La sez. IV del Cons. Stato, con la sentenza n. 8328 del 5 dicembre 2019, affronta gli effetti del mancato adempimento di una convenzione del diritto di superficie per la realizzazione di un centro religioso islamico, rilevando la prevalenza dell’interesse al culto rispetto all’inadempimento convenzionale, ove l’Amministrazione non disponga di una motivazione rafforzata sul bilanciamento degli interessi al corretto sviluppo territoriale e quello della libertà di culto.
È noto che l’ordinamento costituzionale salvaguardia «la libertà di religione» in regime di pluralismo confessionale e culturale: compito della Repubblica è, infatti, «garantire le condizioni che favoriscano l’espansione della libertà di tutti e, in questo ambito, della libertà di religione», la quale rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile dall’art. 2 Cost.[1], che ha riscontro del tutto simmetrico, per i profili in esame, nel principio di imparzialità della Pubblica amministrazione (ex art. 97 Cost.), sicché un’eventuale condizione di minoranza di alcune confessioni non può giustificare un minor livello di protezione della loro libertà religiosa rispetto a quella delle confessioni più diffuse[2].
Il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione (ex art. 19 Cost.) ed è, pertanto, riconosciuto egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (ex art. 8, primo e secondo comma Cost.), a prescindere dalla stipulazione di una intesa con lo Stato: il concordato o l’intesa non possono costituire condicio sine qua non per l’esercizio della libertà religiosa[3]: gli accordi bilaterali sono piuttosto finalizzati al soddisfacimento di «esigenze specifiche di ciascuna delle confessioni religiose (sentenza n. 235 del 1997), ovvero a concedere loro particolari vantaggi o eventualmente a imporre loro particolari limitazioni (sentenza n. 59 del 1958), ovvero ancora a dare rilevanza, nell’ordinamento, a specifici atti propri della confessione religiosa»[4].
Di conseguenza, l’apertura di luoghi di culto[5], in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost., la quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume: l’esercizio della libertà di aprire luoghi di culto, non può essere valutata solo sotto il profilo urbanistico ma deve considerare il profilo costituzionale dell’interesse sotteso.
Giova, per ciò che interessa, ammettere che la pianificazione urbanistica dei luoghi di culto, se attiene senz’altro al «governo del territorio», rientrante nelle competenze regionali concorrenti, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost.[6], il legislatore regionale, nell’esercizio delle sue competenze non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione; ovvero, limitare attraverso la disciplina urbanistica la libertà religiosa, rectius la costruzione di luoghi di culto (come si avrà modo di analizzare nel proseguo), eccedendo i limiti della propria competenza.
Anticipando, il pronunciamento costituzionale si rileva, dal quadro normativo ed esegetico, che la libertà religiosa comprende anche la libertà di culto e, con essa, il diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare; pertanto, quando disciplina l’uso del territorio, il legislatore deve tener conto della necessità di dare risposta a questa esigenza e non può comunque ostacolare l’insediamento di attrezzature religiose.
La questione nella sua essenzialità si riferisce alla richiesta, da parte di un Centro culturale islamico, della concessione del diritto di superficie su parte di un’area comunale per realizzarvi edifici e attrezzature destinati al culto e servizi religiosi e di carattere socio-culturale correlati.
Il Consiglio comunale accertava l’interesse pubblico all’iniziativa[7], la Giunta comunale approvava lo schema di convenzione per la concessione del diritto di superficie richiesto per la durata di 50 anni; successivamente il Centro risultava inadempiente (grave) agli obblighi convenzionali (mancato pagamento della somma; mancato completamento della procedura di avviata bonifica; mancato inizio dei lavori di realizzazione della struttura), con conseguente decadenza della concessione ed escussione delle fideiussioni.
In primo grado, viene anteposta la non gravità degli inadempimenti e il prevalente interesse pubblico, mai espressamente revocato, che potrebbe giustificare la decadenza in base ad un mero e contestato inadempimento.
Le argomentazioni del Comune:
- richiamano la sopraggiunta disciplina regionale, applicabile alla vicenda, che richiederebbe la rivisitazione dell’originario disegno amministrativo alla luce delle nuove norme che esigono l’adozione di un apposito piano per la collocazione delle attrezzature religiose (con conseguente discrezionalità di un paventato obbligo per i Comuni di prevedere la realizzazione di nuove attrezzature religiose mediante l’apposito piano);
- la sentenza della Corte Costituzionale n. 63/2016, manterrebbe distinta l’applicazione tra enti della religione cattolica e gli altri enti di altre religioni;
- vi sarebbe un’indebita commistione di piani fra il diritto a esercitare la propria fede e le concrete vicende del disegno amministrativo volto a consentirne la realizzazione;
- il mancato pagamento nei termini dell’importo integrerebbe i gravi e ripetuti inadempimenti (essenzialità del termine e altri) che non potrebbero prevalere sull’interesse pubblico alla realizzazione degli edifici per il culto;
- la previsione di una garanzia fideiussoria non farebbe venir meno la gravità dell’inadempimento, essendo fideiussione e risoluzione entrambe previste dalle clausole della convenzione.
Di converso, il Centro nel resistere, con proprio controricorso e proporre appello incidentale per ripresentare i motivi di primo grado respinti, assorbiti o non esaminati, rileva:
- la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di decadenza del titolo autorizzativo;
- la debenza sarebbe dovuta in un termine diverso da quello preteso;
- le fideiussioni erano poste a garanzia dell’esecuzione di un’opera individuata dal Comune, successivamente accantonato;
- il cronoprogramma dei lavori e il termine non sarebbe coerente con la realizzazione dell’opera, e comunque non essenziale in relazione al riconosciuto interesse pubblico sottostante.
I giudici di appello, si soffermano sulla ricostruzione fornita dalla Corte Cost. sulla disciplina regionale che prevede che «gli enti delle confessioni religiose diverse dalla Chiesa cattolica… devono stipulare una convenzione a fini urbanistici con il comune interessato… e che tali convenzioni devono prevedere espressamente la possibilità della risoluzione o della revoca, in caso di accertamento da parte del comune di attività non previste nella convenzione».
La Corte, in quel caso, ha precisato che la convenzione deve essere ispirata alla finalità, tipicamente urbanistica, di assicurare lo sviluppo equilibrato e armonico dei centri abitati, con la possibilità di prevedere casi di risoluzione o revoca graduate all’effetto di eventuali violazioni.
Inoltre, nel processo risolutorio l’Amministrazione doveva valutare (bilanciare o ponderare in funzione al rango costituzionale degli interessi attinenti alla libertà religiosa) strumenti urbanistici alternativi per la realizzazione degli edifici di culto, idonei a salvaguardare gli interessi pubblici rilevanti, ma meno pregiudizievoli per la libertà di culto, il cui esercizio, trova nella disponibilità di luoghi dedicati una condizione essenziale.
I giudici di Palazzo Spada, rammentano all’Ente locale che, nell’affrontare una convezione per garantire un luogo di preghiera, si è in presenza di una fattispecie che ha una natura diversa rispetto ad un ordinario intervento di sviluppo territoriale, imponendo di valutare (profilo non avvenuto nel caso concreto), e di conseguenza motivare, se gli inadempimenti addotti debbano necessariamente comportare la risoluzione, la revoca o la decadenza o se non siano utilizzabili diversi strumenti, meno lesivi per la libertà di culto.
Le considerazioni che precedono, non avendo il Comune effettuato la necessaria comparazione degli interessi coinvolti nella vicenda – quello urbanistico e quello della libertà religiosa, porta a ritenere il ricorso infondato per la parte del grave inadempimento degli obblighi convenzionali, con il corollario di confermare l’annullamento della decadenza.
Per gli altri profili, si rileva che all’appello incidentale del Centro concernente la dedotta violazione delle garanzie partecipative, benché la giurisprudenza sia consolidata nel senso di non richiedere un formalistico rispetto delle garanzie procedimentali, nella specie l’avviso non può considerarsi validamente surrogato da una pregressa interlocuzione con gli uffici comunali (come invece ha ritenuto il TAR) dovendo effettuare una specifica comunicazione di avvio del procedimento di decadenza non potendo ammettere forme equivalenti, quali lo scambio di note tra le parti quasi a volere ammettere una sorta di implicito avvio del procedimento (il motivo viene accolto).
L’annullamento della delibera di decadenza della concessione fa venire meno gli altri motivi del ricorso, quali l’escussione delle fideiussioni che presupporrebbe la legittimità della delibera di decadenza dal diritto di superficie (improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse).
La questione affrontata sottende un aspetto della disciplina regionale in materia di “Governo del Territorio” che attraverso norme di pianificazione limitano la libertà religiosa, nel senso che rendendo incerta l’adozione degli strumenti urbanistici di collocazione degli edifici di culto nel concreto ne impediscono la costruzione.
In questo senso, la Corte Costituzionale con la sentenza 5 dicembre 2019 n. 254, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune norme della legge regionale Lombardia n. 12 del 11 marzo 2005, «Legge per il governo del territorio», che ostacolando la programmazione delle attrezzature religiose da parte dei comuni, «determina una forte compressione della libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo del territorio».
Subordinare (ad opera di una disposizione regionale) la necessaria e inderogabile approvazione del piano per le attrezzature religiose (PAR) unitamente all’approvazione del piano che investe l’intero territorio comunale a cura del Comune (il piano di governo del territorio (PGT) o la sua variante generale), per dar corso all’individuazione delle aree di costruzione degli edifici di culto, risulta «ingiustificata e irragionevole, e tanto più lo è in quanto riguarda l’installazione di attrezzature religiose, alle quali, come visto, in ragione della loro strumentalità alla garanzia di un diritto costituzionalmente tutelato, dovrebbe piuttosto essere riservato un trattamento di speciale considerazione».
Aggiunge la Corte che «è significativo che per gli altri impianti di interesse pubblico la legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 non solo non esiga la variante generale del PGT ma non richieda neppure sempre la procedura di variante parziale, visto che «[l]a realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi, non comporta l’applicazione della procedura di variante al piano stesso ed è autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio comunale».
In termini diversi, la disciplina regionale determina di fatto una limitazione dell’insediamento di nuove attrezzature religiose non giustificata da reali esigenze di buon governo del territorio, comprimendo in modo irragionevole la libertà di culto, viola gli artt. 2, 3 e 19 della Carta Fondamentale.
Le conclusioni della Corte erano già tracciate (come ebbi da scrivere)[8], senza volere richiamare le contaminazioni degli insegnamenti di BARTOLO da Sassoferrato, i principi di natura costituzionale sulla libertà religiosa, correlato alla laicità dello Stato[9] «impediscono di limitare la libertà di culto attraverso la selezione, con strumenti di natura urbanistica, dei luoghi deputati ad esprimere e manifestare la sensibilità religiosa (la c.d. professione di fede), sentimento necessariamente soggettivo».
Si scrisse (ed è scritto) che la Corte Cost. «sarà chiamata a pronunciarsi su una questione intimamente legata all’attualità, alla globalizzazione, allo sviluppo urbano e alla convivenza (integrazione) sociale, segnando inevitabilmente la dimensione spirituale della “libertà di culto” o, quella più terrena, della “libertà di pianificazione urbana”, occupando uno spazio di supplenza all’azione legislativa, nel processo di produzione giuridica di un più alto grado di virtù: imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo, equilibrio, rispetto dell’altrui dignità… Il percorso è già tracciato (alea iacta est)».
In effetti, leggendo la sentenza 5 dicembre 2019, n. 254 della Corte Costituzionale, il percorso non va che ad essere ribadito quando si conferma che la «libertà religiosa», garantita dall’art. 19 Cost., è un diritto inviolabile, tutelato «al massimo grado» dalla Costituzione.
La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di laicità, che contraddistingue l’ordinamento repubblicano, impone l’esercizio pubblico e comunitario del culto, tutelato e assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza.
Dunque, la libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati (in proporzione alla presenza sul territorio, assicurando un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili) per poterla concretamente esercitare, con la conseguenza di un duplice dovere a carico delle Autorità pubbliche cui spetta di regolare e gestire l’uso del territorio (essenzialmente le regioni e i comuni):
- in positivo, previsione e messa a disposizione spazi pubblici per le attività religiose;
- in negativo, imporre che non si frappongano ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici.
La disciplina censurata riguarda indistintamente (ed esclusivamente) tutte le nuove attrezzature religiose, a prescindere dal loro carattere pubblico o privato, dalla loro dimensione, dalla specifica funzione cui sono adibite, dalla loro attitudine a ospitare un numero più o meno consistente di fedeli, e dunque dal loro impatto urbanistico, che può essere molto variabile e potenzialmente irrilevante.
L’effetto di tale assolutezza è che anche attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica, solo per il fatto di avere destinazione religiosa (si pensi a una piccola sala di preghiera privata di una comunità religiosa), sono sottoposte ad un regime urbanistico/edilizio gravoso al punto che i membri di un’associazione avente finalità religiosa non possono riunirsi nella sede privata dell’associazione per svolgere l’attività di culto[10], senza una specifica previsione urbanistica rispetto a qualsiasi altra attività associativa, purché non religiosa, che può essere svolta senz’altro nella sede sua propria, liberamente localizzabile sul territorio comunale nel solo rispetto delle generali previsioni urbanistiche.
In questa prospettiva, un regime così differenziato che, a dispetto dello specifico riconoscimento costituzionale del diritto di disporre di un luogo di esercizio del culto, colpisce solo le attrezzature religiose e non le altre opere di urbanizzazione secondaria, quali per esempio scuole, ospedali, palestre, centri culturali (che pure possono presentare maggiore o minore impatto urbanistico in ragione delle loro dimensioni, della funzione e dei potenziali utenti).
Si comprende, sotti i profili descritti, che subordinare, a cura del legislatore regionale, alle sole attrezzature religiose al vincolo di una specifica e preventiva pianificazione «indica che la finalità perseguita è solo apparentemente di tipo urbanistico-edilizio, e che l’obiettivo della disciplina è invece in realtà quello di limitare e controllare l’insediamento di (nuovi) luoghi di culto. E ciò qualsiasi sia la loro consistenza, dalla semplice sala di preghiera per pochi fedeli al grande tempio, chiesa, sinagoga o moschea che sia».
Gli effetti, conclude la corte, si proiettano nella compressione della libertà di culto, «senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione dal punto di vista del perseguimento delle finalità urbanistiche che le sono proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost.».
Parimenti censurate le norme che prevedono che il PAR non possa essere approvato «separatamente da un nuovo strumento di pianificazione urbanistica (PGT o variante generale)», facendo sì che «le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e il quando dell’intervento».
Il perimetro delle norme dichiarate incostituzionali determina all’evidenza una forte compressione della libertà religiosa, spingendosi – nella sua effettività – ad escludere la libertà di culto, senza un correlato interesse pubblico al corretto e armonico sviluppo territoriale, oltre a invadere una competenza esclusiva dello Stato.
La laicità segna una valenza neutra dell’ordinamento rispetto ai “credo”[11], personali e collettivi, in una dimensione etica del vivere civile che non tollera limitazioni o discriminazioni, senza trascurare (e non lo dobbiamo nascondere) che ogni “fede” riversa valori di vita e del mondo che incidono sull’organizzazione e la stabilità stessa delle relazioni giuridiche di ogni comunità sovrana.
[1] Corte Cost., 8 ottobre 1996, n. 334.
[2] Corte Cost., 14 novembre 1997, n. 329.
[3] Regolazione che può ritenersi necessaria solo se e in quanto a determinati atti di culto vogliano riconnettersi particolari effetti civili, Corte Cost., 24 novembre 1958, n. 59.
[4] Corte Cost., 10 marzo 2016, n. 52.
[5] I luoghi di culto rientrano tra le «attrezzature di interesse comune» che devono essere previste dagli strumenti urbanistici al fine di soddisfare gli standard fissati da decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, mentre l’art. 16, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 ha stabilito che gli oneri di urbanizzazione secondaria riguardano anche «chiese e altri edifici religiosi».
[6] Corte Cost., sentenze nn. 272/2013, 102/2013, 6/2013.
[7] Cfr. Corte Cost., 23 febbraio 2016, n. 63, sulla prevalenza dell’interesse pubblico, di rango costituzionale, alla realizzazione di un edificio di culto.
[8] Si rinvia al contributo di chi scrive, Libertà di culto o di pianificazione urbana, mauriziolucca.com, agosto 2018 e La libertà di culto (non) può essere una scelta discrezionale, mauriziolucca.com, ottobre 2018.
[9] Corte Cost., sentenze nn. 203/1989, 259/1990 e n. 195/1993.
[10] Infatti, il rilevante numero di persone che entra in un immobile, in determinati orari e in occasione di feste religiose, palesa un utilizzo dei locali non compatibile con una destinazione commerciale, con la conseguenza che il cambio d’uso per la destinazione al culto, per il significativo aggravio di carico urbanistico che comporta, necessita del previo rilascio di un permesso di costruire, T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 30 settembre 2019, n. 2053.
[11] La “laicità”, fa pen-dànt con il sostantivo “neutralità” non indifferenza, avulso da ogni discriminazione basata sulla religione, ex art. 3 Cost., Corte Cost., sentenza n. 203 del 1989.