L’articolo 10 bis della Legge n. 241/90, stabilisce l’obbligatorietà della comunicazione dei motivi ostativi – nei procedimenti ad istanza di parte – prima della formale adozione di un provvedimento negativo: la comunicazione è finalizzata alla instaurazione di una ulteriore fase di contraddittorio procedimentale, che si suole definire di contraddittorio c.d. predecisorio: il contraddittorio predecisorio consente al richiedente di articolare fino ad un momento prima del provvedimento negativo, ulteriori ragioni a sostegno della propria posizione di interesse legittimo e permette, al tempo stesso, una utile rimeditazione della vicenda alla amministrazione procedente alla quale vengono forniti nuovi elementi di valutazione che non possono essere ignorati.
L'istituto del preavviso di diniego, sorto con il chiaro intento di potenziare la dialettica procedimentale in una ottica di favore per il privato, finisce con l’assicurare che ogni momento del procedimento immediatamente precedente alla sua decisione terminativa sia utile all’amministrazione per pervenire alla scelta discrezionale migliore: per questa ragione, l’amministrazione deve prescegliere una condotta procedimentale capace di assicurare effettività al contraddittorio predecisorio piuttosto che giovarsi dello schermo protettivo fornitole dall’art. 21 octies della Legge n. 241 del 1990, specie quando la riduzione a zero della discrezionalità amministrativa è tutt’altro che un esito scontato del procedimento (T.A.R. Lazio – Latina, sez.I, 19 maggio 2010, n. 876).
Si tratta di una fase procedimentale di garanzia e deflattiva del contenzioso che non interrompe i termini del procedimento per iniziare nuovamente ma “per concludere il procedimento” si “sospende” per “riprendere” a decorrere una volta acquisite le osservazioni o alla scadenza del termine di dieci giorni per controdedurre.
Il preavviso di rigetto (rectius la comunicazione) interrompe la fase procedimentale, segnando un preciso limite all’attività del responsabile del procedimento che deve necessariamente attenersi alla ripresa dei termini iniziali (evidenziando l’effetto interruttivo del termine) per la conclusione del procedimento (iniziano nuovamente a decorrere), atteso che l’interruzione dei termini è posta non già alla presentazione delle osservazioni, bensì alla comunicazione del progetto di diniego, osservando dunque che tale comunicazione si pone come il momento centrale del nuovo sub procedimento che viene a incardinarsi per effetto della determinazione volta a respingere la richiesta dell’istante: vi è la certezza che vi sia continuità della fase procedimentale, perché viene meno l’effetto interruttivo a favore di un arresto non definitivo del procedimento: una vera e propria quiescenza.
Il T.A.R. Friuli Venezia Giulia, sez. I con la sentenza 21 giugno 2013, n.358 si riallinea affermando che l’art. 10 bis della Legge 241/1990, introdotta dall’art. 6 della Legge 11 febbraio 2005, n.15, riveste, invero, un ruolo fondamentale nello svolgimento delle funzioni ampliative o conformative della posizione giuridica del privato, che non può essere svilito a mero onere formale e, neppure, a quello di adempimento istruttorio.
Questa fase (post istruttoria – pre – decisoria) impone all’Amministrazione di comunicare al richiedente i motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza prima di adottare un provvedimento sfavorevole.
L’obiettivo mira a dar luogo ad un contraddittorio endo-procedimentale a carattere necessario, anticipando di fatto il meccanismo dialettico che ha luogo nel processo, e comporta, in capo all’Amministrazione, il conseguente obbligo di esplicitare, nella motivazione del provvedimento definitivo di carattere sfavorevole, le ragioni che portano a disattendere le controdeduzioni partecipative formulate dal privato.
I giudice di prime cure, si sofferma nell’evidenziare che pur essendo vero che l’obbligo di dare conto delle ragioni del mancato accoglimento delle osservazioni presentate a seguito della comunicazione dei motivi ostativi non impone all'Amministrazione una formale e analitica confutazione in merito di ogni argomento esposto, essendo sufficientemente adeguata, alla luce dell'art. 3 della stessa legge, un’esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle loro deduzioni partecipative (ex multis T.A.R. Calabria – Catanzaro, sez. I, 7 novembre 2012, n.1041; T.A.R. Campania – Napoli, n.3072 del 2012), è altrettanto vero, tuttavia, che il privato deve essere messo nelle condizioni di capire le ragioni logico-giuridiche poste a sostegno del definitivo diniego, viepiù, quando, le sue argomentate osservazioni hanno messo in luce elementi non precedentemente emersi e rispetto ai quali l’Amministrazione non ha assolutamente preso posizione all’esito dell’istruttoria svolta.
In questa vicenda, è da acclarare che la motivazione del provvedimento amministrativo è intesa a consentire al cittadino la ricostruzione del percorso logico e giuridico mediante il quale l'Amministrazione si è determinata ad adottare un dato provvedimento, controllando il corretto esercizio del potere ad esso conferito dalla legge, soprattutto ove l’interessato presenti una dettagliata memoria che entra nel procedimento (e deve essere valutata in sede di provvedimento finale).
Alcuna parte della giurisprudenza ritiene nullo il provvedimento se l’Amministrazione non esamina le osservazioni formulate dal privato: se è vero infatti che non sussiste l’obbligo di accogliere le controdeduzioni presentate, sussiste però il dovere di prenderle in considerazione: la funzione della partecipazione del cittadino all’atto amministrativo – attraverso la prospettazione di osservazioni e controdeduzioni – è quella di far emergere gli interessi, anche solo privati, che poi l’azione amministrativa dovrà valutare, così da orientare correttamente ed esaustivamente la stessa scelta della P.A. con una ponderata analisi di tutti gli elementi coinvolti, per raggiungere l'interesse pubblico (T.A.R. Torino, 30 giugno 2011, n.718).
È noto che il provvedimento amministrativo nel quale non si dia conto delle motivazioni in risposta alle argomentate osservazioni proposte dal privato a seguito dell'avviso dato ai sensi dell’art. 10 bis della Legge n.241 del 1990 – limitandosi l’Amministrazione ad affermare in modo apodittico e con formula di mero stile che non emergono nuovi elementi tali da far volgere la decisione in senso favorevole – è illegittimo, richiedendo tale norma di dare espressamente conto delle ragioni che hanno portato a disattendere le controdeduzioni formulate (Cons. Stato, sez. IV, sent. n.1834 del 31 marzo 2010).
Per altri versi, il “divieto di integrazione giudiziale della motivazione” non ha carattere assoluto: per esempio, per quanto concerne la possibilità di una successiva indicazione di una fonte normativa non prima menzionata nel provvedimento, quando questa, per la sua notorietà, ben avrebbe potuto e dovuto essere conosciuta da un operatore professionale (Cons. Stato, sez. IV, 9 ottobre 2012, n.5257).
Il principio del divieto di integrazione postuma, invero, anche in relazione al sopravvenuto disposto del comma 2 dell'art. 21 octies Legge n.15/2005, nella giurisprudenza più recente ha subito una evoluzione, che tende ad attenuarne le conseguenze, “dequotando il relativo vizio tutte le volte in cui la omissione di motivazione successivamente esternata non abbia leso il diritto di difesa dell'interessato, e comunque in fase infraprocedimentale fossero state percepibili le ragioni sottese all’emissione del provvedimento gravato” (Cons. Stato, sez. IV, 7 giugno 2012, n. 3376 e sez. III, 21 gennaio 2013, n.304).
Da queste premesse, si giunge a ritenere illegittimo l’atto definitivo la cui motivazione si limita a riproporre le motivazioni esplicitate nel preavviso di diniego e ad affermare che la memoria partecipativa della ricorrente “evidenzia una serie di questioni che non paiono fondate” proprio alla luce delle dette motivazioni, che, però, non affrontano minimamente la problematica evidenziata dal privato in sede di presentazione delle memorie.
Traspare, sostiene il Tribunale, quel difetto di motivazione (e di istruttoria) che la giurisprudenza ha più volte evidenziato quale elemento idoneo ad inficiare la legittimità del provvedimento (cfr. T.R.G.A. – Trento – 16 gennaio 2013, n. 13; T.A.R. Campania – Napoli, sez. III, 15 dicembre 2009, n. 8753, T.R.G.A. – Trento, 17 ottobre 2006, n. 342), e questo ne rispetto dei principi regolanti il corretto esercizio dell'azione amministrativa, in particolare enunciati nell'art. 3 della Legge 7 agosto 1990 n. 241, in virtù dei quali ogni atto amministrativo deve essere adeguatamente e compiutamente motivato, in special modo quando il suo contenuto abbia portata sfavorevole nei confronti del destinatario.
Dall’insieme si approda alla massima che è illegittimo, per difetto di istruttoria e di motivazione, il provvedimento che non valuti le memorie del privato nel caso in cui la P.A., dopo aver inviato la comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 e segg. Legge n. 241 del 1990 (o 10 bis, il preavviso di rigetto), abbia omesso di considerare e valutare le osservazioni presentate dall’interessato; infatti, l’omessa valutazione da parte dell’autorità emanante delle deduzioni prodotte nel corso del procedimento dall’interessato si traduce in un vizio del provvedimento, atteso che grava sull’Amministrazione, pena la vanificazione delle ragioni sottese al principio di partecipazione e del contraddittorio procedimentale, l’obbligo di esplicitare i motivi del mancato adeguamento alle osservazioni difensive svolte dai soggetti intervenuti nel procedimento (T.A.R. Campania – Salerno, sez. I, 14 febbraio 2013, n. 383).
Il difetto di motivazione, pur restando sempre e comunque un vizio di legittimità sul piano formale, per sua natura costituisce lo strumento tipico per l'analisi funzionale del provvedimento, secondo l'antico insegnamento della giurisprudenza precedente la Legge n.241/1990 che, nell’ambito della tradizionale tripartizione consacrata nell'art. 26 del T.U. C.d.S. 26 giugno 1924, n. 1054 (e poi riconfermata dall'art. 2 della legge TAR 6 dicembre 1971, n. 1034), aveva via via costruito il difetto di motivazione quale tipico elemento sintomatico dell’eccesso di potere (come risulta dagli stessi atti parlamentari della Legge n.241).
Il difetto di motivazione, quindi, nell’ottica sostanziale sull’azione amministrativa, ha rilievo quando – menomando in concreto i diritti del cittadino ad un comprensibile esercizio dell’azione amministrativa – costituisce un indizio sintomaticamente rivelatore del mancato rispetto dei canoni di imparzialità e di trasparenza, di logica, di coerenza interna e di razionalità; ovvero appaia diretto a nascondere un errore nella valutazione dei presupposti del provvedimento (Cons. Stato, sez. IV, 9 ottobre 2012, n.5257).