La sesta sez. del Consiglio di Stato, con la sentenza 29 agosto 2019 n. 5934 (estensore Caputo) definisce i poteri di tutela esecutoria dell’Amministrazione in presenza di occupazioni da terzi sine titulo quando agisca in area appartenente al patrimonio disponibile, dove l’esercizio di tale potere autoritativo non trova fondamento, dovendo ricorrere alle comuni azioni possessorie o della rei vindicatio civilistica.
È noto che sono soggetti al regime del demanio pubblico i beni indicati dagli artt. 823 e 824 c.c., e, in tale materia, non è possibile ipotizzare la modifica della titolarità del bene per effetto di comportamenti occupativi o di impossessamento da parte dei privati, stante il divieto di usucapione del demanio di cui all’art. 823 c.c.[1].
Il potere di autotutela demaniale, ai sensi dell’art. 378 della Legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato F), legittima la P.A. ad esercitare la tutela possessoria in presenza dell’apposizione di limiti od occupazioni da parte del privato: il potere esercitato attraverso l’ordinanza di sgombero non è riducibile all’azione possessoria privatistica (ex artt. 1168 e ss. cod. civ.) ma è correlato alla finalità di ripristinare la disponibilità del bene pubblico in favore della collettività, a prescindere dalle modalità concrete nelle quali si è giunti all’occupazione abusiva in via di fatto e quali ne siano le cause[2].
L’autotutela demaniale si collega, pertanto, al regime dominicale del bene pubblico, in coerenza con le funzioni amministrative di disciplina, ordinata gestione e uso del bene medesimo e con l’esigenza di “reagire” rispetto a condotte appropriative o usurpative di carattere privato: il potere coercitivo è espressivo dei principi di autotutela possessoria pubblica finalizzato all’immediato ripristino dello stato di fatto preesistente, in modo da reintegrare la collettività nel godimento del bene[3].
Dunque, l’autotutela possessoria esige come presupposto lo sgombero dei beni pubblici del patrimonio indisponibile occupati abusivamente al fine di recuperarne illegittimamente il possesso: l’esercizio della c.d. potestà d’autotutela “esecutiva”, è riservata esclusivamente ai beni rientranti nella nozione di beni pubblici, ex artt. 823 – 824 cod. civ.: il potere di ordinanza del Sindaco (di sgombero e di rimozione degli ostacoli frapposti) si rinviene quando l’immobile viene asservito ad un uso pubblico, in forza di un atto amministrativo che ne vincola la destinazione a un fine primario d’interesse generale: in assenza di tale destinazione, la P.A. è obbligata ad avvalersi dei mezzi ordinari concessi dall’ordinamento giuridico a tutela e difesa della proprietà e del possesso, al fine di recuperarne la disponibilità[4].
Qualora, infatti, il bene pubblico appartenga al patrimonio disponibile, l’Amministrazione è tenuta ad avvalersi dei mezzi ordinari di tutela previsti dal codice civile con l’obbligo di motivare, in modo specifico e articolato, le ragioni della scelta della sua pretesa[5].
Fatte queste premesse introduttive e di contesto, ed entrando nel caso affrontato dai giudici di Palazzo Spada, l’appellante ricorre contro il pronunciamento di primo grado[6] per l’annullamento di un’ordinanza sindacale, contenente l’ordine di rilascio dell’area di proprietà comunale occupata sine titulo dal ricorrente e l’ingiunzione a rimuovere le opere ancora esistenti sulla base delle seguenti considerazioni:
- assenza dei presupposti di fatto e di diritto richiesti per l’esercizio del potere autoritativo di rilascio illico et immediate dell’area;
- in presenza di un bene del patrimonio disponibile, il Comune non avrebbe potuto esercitarsi l’autotutela amministrativa;
- il recupero del bene avrebbe dovuto seguire gli ordinari strumenti giurisdizionali.
In primo grado, il TAR ha respinto il ricorso, rinvenendo nella destinazione della porzione di fondo in oggetto ad «area verde pubblica destinata al percorso pedonale e verde pubblico» il presupposto per l’esercizio del potere autoritativo di recupero della res publica.
I giudici di appello, alla luce delle motivazioni che seguono, dichiarano il ricorso fondato:
- il potere c.d. di polizia demaniale, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, ammette il potere di autotutela esecutiva, previsto all’art. 823, comma 2, c.c., presupponendone il previo accertamento della natura di bene patrimoniale indisponibile del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria pubblicistica;
- di converso, quando il bene pubblico viene ricompreso nel patrimonio disponibile dell’Ente non è affatto recuperabile autoritativamente sebbene mediante l’esercizio della tutela privatistica, a mezzo delle azioni possessorie o della rei vindicatio
Le argomentazioni che precedono portano a statuire che la res pubblica, non appartenente al demanio necessario, assume il regime giuridico proprio dei beni patrimoniali indisponibili in quanto destinati ad un pubblico servizio a due concorrenti condizioni:
- la presenza della manifestazione di volontà dell’Ente titolare del diritto reale pubblico, desumibile da un espresso atto amministrativo da cui risulti la specifica volontà dell’Ente di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio;
- nonché (congiuntamente) l’effettiva ed attuale destinazione del bene a pubblico servizio[7];
- in assenza dell’effettiva ed attuale utilizzazione, in conformità della destinazione ad esso impressa, la determinazione amministrativa di destinare quel determinato bene ad un pubblico servizio non è sufficiente per l’esercizio del potere previsto all’art. 823, comma 2, c.c.[8].
Il quadro fattuale e le considerazioni ermeneutiche esigono che non è sufficiente l’astratta destinazione del bene a verde pubblico per l’esercizio del potere autoritativo di rilascio dell’area di proprietà comunale occupata sine titulo dal ricorrente e l’ingiunzione a rimuovere le opere ancora esistenti, dovendo verificare concretamente la destinazione del bene, secondo i parametri sopra elencati.
Tale attività istruttoria avrebbe portato, come è stato dimostrato in giudizio, che il bene rientra nel patrimonio disponibile, con la conseguenza giuridica che il Comune non avrebbe potuto esercitare l’autotutela amministrativa: il recupero del bene avrebbe dovuto seguire le vie contrassegnate dagli strumenti giurisdizionali ordinari.
Di converso, l’Amministrazione non ha fornito prova dei requisiti presupposti per l’esercizio del potere di autotutela esecutiva civilisticamente intesa, poiché incombe su di essa, ai sensi dell’art. 2697 c.c. in combinato disposto dell’art. 823, comma 2, c.c., l’onere di dimostrare in giudizio (i fatti che costituiscono il fondamento e quindi) la sussistenza di entrambe le condizioni per la configurabilità in concreto della natura di bene patrimoniale indisponibile dell’immobile di cui si intende esercitare la tutela: non è stata dimostrata dal Comune nemmeno l’effettiva ed attuale destinazione del bene a servizio pubblico.
Il pregio della sentenza è di aver riaffermato i requisiti necessari per l’autotutela esecutiva che non può prescindere dalla dimostrazione ex ante del regime giuridico del bene che deve rientrare nella nozione di «patrimonio indisponibile», senza alcuna possibilità di aver una destinazione particolare ma (al contrario) una destinazione generale che non tollera diritti da parte di privati (nemmeno con una occupazione ultraventennale).
Occorre, per l’esercizio dei poteri autoritativi (rectius ordinanza di sgombero) la destinazione a un pubblico servizio con un doppio requisito:
- IL PRIMO: la manifestazione di volontà, mediante un apposito provvedimento del comune titolare del diritto reale pubblico;
- IL SECONDO: l’effettiva e attuale destinazione del bene al pubblico servizio, non essendo sufficiente la sola determinazione del Comune per imprimere al bene il carattere di indisponibilità.
Giova, allora, rammentare che i beni patrimoniali indisponibili, come quelli demaniali, assolvendo la comune destinazione alla soddisfazione di interessi pubblici, possono essere attribuiti in godimento a privati soltanto nella forma della concessione amministrativa, la quale, anche quando si configuri come concessione-contratto – vale a dire come combinazione di un negozio unilaterale autoritativo (atto deliberativo) della P.A. e di una convenzione attuativa (contratto) –, implica sempre l’attribuzione dal privato di un diritto condizionato, che può essere unilateralmente soppresso dall’Amministrazione stessa con la revoca dell’atto di concessione, in caso di contrasto con il prevalente interesse pubblico, con la conseguenza che, emesso il relativo provvedimento amministrativo, con l’intimazione della restituzione del bene, la posizione del privato stesso degrada ad interesse legittimo ed è suscettibile di tutela davanti al giudice amministrativo e non in sede di giurisdizione ordinaria[9].
[1] T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 4 febbraio 2016, n.1680.
[2] Cons. Stato, sez. V, 30 aprile 2015, n. 2196; sez. VI, 26 aprile 2018, nn. 2519 e 2520.
[3] Cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. IV, 3 dicembre 2018, n. 2725.
[4] T.A.R. Campania, Salerno, sez. I, 3 ottobre 2016, n. 2218.
[5] Cons. Stato, sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554.
[6] T.A.R. Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, sentenza n. 364/2012.
[7] Cfr. Cass. Civ., S.U., 25 marzo 2016, n. 6019; Cons. Stato, sez. IV, 30 gennaio 2019, n. 513; Cass. Civ., S.U., 28 giugno 2006, n. 14685.
[8] Cfr. Cass. Civ., S.U., 15 luglio 1999, n. 391.
[9] Cass. Civ., S.U., 23 giugno 1993, n. 6950.