La seconda sez. del T.A.R. Liguria, con la sentenza 174 del 4 marzo 2019, segna i contorni della libertà di espressione nella possibilità di manifestare – senza riserve – mediante l’affissione di manifesti il proprio convincimento in tema di obiezione di coscienza in ambito sanitario abortivo: involge «un tessuto assiologico di preminente rilevanza ordinamentale», che dipana tra le libertà fondamentali e i diritti incomprimibili della persona, esprimendo una serie di facoltà primarie inerenti la persona, «la libertà di autodeterminazione circa la scelta, di rilievo bioetico, di avvalersi della clausola di obiezione di coscienza da parte dei medici richiesti di praticare l’interruzione volontaria di gravidanza».
La giurisprudenza penale[1] ammette che integra il delitto di rifiuto di atti di ufficio la condotta del medico in servizio di guardia che, richiesto di assistere una paziente sottoposta ad intervento di interruzione volontaria di gravidanza, si astenga dal prestare la propria attività nelle fasi antecedenti o successive a quelle specificamente e necessariamente dirette a determinare l’aborto, invocando il diritto di obiezione di coscienza, attesi i limiti previsti dall’art. 9 legge 22 maggio 1978, n. 194, all’esercizio di tale facoltà.
La questione presenta, quindi, una forte valenza (bio)etica sotto una molteplicità di profili umani, sociali, professionali.
Nasce dal rifiuto di un dirigente comunale delle entrate di affiggere – tramite il servizio comunale di affissione – i manifesti della campagna informativa nazionale “Non affidarti al caso”, promossa da un’associazione.
Viene impugnata la nota con la quale il Comune ha imposto all’associazione «la modifica contenutistica del bozzetto di manifesto pubblicitario inerente alla campagna di informazione relativa all’obiezione di coscienza in ambito sanitario».
Nello specifico, si è ritenuto che il manifesto, «da pubblicarsi nelle vie cittadine con formato di 100 x 70 cm, fosse lesivo della libertà di coscienza individuale nonché dei diritti delle confessioni religiose».
Le contestazioni del ricorso sono relative a:
- l’esercizio di un controllo di merito, in ordine al contenuto del manifesto in contrasto con le prescrizioni del D.Lgs. n. 507/1993 che legittimerebbe in capo all’Amministrazione soltanto un potere di controllo formale e in negativo, consistente nella possibilità di rifiutare la pubblicazione di affissioni manifestamente oscene o incitanti all’odio razziale.
- le prescrizioni imposte dall’Amministrazione lederebbero la libertà di manifestazione di pensiero e di associazione (ex 21 e 18 Cost.), comportando una discriminazione rispetto all’approvazione di altre forme di affissione (manifesto relativo alla campagna “Pro vita”).
Il Tribunale accoglie il ricorso perché fondato; con una prima serie di precisazioni per inquadrare la disciplina di riferimento:
- l’obiezione di coscienza, disciplinata dall’art. 9 della Legge n. 194/1978«Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza», costituisce il legittimo rifiuto da parte di medici (e il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie) di ottemperare all’obbligo sancito dalla legge che regolamenta l’interruzione volontaria della gravidanza per motivi inerenti alla coscienza individuale, con l’effetto di esonerare l’obiettore dal compimento delle procedure e delle attività specificamente e necessariamente dirette a determinare l’interruzione della gravidanza (ma non dall’assistenza antecedente e conseguente all’intervento).
- le motivazioni che fondano l’opzione dell’obiezione di coscienza possono, a ben vedere, rinvenirsi in istanze di carattere religioso, morale o ideologico.
Il Giudice analizza la dimensione religiosa, evidenziando come «la religione cattolica, fin dai primi riferimenti scritturali e apostolici, disapprova l’aborto come peccato mortale, concretantesi in un atto di disposizione del bene vita da parte dell’uomo, potendo – invece – quest’ultimo essere (dato e) tolto soltanto da Dio», rilevando, tuttavia, che, in relazione al multiculturalismo raggiunto dalla società moderna, le posizioni contrarie all’obiezione di coscienza possono anche prescindere da un determinato credo religioso.
Fatte queste premesse, si passa all’analisi de visu del manifesto sanzionato, ritenendo che si associ il simbolo della fede cattolica alla tradizionale posizione teologica e dottrinale contraria all’aborto che le è propria, che secondo l’Amministrazione resistente il bozzetto «lederebbe la libertà di coscienza individuale, nonché il rispetto e la tutela dovuti ad ogni confessione religiosa, a chi la professa e ai ministri di culto, nonché agli oggetti di culto».
Tale motivazione, sentenzia il giudice di prime cure, seppure richiama i principi costituzionali asseritamente violati (ex artt. 2, 13, 19 e 21 Cost., diritti della personalità, libertà personale, libertà religiosa e libertà di pensiero), presenta connotati di genericità tali da renderla inidonea ad esprimere il concreto ed attuale bilanciamento degli interessi sottesi alla determinazione della P.A.: non sono espresse le ragioni «per le quali il rispetto per la religione cattolica sarebbe vulnerato dall’associazione del simbolo religioso alla relativa posizione dottrinale, né le ragioni per le quali il rispetto per altre confessioni religiose – non coinvolte dalla campagna sul piano iconografico – ne risulterebbe comunque leso».
In termini più popolari: “Manca il contesto”.
Il bozzetto presentato «si limita ad accostare il simbolo religioso all’orientamento teologico tradizionalmente espresso dalla religione cattolica in merito all’interruzione volontaria di gravidanza, e pone l’accento sulla necessaria ponderazione nella scelta del medico curante da parte delle pazienti che intendano sottoporsi a detta pratica, posto che il medico che si avvalga della clausola di obiezione, non eseguirà la cura o l’intervento abortivo».
Valutando la legittimità (o meno) del divieto, e analizzando la disciplina comunale del Piano Generale degli Impianti Pubblicitari, si deve confrontare la lesione con il messaggio pubblicitario non riproducibile, ovvero quello che lede «il comune buon gusto», dovendo «garantire il rispetto della dignità umana e dell’integrità della persona», senza «comportare discriminazioni dirette o indirette , né contenere alcun incitamento all’odio basato su sesso, razza o origine etnica, religione o convinzioni personali, disabilità, età o orientamento sessuale, non deve contenere elementi che valutati nel loro contesto, approvino, esaltino o inducano alla violenza contro le donne, come da Risoluzione 2008/2038 (INI) del Parlamento Europeo»[2]: nulla di tutto ciò è presente nel manifesto.
Il Collegio termina ritenendo non configurabile nemmeno un’ipotetica lesione delle scelte religiose nella ormai datata querelle tra “religione e scienza”, atteso che il messaggio risulta circoscritto «alla campagna contro l’obiezione di coscienza in campo abortivo, il significato immediatamente ritraibile è quello di un invito, questo sì razionale e non illogico, ad informarsi presso il proprio medico dei suoi orientamenti in tema di obiezione di coscienza».
Per non essere frainteso, il Tribunale, si sofferma a chiarire, in altre parole, che la valenza lesiva del simbolo, e più in generale di un messaggio, «deve essere valutata relativamente ai significati ordinariamente estraibili dal veicolo e non con riferimento a tutti gli ipotetici significati in relazione alle singole sensibilità soggettive. In definitiva occorre estrarre dal manifesto il suo significato ordinario e valutare sulla base di quello l’idoneità del messaggio a ledere la sensibilità altrui».
Si potrebbe dire, in una visione di spinta attualità (e fuori tema), che siamo di fronte ad un’attività di astrazione epistemologica che deve spaziare al di fuori delle singole convinzioni (umane e individuali) per raggiungere la dimensione neutra del pensiero postmoderno, in una fase dello sviluppo – durevole e sostenibile – caratterizzato dalle dimensioni planetarie delle idee, dalle connessioni neurali a rete, dove il distacco dal reale al virtuale (digitale/IA) assume dimensioni del c.d. pensiero unico, valido nella sua totalità, poiché non appartenente ad una singola cultura (anche religiosa) o territorio ma, parafrasando la ragione più liquida ed assorbente, si può parlare della categoria “cittadino del mondo” in uno standard senza un’identità definita.
Invero, la questione affronta una discussione politica e sociale risalente nel tempo (ben 41 anni fa), con un impianto normativo frutto di lotte e di libertà contese, di diritti a volte negati: l’art. 1 della Legge n. 194/1978 recita: «Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. L’interruzione volontaria della gravidanza, di cui alla presente legge, non è mezzo per il controllo delle nascite. Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie funzioni e competenze, promuovono e sviluppano i servizi socio-sanitari, nonché altre iniziative necessarie per evitare che l’aborto sia usato ai fini della limitazione delle nascite».
Il messaggio, nella sua essenzialità e terzietà, «ha inteso promuovere la scelta consapevole, meditata e razionale del proprio medico di fiducia limitatamente al tema dell’interruzione della gravidanza, rendendo in questo modo cosciente il pubblico del fenomeno dell’obiezione di coscienza».
L’approdo porta a far emergere l’illegittimità del provvedimento per carenza di motivazione (ex art. 3 della Legge n. 241/1990), nonché della concreta non offensività del messaggio veicolato dal bozzetto.
Il Collegio per completezza di esame e fornire delle indicazioni all’Amministrazione civica sugli altri bozzetti presentati dall’associazione aggiunge:
- la dicitura «Gli ospedali sono purtroppo pieni di ginecologi obiettori, spesso assunti e promossi proprio per la loro adesione alla dottrina cattolica. Non sono infrequenti i casi in cui ostacolano l’intenzione di interrompere una gravidanza», è idonea a minare l’integrità professionale dei medici obiettori di coscienza assunti nelle strutture ospedaliere, in quanto suggestivo del concetto secondo cui, tali medici, avrebbero conseguito l’accesso alla professione in ragione della loro appartenenza ad una determinata ideologia morale o religiosa e non in virtù di criteri selettivi fondati sul merito, integrando verosimilmente il reato di diffamazione (art. 595 c.p.), oltre a costituire una discriminazione indiretta vietata dalla disciplina comunale;
- diversamente la campagna pubblicitaria “Pro vita”, essendo il relativo manifesto inidoneo a ledere o discriminare la professionalità dei medici obiettori, atteso che il messaggio ivi veicolato – ancorché potenzialmente impattante sulla sensibilità dei fruitori – si limita a descrivere l’esito fisiologico di un’interruzione di gravidanza.
La sentenza apre altre considerazioni metagiuridiche, che appartengono al rapporto sul futuro dell’umanità e su noi stessi: una questione sempre aperta per alcuni, mentre per altri solo certezze, si tratta comunque di libertà.
[1] Cass. pen., sez. VI, 27 novembre 2012, n. 14979.
[2] Cfr. Risoluzione del Parlamento europeo del 3 settembre 2008 sull’impatto del marketing e della pubblicità sulla parità tra donne e uomini.