguardo non le scelte proprie del potere discrezionale, ma l’uso del potere in modo non conforme al dovere di diligente cura degli interessi dell’Ente, e, quindi, causativo di un pregiudizio diretto al patrimonio dell’Ente medesimo sotto il profilo della mancata azionabilità di misure di riequilibrio[11].
A tale stregua, non viola il limite giuridico della riserva di amministrazione valutare la preferenza tra alternative, nell’ambito della ragionevolezza, per il soddisfacimento dell’interesse pubblico nel controllare anche la giuridicità sostanziale, cioè l’osservanza dei criteri di razionalità, nel senso di correttezza e adeguatezza dell’agire, logicità, e proporzionalità tra costi affrontati e obbiettivi conseguiti, costituenti al contempo indici di misura del potere amministrativo e confini del sindacato giurisdizionale, dell’esercizio del potere discrezionale che doveva essere proiettato a scongiurare il dissesto (poi avvenuto) con azione che potevano essere intraprese nel corso di più esercizi, difettando, anche per questa via, ogni eccesso di potere giurisdizionale per invasione della sfera riservata alla discrezionalità della PA[12].
Posizione, in parte non dissimili dal sindacato giurisdizionale del Giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica che può e deve investire l’eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, erronea valutazione dei presupposti e contraddittorietà, senza per questo ritenere una sua sostituzione al merito, appannaggio della cit. riserva di amministrazione[13].
Sovviene l’esigenza di una sintesi concettuale sulla piena legittimità del Giudice contabile chiamato a verificare la pratica compatibilità dell’agire amministrativo non solo rispetto ai limiti c.d. “espliciti”, posti dalle singole disposizioni, ma anche ai limiti c.d. “impliciti” o “interni”, tesi a far sì che l’azione si svolga in maniera corretta, equilibrata (c.d. proporzionalità), funzionale o, altrimenti detto, secondo buona fede e correttezza, che in ambito dell’agire amministrativo coincide con la “buona amministrazione” (nei canoni dell’art. 97 Cost., compendiati nell’art. 1 della legge n. 241/1990)[14].
Il giudice naturale
Con riferimento all’errata individuazione del giudice competente nel disporre la sanzione, la Corte osserva che non vi sarebbe stata alcuna lesione alla garanzia del giudice naturale precostituito per legge, ex art. 25 Cost.:
- nella procedura per l’applicazione della sanzione pecuniaria la nomina del giudice monocratico è stata previamente designata dal Presidente della sezione giurisdizionale regionale, territorialmente competente, ai sensi del comma 2 dell’art. 133, c.g.c. (norma processuale con cui il legislatore ha dettato una disciplina generale e uniforme del rito sanzionatorio);
- la nomina va riferita all’ufficio giudiziario e non al giudice o componente del Collegio giudicante[15];
- non vi è stata alcuna violazione sull’individuazione del giudice naturale avendo rispettato il rito previsto dalla norma specifica: le sanzioni interdittive o di status da dissesto conseguono di diritto all’unico accertamento della responsabilità degli amministratori alla contribuzione del dissesto, nell’ambito del medesimo rito sanzionatorio, e vanno dichiarate dal giudice nel proprio provvedimento, confermando che in materia di responsabilità da dissesto, sussiste la giurisdizione contabile su entrambi gli effetti (sanzione pecuniaria e sanzioni interdittive) che derivano dall’unico accertamento in ordine alla responsabilità degli amministratori per aver contribuito, con dolo o colpa grave e con condotte omissive o commissive, al verificarsi del dissesto[16];
- la sostituzione del giudice dal primo designato non ha comportato la costituzione di un nuovo giudice ad hoc, privo come tale della necessaria imparzialità, né vi è stata alcuna compromissione con il principio del “giusto procedimento” e del contradditorio atteso che l’unica udienza è stata svolta innanzi al giudice sostituito.
Il regime di responsabilità da dissesto
La norma dell’art. 248, Conseguenze della dichiarazione di dissesto, del TUEL, in evidente opposizione con quanto prospettato dai convenuti, definisce l’illecito attraverso il riferimento alla condotta («l’aver contribuito con condotte … sia omissive che commissive»), all’evento (il «verificarsi del dissesto finanziario»), all’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) e alle correlate sanzioni pecuniarie, direttamente oggetto di pronunzia di condanna, oltre che interdittive, discendenti ex lege ma necessitanti di previa pronuncia dichiarativa giudiziale, descrivendo sostanzialmente la condotta contra ius e il relativo apporto causale minimo, ai fini della ricostruzione di detta peculiare forma di responsabilità e dunque dell’irrogazione delle relative sanzioni.
Questo dimostra le proiezioni negative di un unico momento accertativo, con i deferiti effetti di non rimandare l’accertamento di responsabilità in altra sede o con un rito diverso solo per attivare il susseguente rito sanzionatorio.
Ne consegue che l’impostazione data dal legislatore all’art. 248 del TUEL, in relazione sistematica con l’art. 133 c.g.c., è quella di definire all’interno del rito sanzionatorio il mezzo processuale per l’applicazione delle sanzioni, acclarando la responsabilità che sarà fonte sia delle sanzioni pecuniarie che delle misure interdittive a quella medesima responsabilità ricondotte, stabilendo che il medesimo accertamento giurisdizionale di responsabilità nella concausazione del dissesto funge da presupposto sia per la comminatoria delle sanzioni pecuniarie che delle misure interdittive (un duplice esito sanzionatorio):
- di natura pecuniaria;
- di natura interdittiva o “di status”.
Ciò posto, si può ritenere che non vi sia alcun eccesso di delega ma sia stato rispettato il parametro definito dal legislatore, con la creazione di un rito afferente alle ipotesi di responsabilità c.d. sanzionatoria, che non differisce da quello ordinario se non per l’introduzione di una ulteriore fase iniziale, dinnanzi al giudice monocratico, per potendo in sede di opposizione entrare nel suo merito: il rito sanzionatorio non limita in modo sostanziale il diritto di difesa delle parti, né il contraddittorio tra le stesse, potendo le parti, appunto, partecipare alla fase monocratica, opponendoci al decreto del giudice monocratico e appellare la sentenza del collegio.
Secondo l’orientamento dell’organo nomofilattico[17] si è distinta chiaramente (c.d. tipicizzazione) una responsabilità per aver contribuito al dissesto secondo i seguenti criteri e parametri:
- presuppone il positivo accertamento circa la sussistenza sia dell’elemento soggettivo che del contributo causale, nel pieno rispetto della regola generale della responsabilità amministrativa, di cui all’art. 1 della legge n. 20/1994;
- dall’accertamento della responsabilità per aver contribuito al dissesto, discende il duplice effetto della condanna alla sanzione pecuniaria e quello dichiarativo in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle sanzioni interdittive (due distinte sanzioni);
- il giudice contabile, pertanto, ha cognizione piena su entrambi gli effetti che derivano dall’unico accertamento, in ordine alla responsabilità degli amministratori che abbiano contribuito, con dolo o colpa grave e con condotte omissive o commissive, al verificarsi del dissesto.
La responsabilità di dissesto non è (più) connotata da un eventus damni (il default dell’ente) rappresentante l’ulteriore aggravamento di un danno erariale già diversamente cagionato dagli amministratori con le proprie condotte – quasi da assimilare ad un illecito penalistico a c.d. “consumazione prolungata”– e in cui v’è uno stretto legame causale tra queste e il “fallimento” dell’Amministrazione locale, bensì assume connotati del tutto autonomi, non invariabilmente riconnessi né alla causazione di un danno patrimoniale risarcibile in senso stretto, né alla diretta e indefettibile derivazione eziologica del dissesto dalla mala gestio degli organi di vertice, essendo sufficiente una “mera” compartecipazione causale a quest’ultimo.
Questa prospettazione porta a ricondurre la responsabilità su due piani:
- amministrativo-contabile stricto sensu intesa (nell’incipit del comma 5, «Fermo restando quanto previsto dall’art. 1 della l. n. 20/1994»), comportante il risarcimento del danno erariale cagionato all’ente, senz’altro secondo le ordinarie regole processuali;
- da dissesto, a carattere non risarcitorio, ma puramente sanzionatorio, per la quale certamente si applicherà il rito di cui agli artt. 133 e ss., con riferimento all’irrogazione della sanzione pecuniaria e anche per la comminazione della misura interdittiva: il duplice effetto della condanna alla sanzione pecuniaria e quello dichiarativo, automatico e consequenziale, in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle sanzioni interdittive.
Osservazioni sulla ratio della norma
Con il concorso formale di illeciti, il legislatore ha voluto colpire non solo i gravi fenomeni di cattiva gestione della cosa pubblica, anche nella sua estesa nozione di malfunzionamento dell’Amministrazione a causa dell’uso a fini privati (interesse proprio o di terzi) delle funzioni pubbliche attribuite (c.d. maladministration), senz’altro forieri di un nocumento patrimoniale pubblico (ad es., alla mancata riscossione di tributi o del corrispettivo di servizi su domanda, determinanti un danno erariale da mancato incameramento di un’entrata – che, incidendo, mediante comportamenti protratti nel tempo, sugli equilibri di bilancio, abbiano determinato il default dell’Ente), ma, altresì, le condotte, soprattutto omissive, magari intervenute successivamente alla primigenia verificazione del danno, che non hanno impedito il protrarsi dello stesso, concorrendone a determinare l’aggravamento e, in definitiva, la situazione di dissesto.
Il riferimento non può che essere alla mancata adozione di misure di una sana gestione finanziaria, ove l’omesso rispetto dei principi di legalità (ex art. 97 Cost.) e dei parametri meglio definiti nell’art. 1 della legge n. 241/1990, comporta inevitabilmente l’aggravarsi della situazione finanziaria che esigerebbe un pronto intervento di recupero (risposta), sia delle risorse proprie (entrata) che di un’oculata gestione della spesa, non potendo investire a fronte di una incapacità strutturale di rifornimento della cassa (liquidità): come si dimostrerà nell’analizzare le condotte omissive che hanno portato al dissesto pur in presenza di indici/parametri rilevatori di un disequilibrio economico/finanziario, donde l’imputazione di responsabilità.
Il giudice erariale proprio su questi profili di responsabilità va ad analizzare e scomporre la norma di riferimento, che a fronte di un unico accertamento procede con un effetto interdittivo e una sanzione pecuniaria che non può ritenersi automatica e consequenziale ma richiede una mediazione sulla graduazione.
Aspetti di incostituzionalità
In effetti le osservazioni fin qui poste, consentono di affrontare i profili di presunta illegittimità costituzionale delle sanzioni interdittive non essendo (ritenute) graduabili dal giudice (viene richiamato dagli opponenti un precedente arresto della Corte[18] riferito alla disciplina del fallimento e alle sanzioni interdittive decennali, richiamo ritenuto inconferente).
Il Collegio, rileva che le argomentazioni non superano il vaglio della non manifesta infondatezza in ragione della possibilità che residua in capo all’organo giudicante, di valutare in concreto la sussistenza dei presupposti per l’irrogazione o meno della sanzione interdittiva:
- è necessario l’accertamento dell’elemento soggettivo (psicologico) e del nesso causale: la verifica concreta della condotta dell’amministratore e il suo apporto;
- diversamente dal caso prospettato, non vi è alcun profilo di automaticità nel definire la sanzione, togliendo di mezzo – nel giudizio di meritevolezza – l’aspetto della sproporzionalità;
- la sanzione interdittiva è intimamente legata ad un previo accertamento giudiziale della condotta dolosa o gravemente colposa che abbia contribuito al dissesto, con una valutazione ex ante, operata direttamente dal legislatore, ancorata al grado di responsabilità;
- si deduce un meccanismo di graduazione in quanto la pena interdittiva viene comminata solo all’esito dell’accertamento della responsabilità e, allo stesso tempo, viene graduata la pena pecuniaria in funzione del cit. accertamento: la gradualità avviene attraverso la modulazione dell’entità della sanzione legata alla condotta individuale del responsabile del dissesto;
- la sanzione non interdice i diritti del singolo, ovvero nella legge fallimentare la libertà di iniziativa economica (ex 41 Cost.), quanto la tutela del buon andamento della PA, ex art. 97 Cost.: impedendo di ricoprire la carica pubblica per un determinato periodo temporale ritenuto ragionevole (con un processo di valutazione astratta) dal legislatore (una specie di inconferibilità).
La legge opera direttamente il meccanismo interdittivo e il giudice si limita ad una pronuncia meramente dichiarativa, ritenendo appropriato impedire l’accesso ad una carica pubblica a coloro che si sono resi responsabili di una cattiva gestione «concretizzatasi nella imperizia e/o negligenza e/o imprudenza causative di un evento lesivo dei diritti della collettività amministrata, quale appunto il dissesto», con il mancato superamento del vaglio della non manifesta infondatezza della norma del comma 5, dell’art. 248 del TUEL.
Le condotte causative del dissesto
Fatte queste premesse pregiudiziali e preliminari necessarie per definire il quadro normativo e gli indici di colpevolezza, si passa ad analizzare le condotte assunte dagli amministratori non limitandosi a descrivere l’apporto causale ma indicando delle regole di amministrazione attiva che avrebbero impedito l’evento.
In effetti, nulla è stato fatto a fronte di scritture contabili che presentavano, nel corso degli anni incontrovertibili condizioni di squilibrio, che si sono manifestate, in particolare, attraverso:
- ripetuti disequilibri della gestione di parte corrente (con valori negativi);
- una gestione annuale in conto competenza dimostrava che i nuovi crediti avevano valore inferiore alla sommatoria dei nuovi debiti esigibili;
- il pareggio veniva garantito unicamente dall’applicazione dell’avanzo piuttosto che dalla diminuzione della spesa (ovvero, quando si ricorre ad entrate straordinarie si può affermare di essere in presenza di un equilibrio precario non avendo la certezza di una loro ripetizione negli anni futuri: un evidente elemento di forte tensione nella gestione finanziaria)[19];
- (l’effetto diretto del punto precedente) un elevato numero di parametri di deficitarietà strutturale, ove anche la presenza di un solo parametro costituisce indice di allarme sulla tenuta dei conti in termini di sana, prudente e corretta gestione finanziaria[20];
- il ricorso reiterato alle anticipazioni di tesoreria (o anticipazione di cassa), elemento dimostrativo della carenza di liquidità, imputabile alla carenza di entrate (ovvero, della sua capacità di riscossione) e della rigidità della spesa corrente, espressione dell’incapacità dell’Ente pubblico di far fronte con le entrate ordinarie ai pagamenti e anticamera del dissesto[21], essendo, peraltro, un’obbligazione ex lege finalizzata a consentire di poter disporre di un’anticipazione di liquidità a breve termine, attinente al rapporto dare-avere tra l’Ente locale ed il suo tesoriere non potendosi trasformare surrettiziamente in una forma stabile di indebitamento[22], in violazione alla regola del comma 6, dell’art. 119 Cost.[23];
- si sono verificate ripetute segnalazioni, da parte della sez. regionale di controllo della Corte dei conti, sulle criticità della tensione di cassa, che avrebbero dovuto suggerire un pronto intervento per garantire gli equilibri di bilancio, ovvero l’attendibilità dei dati di entrata preventivati in conto competenza, aggiunte a rilievi in merito ai controlli interni, alle verifiche degli organismi partecipati (i compensi agli amministratori) e alla relativa conciliazione delle partite debitorie e creditorie con le società partecipate, alla spesa del personale, alla gestione del patrimonio, al basso recupero dell’evasione tributaria, all’attendibilità dei residui, all’assenza di un piano triennale di contenimento delle spese, al mancato aggiornamento dell’inventario.
Occorre, per ciò che interessa, rintracciare una buona regola di sana gestione finanziaria, peraltro oggetto di pubblicazione obbligatoria (ex art. 33, Obblighi di pubblicazione concernenti i tempi di pagamento dell’amministrazione, del d.lgs. n. 33/2013), sulla tempestività della chiusura delle transazioni commerciali (ex art. 4, Termini di pagamento, del d.lgs. n. 231/2002) dove il pagamento dei debiti scaduti rappresenta un obiettivo prioritario per tutte le Pubbliche Amministrazioni, non solo per la critica situazione economica che il ritardo ingenera nei soggetti creditori, ma anche per la stretta connessione con l’equilibrio finanziario dei bilanci pubblici, il quale viene intrinsecamente minato dalla presenza di situazioni debitorie non onorate tempestivamente[24].
Fatto che di per sé rileva una responsabilità e si collega ad un autonomo sistema sanzionatorio, rilevando in ambito del potere di spesa, quando non sia connesso a prestazioni riconducibili a diritti fondamentali, viene assoggettato al “principio della sostenibilità economica”[25], dovendo, nell’assumere un impegno di spesa, specie se pluriennale, prestare idonea considerazione alla relativa sostenibilità finanziaria, con l’indicazione delle risorse effettivamente disponibili, con misure di fattibilità di natura tecnica e finanziaria, con l’articolazione delle singole coperture finanziarie per annualità (c.d. competenza finanziaria potenziata), a presidio della sana gestione finanziaria.
A fronte di tali fatti oggettivi, il disavanzo non si può imputare alla riforma relativa alla armonizzazione dei sistemi contabili, ma da un sostanziale “occultamento” negli esercizi di tutta una serie di manovre che avrebbero potuto evitare la creazione di una esposizione debitoria elevata, il cui valore è dipeso dai mancati accantonamenti e dalla sopravvalutazione dell’entità dei residui attivi, palesata (successivamente) dall’emersione di debiti fuori bilancio e dal conseguente (ed inevitabile) squilibrio finanziario non risanabile mediante le misure ordinarie (ex artt. 193 e 194 del d.lgs. n. 267/2000), ma con apposito provvedimento consiliare di cui all’art. 243 bis, Procedura di riequilibrio finanziario pluriennale, del TUEL.
Procedura di ripiano non approvata sia dalla sez. regionale di controllo della Corte dei Conti che dalle sez. Riunite in speciale composizione (per le motivazioni riferite all’inattendibilità, incongruenza, scarsità e incertezza delle misure proposte): di conseguenza la dichiarazione di dissesto con deliberazione del commissario straordinario[26].
La decisione di dichiarare lo stato di dissesto finanziario non è, pertanto, frutto di una scelta discrezionale ma rappresenta una determinazione vincolata ed ineludibile in presenza dei presupposti di fatto fissati dalla legge, ed acclara una situazione che esige misure straordinarie per assicurare la sostenibilità finanziaria dell’Ente.
Allo stesso modo si riconnette all’individuazione delle cause che hanno determinato la situazione di deficit finanziario economico, che oltre a costituire il presupposto logico – giuridico del procedimento di risanamento della riorganizzazione dell’Ente e della corretta impostazione delle indispensabili analisi finanziarie ed organizzative per addivenire alla adeguata definizione del nuovo bilancio stabilizzato, riconnette le responsabilità verso coloro che sono stati i fautori delle cause, ovvero non hanno adottato quei presidi di “buon governo” (diligenza, perizia e cautela) per evitare il dissesto, specie in presenza di una serie di indicatori di instabilità e criticità finanziaria dell’Ente.
Singole responsabilità
La situazione di dissesto, riferita ad uno squilibrio pluriennale, non poteva non essere conosciuta agli attuali amministratori (gli opponenti) non potendo ritenere la presenza di alcun esonero di responsabilità dei subentranti.
La Corte differenzia le responsabilità in relazione all’apporto causale, escludendo quella dei componenti della giunta che non seguivano (deleghe) la materia finanziaria (accogliendo il ricorso e annullando le sanzioni) e condannando il sindaco e l’assessore al bilancio della sanzione interdittiva e pecuniaria (ritenuta congrua nella misura massima in relazione alla gravità della colpa, in relazione al nesso causale e all’elemento psicologico, (ergo la proporzionalità in concreto a seguito dell’accertamento senza, di converso, alcun automatismo), i quali nelle rispettive competenze non hanno adottato alcuna misura per evitare il dissesto.
Infatti, la situazione di disavanzo è dipesa da una gestione complessivamente deficitaria, da una situazione che nel tempo è stata caratterizzata da sofferenze di cassa non derivate da fattori contingenti, da un consumo di risorse eccedenti la disponibilità dell’Ente.
Aspetti tutti noti all’assessore al bilancio, il quale, secondo la disciplina regolamentare interna, aveva la direzione degli interventi incidenti sul bilancio, potendosi avvalere (ma non è stato fatto) della struttura e delle professionalità presenti nel Comune per la definizione degli interventi di riequilibrio: interventi doverosi a fronte di apposite relazioni di sollecito che non hanno portato ad alcun riscontro («non sono stati oggetto di adeguata considerazione»), evidenziando un’evidente responsabilità:
- in relazione al ruolo ricoperto di formazione del bilancio;
- all’insensibilità nel definire una qualche azione di contrasto «volta ad arginare le cause dello squilibrio che, stratificatosi nel tempo, si stava manifestando»;
- all’inescusabile negligenza (per la mancata proposizione di azioni tese a riequilibrare la gestione), imprudenza (per la mancata valutazione delle conseguenze dirette della reiterata situazione di squilibrio) ed imperizia (per la mancata individuazione della situazione deficitaria e delle azioni atte a rimuovere i fattori di criticità, che dovevano essere noti).
Considerazioni in parti simili per la figura del sindaco, il quale normativamente (ai sensi dell’art. 50 del TUEL) è posto a capo dell’Amministrazione con poteri di vigilanza e controllo sulle attività della Giunta e delle strutture gestionali ed esecutive del Comune, a cui competeva (su base regolamentare) definire gli indirizzi per la stesura degli atti programmatori e finanziari, attività che implicava ex se la conoscenza diretta sulla situazione di squilibrio in cui versava l’Ente.
A nulla è valso il richiamo ai principi di separazione tra “politica” e “amministrazione”, essendo una responsabilità propria (non ritraibile, ossia nel senso di una inconfigurabilità dell’esimente politica)[27] che non può che appartenere agli organi elettivi dell’Ente locale (gli amministratori), segnando un obbligo di azione che indica un dovere di immediata attivazione per la salvezza finanziaria del Comune: «trattasi di ipotesi di responsabilità sanzionatoria specificamente riferibile agli amministratori e che, peraltro, le deliberazioni della Sezione regionale di controllo… avevano evidenziato criticità – quali le carenze sul fronte dei controlli interni e la generale situazione di fragilità finanziaria del Comune – che attenevano a profili necessariamente inerenti la sovrintendenza politico-amministrativa e delle strutture gestionali ed esecutive del Comune, cui il sindaco era tenuto».
La sentenza ha affrontato compiutamente una molteplicità di prospettive nell’analizzare i fatti e le conseguenze, di una condotta reiterata di consapevole (la conoscibilità giuridica, non la mera conoscenza) omissione nel porre in essere misure idonee a risanare i conti, in un crescente richiamo ad operare con prudenza a fronte fondati indici di pericolo sulla stabilità finanziaria, mettendo in viva luce la tipologia della debenza, dove non vengono in rilievo i profili risarcitori propri della responsabilità erariale, bensì condotte identificate dal legislatore come illecite perché etiologicamente connesse alla dichiarazione di dissesto dell’Ente locale (quasi un lontano monito, videant consules, ne quid res publica detrimenti capiat).
(PUBBLICATO, dirittodeiservizipubblici.it, 23 dicembre 2022)
[1] In non apparente assimilazione con l’inadempimento dell’obbligo di presentare la relazione di fine mandato, ex art. 4, comma 6, d.lgs. n. 149/2011, uniformate nell’esigenza di effettuare un controllo degli organi elettivi a livello territoriale, Procura Generale della Corte dei conti, Relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, Roma, 19 febbraio 20221.
[2] TAR Campania, Napoli, sez. V, 26 giugno 2019, n. 3514.
[3] Corte Cost., 24 ottobre 2022, n. 219.
[4] Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 12 gennaio 2022, n. 1.
[5] Cfr. Corte conti, sez. giur. Abruzzo, 10 dicembre 2021, n. 280; sez. giur. Calabria, 4 agosto 2021, n. 215.
[6] Il giudice contabile non viola i limiti esterni della propria giurisdizione qualora censuri, non già la scelta amministrativa adottata, bensì il modo con il quale quest’ultima è stata attuata, profilo che esula dalla discrezionalità amministrativa, dovendo l’agire amministrativo comunque ispirarsi a criteri di economicità ed efficacia. Si ricava che le scelte degli amministratori si devono conformarsi ai suddetti criteri di legalità e a quelli giuridici di economicità (ottimizzazione dei risultati in relazione alle risorse disponibili), di efficacia (idoneità dell’azione amministrativa alla cura effettiva degli interessi pubblici da perseguire, congruenza teleologia e funzionale ) e di buon andamento: tutte scelte soggette al controllo della Corte dei Conti, assumendo rilevanza sul piano della legittimità, e non della mera opportunità, dell’azione amministrativa, Cass. civ., SS.UU., ordinanza 26 luglio 2022, n. 23241.
[7] Corte conti, sez. giur. Calabria, decreto 16 aprile 2021, n. 3.
[8] Cfr. Corte conti, sez. giur. Marche, 9 aprile 2022, n. 4; sez. giur. Liguria, sentenze 16 marzo 2022, n. 32, 28 ottobre 2021, n. 198, 12 ottobre 2021, n. 188, 11 ottobre 2021, n. 186.
[9] Corte conti, sez. III App., sentenze 9 luglio 2019, n. 132, 30 luglio 2019, n. 147; sez. II App., 13 febbraio 2017, n. 91; Cass. civ., SS.UU. 23 novembre 2012, n. 20728 e 23 gennaio 2012, n. 831.
[10] L’insindacabilità “nel merito” delle scelte discrezionali compiute da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti non comporta che esse siano sottratte ad ogni possibilità di controllo, e segnatamente a quello della conformità alla legge che regola l’attività amministrativa, potendo e dovendo la Corte dei Conti verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini pubblici dell’Ente, che devono essere ispirati ai criteri di economicità ed efficacia, rilevanti sul piano non della mera opportunità bensì della legittimità dell’azione amministrativa, Cass. civ., SS.UU., 17 dicembre 2020, n. 28975, idem 3 novembre 2020, n. 24376.
[11] Cass. civ., SS.UU., ordinanza 20 ottobre 2022, n. 22811.
[12] Cass. civ., SS.UU., 30 ottobre 2022, n. 24108. Il Giudice erariale effettuerà un controllo di ragionevolezza sulle scelte della Pubblica Amministrazione, onde evitare la deviazione di queste ultime dai fini istituzionali dell’Ente e permettere la verifica della completezza dell’istruttoria, della non arbitrarietà e proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi, nonché della logicità ed adeguatezza della decisione finale rispetto allo scopo da raggiungere, Cass. civ., SS.UU., ordinanza 15 settembre 2022, n. 19174.
[13] Cfr. Cons. Stato, sez. III, 2 settembre 2019, n. 6058.
[14] Corte conti, sez. giur. Veneto, 22 settembre 2015, n. 133, rilevando che il comportamento contra legem del pubblico amministratore non è mai al riparo dalla valutazione giurisdizionale non potendo esso costituire esercizio di scelta discrezionale insindacabile, Cass. civ., SS.UU., 27 febbraio 2008, n. 5083 e 28 marzo 2006, n. 7024; Corte conti, sez. II App., 8 giugno 2015, n. 296: nel merito amministrativo insindacabile, confluiscono solo quelle possibilità decisionali compatibili con i principi di ragionevolezza che devono sempre innervare la scelta discrezionale, criteri che se non rispettati, la rendono un dannoso arbitrio.
[15] Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2022, n. 2139.
[16] Corte conti, sez. giur. Calabria, 6 aprile 2021, n. 122.
[17] Corte conti, sez. Riunite, 1° aprile 2022, n. 4, ove sono state fornite le risposte alle «obiezioni di illegittimità costituzionale, per contrasto degli art. 133 e ss. c.g.c. con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.: le stesse appaiono, invero, manifestamente infondate, preservandosi, con il rito così delineato, il nucleo essenziale dei diritti di difesa costituzionalmente garantiti».
[18] Corte cost., 5 dicembre 2018, n. 222, il riferimento non risulta conferente, essendo peraltro riferibile alla disciplina penale, ove la Corte osserva che la «durata fissa delle pene accessorie previste dall’art. 216, ultimo comma, della legge fallimentare non appare, in linea di principio, compatibile con i principi costituzionali in materia di pena, e segnatamente con i principi di proporzionalità e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio: la determinazione del trattamento sanzionatorio per i fatti previsti come reato è riservato alla discrezionalità del legislatore, in conformità a quanto stabilito dall’art. 25, secondo comma, Cost.; tuttavia, tale discrezionalità incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che – in subiecta materia – è superato allorché le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una violazione congiunta degli artt. 3 e 27 Cost., giacché una pena non proporzionata alla gravità del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa».
[19] Cfr. Corte conti, sez. contr. Piemonte, delibera n. 261/2013/PRSP).
[20] Corte conti, sez. contr. Puglia, delibera n. 119/2022/PRSP.
[21] Corte conti, sez. contr. Umbria, delibera n. 83/2017/PRSP. Si rinvia, LUCCA, Dissesto e anticipazione di tesoreria, Finanza e Tributi Locali, 2022, n. 9 – 10, dove si analizzano le anticipazioni, vera e propria anticamera dell’illiquidità e, quindi, dell’insolvenza, premessa di inevitabile dissesto.
[22] Cfr. Corte conti, sez. contr. Emilia – Romagna, deliberazione n. 214/2021/PRSE e n. 109/2021/PRSE, secondo le quali la verifica di un’anticipazione senza soluzione di continuità rappresenta un comportamento difforme alla sana e prudente gestione finanziaria.
[23] Cfr. Corte conti, sez. giur. Calabria, 12 febbraio 2020, n. 62, ove si rileva che l’anticipazione costituisce un’anticipazione di cassa che consente all’Ente locale la stabilità necessaria per garantire il regolare corso dei pagamenti e, proprio per tale ragione, l’anticipazione di tesoreria non è considerata una forma di indebitamento.
[24] Corte Cost., sentenze n. 250/2013 e n. 78/2020.
[25] Corte Cost., sentenze nn. 190/2022, 62/2020 e 227/2019.
[26] La dichiarazione di dissesto finanziario costituisce un evento di carattere eccezionale e patologico della vita dell’Ente locale, con la conseguenza che alla relativa dichiarazione può farsi luogo solo all’esito dell’accertamento (da parte degli stessi organi ordinari dell’ente o in via eccezionale, nell’ipotesi di cui all’art. 247 del TUEL, da parte del commissario ad acta) della specifica incapacità di assolvimento delle funzioni e dei servizi indispensabili ovvero dell’esistenza nei confronti dell’ente di crediti liquidi ed esigibili di terzi, cui non possa validamente farsi fronte con le modalità di cui all’art. 193, e, per i debiti fuori bilancio, con le modalità di cui all’art. 194 del TUEL, Cons. Stato, sez. V, 16 gennaio 2012, n. 143.
[27] Nelle ipotesi di cui all’art. 248, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, «si sanzionano condotte attive e/o omissive riferibili a competenze proprie dell’organo di governo dell’ente dissestato, quali il mantenimento di livelli di spesa non sostenibili, l’inadeguato indirizzo in materia di acquisizione di entrate, il mantenimento di residui attivi inesistenti», DE FRANCISCIS, I profili di responsabilità erariale e sanzionatoria connessi alle situazioni di crisi finanziaria, Cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario 2022, Roma, 1 marzo 2022, pag. 300.