L’art. 21 della Cost., esprime un principio di libertà del pensiero, dove il singolo può esprimere le proprie opinioni («Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione»), una tutela costituzionale aperta, rientrante tra i diritti inviolabili dell’uomo, espressione dei regimi democratici, dove la censura segna i limiti a questa libertà (a volte invocando “la scienza”, suprema espressione del comando che sopprime), ledendo i diritti del singolo (la sfera personale con un’indebita ingerenza), ovvero il diritto di essere informati e di rendere conto delle proprie azioni se il soggetto è un soggetto pubblico.
Purtuttavia, la libertà di manifestazione del pensiero protetta dalla Costituzione non è senza limiti (ed il limite segna il diritto)[1]: questi ultimi possono essere posti dalla legge e debbono trovare la base giuridica in precetti e principi costituzionali, espressamente enunciati o desumibili (indiretti) dalla Carta costituzionale[2].
Le libertà e l’immagine della PA
In effetti, per non andare oltre, abbiamo assistito nel recente passato, con il DPR n. 81/2023, una deriva con l’inserimento nel Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, al secondo comma dell’art. 12, Rapporti con il pubblico, del DPR n. 62/2013, l’obbligo del dipendente pubblico di astenersi da dichiarazioni pubbliche «che possano nuocere al prestigio, al decoro o all’immagine dell’amministrazione di appartenenza o della pubblica amministrazione in generale», segnando il perimetro della libertà di espressione, in palese lesione del diritto cit., ritenendo, tuttavia, che l’interpretazione debba essere orientata al rispetto dei doveri etici minimi che legano il rapporto di fiducia tra datore pubblico e prestatore: la lealtà.
L’etica pubblica
Fatte queste premesse di contesto e traslando il contenuto ad un orientamento della sez. VII del Consiglio di Stato, sentenza 4 luglio 2024, n. 5930 (Est. Lipari), non si può che affermare come la PA possa esprimere lecitamente il proprio dissenso rispetto alle opinioni di terzi (singoli associati) e rifiutarsi di rendere una prestazione quando venga ritenuta lesiva della sensibilità di una parte dei cittadini, manifestando, così facendo, l’espressione di un pensiero orientato ad una parte: un bilanciamento – caso per caso – con un interesse antagonista, dove uno prevale sull’altro.
Si direbbe che l’espressione del valore pubblico può consistere anche nella non affissione di manifesti che ledono l’immagine del “sentire” (sentimento) pubblico a tutela dei singoli.
Invero, tale scelta dell’istituzione si regge su valutazioni non tecniche (quasi oggettive) ma politiche, espressione dunque della libertà dei fini (si pensi all’atto politico e ai limiti del giudice)[3], ritenuti meritevoli da una parte rispetto ad un’altra.
Fatto
Nella sua sintesi, un’Associazione (che difende il diritto alla vita) ricorre per l’annullamento del provvedimento con cui un’Amministrazione aveva rigettato la richiesta di affissione di alcuni manifesti (500) in area appartenente al demanio locale, nell’ambito di una campagna di sensibilizzazione sul tema dell’interruzione volontaria della gravidanza.
L’unico articolato motivo di appello: «Violazione e falsa applicazione dell’art. 21 della Costituzione. Violazione e falsa applicazione dell’art. 9 della CEDU. Travisamento dei fatti. Difetto di motivazione della sentenza impugnata. Eccesso di potere per sviamento», con ulteriore memoria difensiva e di replica, deducendo, altresì, che la questione doveva risolversi con riferimento alle “pubbliche affissioni” non potendo imporre tali limiti (come previsto dal regolamento non rientrando nella tipologia del “messaggio pubblicitario”).
Merito
Il Giudice di seconde cure:
- non accoglie l’eccezione di improcedibilità, nonostante il tempo trascorso, in quanto permane un interesse morale all’accertamento della illegittimità della condotta assunta della PA, non potendo escludersi l’interesse alla tutela risarcitoria;
- nel merito l’appello viene ritenuto destituito di fondamento.
Passando ai motivi di sostanza:
- i dinieghi sono rispettosi del principio costituzionale di libertà di manifestazione del pensiero;
- attengono alla corretta utilizzazione di spazi pubblici di proprietà comunale, nel rispetto del generale canone di “normale continenza espressiva” che caratterizza la fisiologica dialettica democratica;
- la libertà di espressione, secondo l’esegesi nazionale e comunitaria, non va considerata in modo illimitato e senza alcun controllo controllata, ma, comportando doveri e responsabilità, operanti (si commenta) nei principi di natura giuridica posti dall’ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo (i c.d. canoni di legalità, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto, con limiti esterni per non alterare il processo democratico di espressione delle libertà);
- tali libertà di espressione possono essere sottoposte dall’autorità pubblica anche a formalità, condizioni ovvero restrizioni, le quali, proprio in una società democratica, appaiono misure necessarie a proteggere l’interesse pubblico superiore e la reputazione, ovvero i diritti altrui.
Si deduce la correttezza e condivisione delle conclusioni del TAR, riconoscendo la piena legittimità costituzionale della norma di cui al d.lgs. 507/1993, che «del tutto ragionevolmente consente agli enti locali di regolare e porre limiti per particolari forme pubblicitarie in relazione alle esigenze di pubblico interesse», potendo non disporre l’affissione di quei messaggi che presentano un carattere ingiurioso o si appalesano lesivi dei diritti civili e politici tutelati dalla Costituzione.
Il dissenso della PA
Nell’esercizio del potere amministrativo rientra la possibilità di sindacare (alias censurare) il contenuto e le modalità del messaggio, oggetto di istanza di affissione, anche se l’intervento inibitorio non si spinge ad esplicite forme di aggressività e di violenza: vi è una graduazione che può ritenersi ragionevole in funzione di un possibile (c.d. potenziale) pregiudizio ad altri soggetti, secondo un criterio di prudenza e precauzione (compendiare il bilanciamento o comparare la lesione di chi, il privato, vorrebbe esportare il messaggio al pubblico e chi, il cittadino, è esposto alla vista del suo contenuto (immagine o scritto)[4].
Il regolamento comunale sulla pubblicità riportava legittimamente (sentenzia il GA): «È altresì vietata l’esposizione pubblicitaria il cui contenuto sia lesivo del rispetto delle libertà individuali, dei diritti civili e politici, del credo religioso, dell’appartenenza etnica, dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, delle abilità fisiche e psichiche».
La motivazione del diniego operata dalla PA è solida, costruita in modo ragionevole e logico: l’affissione su spazi pubblici dei manifesti opererebbe una incisione «sulla sensibilità di una parte consistente del pubblico e, segnatamente, delle donne», valutazione che rientra nell’esercizio della discrezionalità amministrativa nel potere di regolamentazione delle affissioni di manifesti[5] non sindacabile dal GA se non per palesi illogicità o difetti di istruttoria che, nel caso concreto, non emergono.
L’insieme porta a ritenere che i manifesti o altre forme di comunicazione su impianti di proprietà pubblica, come le sponsorizzazioni, vanno e possono essere vagliate dalla PA, con facoltà di disporne l’oscuramento (rectius mancata affissione), abilitando una selettività sull’espressione del pensiero quando la lesione ai valori costituzionali e di una determinata Comunità, Paese, Nazione sono calpestati (i c.d. limiti esterni dell’ordinamento), assicurando sempre e comunque un dovere di prudenza e diligenza (temperanza), che si contrappone alla narrazione di coloro che, in nome della politica corretta (c.d. cancel culture), accettano ogni deviazione, alimentando le prevaricazioni di pochi sui molti.
[1] Cfr. Corte cost., sentenze nn. 9 del 1965 e 100 del 1981.
[2] Limiti posti derivanti dalla tutela del buon costume o dall’esistenza di beni o interessi diversi che siano parimenti garantiti o protetti dalla Costituzione, Corte cost., sentenza n. 86 del 1974, nonché dall’esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, Corte cost., sentenze nn. 19 del 1962; 87 del 1966; 84 del 1969 e 65 del 1970.
[3] Cfr. Corte cost., 5 aprile 2012, n. 81.
[4] Vedi, LUCCA, Piena liceità dell’affissioni di manifesti dei non credenti a garanzia della libertà di coscienza, segretaricomunalivighenzi.it, 6 luglio 2020, dove si analizzava il diritto a non subire discriminazioni, come una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione – e dunque anche sul piano delle specifiche discriminazioni – poste in essere sia da privati che dalla Pubblica Amministrazione, perfino di fronte all’esercizio di poteri discrezionali ed autoritativi da parte di quest’ultima.
[5] L’art. 3, Regolamento e tariffe, del d.lgs. n. 507/1993, prevedeva, al comma due, «con il regolamento il comune disciplina le modalità di effettuazione della pubblicità e può stabilire limitazioni e divieti per particolari forme pubblicitarie in relazione ad esigenze di pubblico interesse».