Le ordinanze contingibili e urgenti, emesse dal sindaco, non debbono per forza avere sempre il carattere della provvisorietà, dato che il loro connotato essenziale è la necessaria idoneità delle relative misure ad eliminare la situazione di pericolo che costituisce il presupposto della loro adozione, e quindi le misure stesse possono essere provvisorie o definitive a seconda del tipo di rischio che intendono fronteggiare, nel senso che occorre avere riguardo alle specifiche circostanze di fatto del caso concreto e allo scopo pratico perseguito attraverso il provvedimento sindacale (cfr. T.A.R. Veneto, sez. III, 7 luglio 2010, n.2887).
La scelta dell'Amministrazione di provvedere a porre rimedio ad una determinata situazione con l’emanazione di un’ordinanza contingibile ed urgente a tutela dell’igiene e della sanità pubblica, nonché della sicurezza dei cittadini, in quanto concerne il merito dell’azione amministrativa sfugge al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, quando non risulta manifestamente inficiata da illogicità, arbitrarietà, irragionevolezza, oltre che da travisamento dei fatti (cfr. Consiglio Stato, sez. V, 28 settembre 2009, n. 5807).
Peraltro, l’attualità della minaccia per l’incolumità pubblica e l’igiene esclude rilevanza al fatto che la situazione di pericolo fosse nota da tempo attese che la giurisprudenza ha precisato più volte che presupposto per l'adozione dell'ordinanza contingibile è la sussistenza e l'attualità del pericolo, cioè del rischio concreto di un danno grave e imminente, a nulla rilevando neppure che la situazione di pericolo fosse nota da tempo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 marzo 2008, n.1322).
Da queste premesse introduttive, il sindaco procede a notificare un’ordinanza disponendo la rimozione delle fioriere, panchine e vasi che insistono in una via del centro abitato, nella parte esterna alla carreggiata non asfaltata prospiciente il muro di cinta del giardino pertinenziale dell’edificio di proprietà di un privato cittadino.
L’ordinanza viene impugnata per la violazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 241 del 1990 (mancata partecipazione al procedimento) e perché una precedente comunicazione faceva riferimento a problematiche inerenti l’occupazione di suolo pubblico, mentre il provvedimento notificato è motivato con la necessità di evitare che tali manufatti siano lasciati in stato di abbandono, divenendo ricettacolo di sporcizia e deposito rifiuti, causa di propagazione di vegetazione infestante con conseguenti problematiche igienico sanitarie, e per prevenire situazioni di intralcio alla circolazione veicolare e pedonale che siano causa di situazioni di pericolo.
Inoltre, nelle doglianze si lamenta il difetto di istruttoria e di motivazione (ex art.3 della legge n.241 del 1990), l’illogicità e la disparità di trattamento in quanto non è comprovata la sussistenza delle condizioni di degrado indicate nell’ordinanza, e in mancanza delle fioriere e delle panchine vi è il rischio che vengano parcheggiate delle automobili, mettendo a rischio lo stato di conservazione del muro di cinta, e comunque, come risulta dalla perizia allegata al ricorso, la striscia di terreno è di proprietà privata.
Il Comune si difende (si legge nella sentenza) soffermandosi sulla circostanza che l’amministrazione ha piena titolarità (ergo potere) nel disciplinare l’uso generale di quel suolo da parte della collettività essendo pacifico che sulle aree gravate da una servitù di passaggio su un'area privata, debba esercitare il potere diretto a garantire ed a disciplinare l'uso generale del bene da parte della collettività, nell'ambito del pubblico interesse giustificativo della servitù medesima, concedendo l’uso particolare (cfr. l’art. 38, comma 3, del Dlgs. 15 novembre 1993, n. 507, che infatti assoggetta ad autorizzazione e al pagamento della relativa tassa l’occupazione di suolo privato ad uso pubblico).
Nell’area oggetto di ordinanza tali poteri sussistono in quanto, quand’anche la striscia di terreno fosse da qualificare come privata, quell’area è sicuramente assoggettata all’uso pubblico, in quanto gravata da lunghissimo tempo da una servitù di pubblico passaggio pedonale costante ed indiscriminato a favore della generalità di persone.
Ne consegue che l’abusività dell’installazione delle fioriere e delle panchine è sufficiente a sorreggere l’ordine di rimozione e la presenza di tali manufatti è oggettivamente idonea a costituire un intralcio alla manutenzione del ciglio della strada, con conseguente degrado della stessa, ed intralcio alla circolazione dei veicoli e dei pedoni.
In sede di giudizio l’Amministrazione comunale ha dato prova (c.d. prova di resistenza) della piena cognizione del procedimento, da parte del destinatario, sin dal suo inizio, rectius con piena possibilità di partecipazione.
Il T.A.R. Veneto, sez. III, con la sentenza 22 aprile 2013 n. 595 si pronuncia respingendo il ricorso confermando la piena legittimità dell’ordinanza sindacale.
Sul punto, è noto che già nel diritto romano l’uso pubblico di un’area (strada) proveniva dalla sua destinazione ricavata dall’uso “immemorabile”, oltre che dalla loro funzionalità, quale collegamento a terreni e fondi interni ai villaggi (erano strade private o agrarie che conducevano hai terreni coltivati, per diritto di servitù su un fondo vicino).
L’articolo 19 della Legge 20 marzo 1865, n.2248, allegato F, le definisce come voce residuale di ciò che non rientrava in altre classificazioni di “strada comunale”, ovvero “tutte le altre strade non iscritte nelle precedenti categorie e soggette a servitù pubblica sono vicinali. Le strade vicinali sono soggette alla vigilanza delle Autorità comunali”.
L’articolo 1 del Decreto legislativo 1 settembre 1918, n. 1446, riferendosi alla definizione ricavata dal diritto romano di strada vicinale (quella privata ad uso pubblico), da considerare quella adibita non solo ad esclusivo uso dei fondi contigui (fondi di latistanti e in consecuzione) ma anche per il passaggio di chiunque avesse interesse ad usarle, dispone che “gli utenti delle strade vicinali, anche se non soggette a pubblico transito, possono costituirsi in Consorzio per la manutenzione e la sistemazione o ricostruzione di esse”.
Appare evidente che il carattere della titolarità del bene non è determinante al fine della sua qualificazione normativa, essendo necessario accertare di fatto la destinazione del bene, l’uso a cui è funzionale la strada che, per essere coerenti, va a determinare la sua natura: a servizio di un numero limitato di soggetti o una collettività indistinta (ergo transito pubblico o privato).
L’articolo 19 della Legge 12 febbraio 1958, n. 126 (“Disposizioni per la classificazione e la sistemazione delle strade di uso pubblico”), in questi termini pone una particolare definizione alle “strade vicinali” per ricomprendervi “tutte le altre strade non iscritte nelle precedenti categorie e soggette a pubblico transito sono vicinali”.
In breve, ciò che caratterizza la demanialità del bene non è la sua appartenenza ad un determinato soggetto o ente (pubblico o privato) ma l’uso a cui è funzionale la strada – il transito pubblico – cioè, oltre al transito dei proprietari frontisti e di quelli in consecuzione, è necessario l’ulteriore requisito dell’uso pubblico esercitato iure servitutis.
Sembra di capire che anche indipendentemente dall’utilizzo “da tempo immemorabile”, presupposto questo necessario solo in sede petitoria innanzi all’Autorità giudiziaria ordinaria, e della sopravvenienza di un’alterazione dei luoghi, questo non possa impedire la definizione di strada ad uso pubblico essendo sufficiente che vi sia la solo utilizzazione da parte della collettività.
Stabilito l’uso ne consegue il potere dell’Amministrazione di regolamentare il transito.
(estratto, La competenza del Comune sulle strade private (vicinali): natura giuridica e distinzioni in materia di uso pubblico, in L’ufficio Tecnico, 2004, n.2).